Come se Dio non ci fosse?
Gian Enrico Rusconi con Massimo Rosati
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Questo articolo è apparso sul numero di marzo-aprile 2001 di Reset
Professor Rusconi, Adam Seligman - un sociologo della religione
americano - ha appena pubblicato un libro in cui sostiene che le
società democratiche dovrebbero ritrovare una base trascendente quale
antidoto ad una cultura che piega l’individualismo in senso
strumentale ed atomistico. Nel suo ultimo lavoro, Come se Dio non ci
fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, lei sostiene una
posizione esattamente contraria.
La questione di individuare di “base trascendente come antidoto all’individualismo
strumentale e atomistico” l’ho affrontata nel mio precedente
lavoro intitolato Possiamo fare a meno di una religione civile?
Formulare la questione in maniera interrogativa non era un espediente
retorico, ma un modo esplicito di chiedersi se l’effetto di
integrazione civica e politica e quindi di solidarismo atteso dalla
“religione civile” (intesa secondo la classica versione
americana), portatrice di “valori trascendenti”, potesse essere
ricreato anche nel nostro paese, che notoriamente viene da tutt’altra
tradizione. La mia risposta era che la religione in Italia (che è
inevitabilmente religione-di-chiesa cattolica) poteva svolgere e
svolgeva di fatto un’ importante funzione di supplenza di religione
civile.
Il termine “supplenza” non era inteso in senso svalutativo. E
portavo alcun esempi di questo ruolo (la Chiesa che si schiera contro
il terrorismo, contro il secessionismo a favore dell’unità
nazionale, nella lotta alla criminalità mafiosa, nella promozione del
solidarismo sociale tramite il volontariato ecc.). Del resto anche nel
mio ultimo libro, che Lei cita, ho ripreso questi temi, riportandoli
all’ aspirazione della Chiesa oggi di presentarsi addirittura nella
veste di una “religione dei diritti”, in grado di offrire appunto
la “base trascendente” che sarebbe indispensabile a un autentico
civismo.
Ma nel corso della riflessione ho visto i limiti insuperabili di
questa supplenza, osservando da vicino (complice anche l’esibizione
dell’anno giubilare) l’uso selettivo e strumentale con cui la
Chiesa sceglie e interpreta i “diritti fondamentali”; ho
constatato gli equivoci dell’“ecumenismo dei valori” che unisce
solo epidermicamente laici e cattolici che poi si scoprono di fatto
profondamente divisi nella interpretazione e nella messa in pratica di
alcuni “diritti fondamentali”. Ma - badi bene - la proposta di
ricercare una nuova base di consenso civico-politico nell’assunto
dell’etsi Deus non daretur (“Come se Dio non ci fosse”) non è
affatto la negazione della necessità di valori che sono “trascendenti”
rispetto alle rivendicazioni di singoli e gruppi. Ne è piuttosto una
riformulazione radicalmente “laica” - un concetto questo che
notoriamente gli autori americani (compreso l’autore da Lei
ricordato) fanno fatica a capire. Il tema della laicità è
squisitamente europeo e dobbiamo affrontarlo con impianti teorici che
non possiamo importare da nessuna parte.
Aborto, eutanasia, preferenze sessuali, insegnamento della
religione nelle scuole, ricadute etiche delle biotecnologie: sono
questi i temi che dividono laici e cattolici. La democrazia dovrebbe
dibattere queste materie etsi Deus non daretur. Ma perché un credente
dovrebbe rinunciare alle sue convinzioni più profonde per entrare in
uno spazio pubblico “neutralizzato”?
Il credente non deve affatto “rinunciare alle sue convinzioni più
profonde”, deve semplicemente rinunciare ad imporle in maniera
autoritativa. Mai il credente, il cristiano, il cattolico hanno goduto
di tanta libertà di espressione e di affermazione delle loro credenze
e dei loro diritti culturali come nelle democrazie contemporanee.
Quello che la laicità della democrazia chiede loro è di non imporre
per via legislativa, con motivazioni inaccettabili a chi non la pensa
come loro, misure che questi ultimi (chiamati qui per comodità “laici”)
considerano lesivi delle loro libertà di scelta.
Detta così, la questione sembra astratta, anzi da tempo risolta, da
quando cioè esiste il cattolicesimo politico che si è integrato con
la democrazia. Da questo punto di vista, nel mio libro critico,
rivisitandola, la tesi classica di Hans Kelsen che, ai suoi tempi,
riteneva in linea di principio democrazia e verità religiosa tra loro
incompatibili. Eppure inaspettatamente questa tesi, considerata
obsoleta, sta acquistando una drammatica attualità per la qualità
dei problemi ora sul tappeto. Quando leggo le affermazione dell’autorevolissimo
cardinale Ratzinger, che mette in dubbio la legittimità delle
procedure parlamentari che consentono l’aborto, e parla di arbitrio
della maggioranza, di “maggioranza casuale”, di “assolutizzazione
del casuale”, rivendicando una “verità trascendente” che si
eleva a giudice di qualunque regime da lui considerato lesivo della
“dignità dell’uomo” - mi chiedo se non si riproponga in termini
diversi la polemica kelseniana.

Per l’uomo di Chiesa la democrazia come tale non si sottrae al
verdetto di illegittimità se contraddice quelle che lui definisce “verità
trascendenti”. In altre parole tra dogmatica cristiana e democrazia
non c’è alcun nesso di necessità. Ineccepibile sul piano storico,
questa tesi risulta controintuitiva per un numero crescente di
cattolici cresciuti in questi decenni nella democrazia. La questione
non è risolvibile con un lavoro esegetico di rilettura evangelica, ma
ripensando il concetto di laicità della democrazia.
E per un ebreo, o un mussulmano, è altrettanto difficile che per
un cattolico rinunciare ad imporre le proprie convinzioni religiose in
maniera autoritativa?
Non sono in grado di rispondere a questa domanda. Anzi sarei molto
interessato a saper qual è la reazione di un ebreo e di un mussulmano
alla nostra problematica. Verosimilmente l’ebreo potrebbe
sviluppare, sia pure in modo diverso, un concetto analogo di laicità.
Credo che sia più difficile per un mussulmano. Ma a questo proposito
occorrerebbe fare molte distinzioni all’interno di quello che noi
chiamiamo genericamente religione islamica.
Se invece tramite il Suo quesito allude al problema di come accogliere
e accettare le forme di espressione religiosa islamica nel nostro
paese, allora sono convinto (e tento di dimostrarlo nel mio libro) che
l’unica base di intesa è offerta dalla laicità dello Stato, non
dalla benevolenza delle altre religioni. Le sortite del cardinale
Biffi sono sintomatiche in proposito.
Secondo lei tra i nostri compiti vi è quello di ridefinire vita e
natura. La Chiesa cattolica, condannando l’“esibizione” di stili
di vita “innaturali” in occasione della polemica sul Gay Pride
difendeva proprio una certa idea di natura umana. Non crede che sia
questo il vero punto cruciale che separa laici e cattolici?
Esattamente. Questo è il punto. A ben vedere tutto l’investimento
di “verità” della dottrina cattolica si concentra oggi sui
concetti di “natura”, “vita” , “persona” in senso
psicofisico oltre che spirituale, ecc. Tutto il tradizionale apparato
teologico veritativo (riguardante Dio e Cristo, il concetto di
salvezza, espiazione ecc.) è quasi dimenticato o viene evocato solo
in modo surrettizio. La teologia si presenta solo come teologia morale
e questa a sua volta è concentrata su “natura” e “vita”. È
impressionante questa sorta di ossessione naturalistico-biologistica
del magistero della Chiesa.
Naturalmente la stessa problematica investe anche il pensiero laico
che non sa più che cosa sia esattamente la natura, dove incomincia e
dove finisce la vita, il concetto stesso di organismo umano, di
persona ecc. Ma qui si istaura la differenza decisiva: il laico è
alla ricerca di nuove “verità” che sono “relative” nel senso
che dipendono dai livelli della conoscenza scientifica, senza con ciò
perdere di vista il criterio etico fondamentale sintetizzato nella
formula kantiana dell’”uomo come fine e mai come mezzo”. Il
cattolico invece (almeno quello che segue la linea del magistero)
continua a ribadire le sue “verità assolute”, sia che si
riferiscano ad un concetto consolidato e univoco di “natura” sia
che si appellino a valori “trascendenti” autoritativamente
definiti.
Non vorrei che per ragioni di spazio questa posizione acquistasse
tratti caricaturali. Non è nelle mie intenzioni. Ma la differenza
rimane tra chi (il cattolico) possiede “le verità” e chi non le
possiede (il laico), non perché è scettico, agnostico o relativista
(come magari amava esibirsi un certo vecchio laicismo) ma
semplicemente perché i problemi sono enormi e c’è il pericolo di
sbagliarsi. L’etica del laico è quella di assumersi la possibilità
dell’errore davanti alla propria coscienza e conoscenza, perché
nessuno gli ha trasmesso “la verità”. Ma - non dimentichiamolo !
- qui stiamo parlando di natura , di corpo, di vita biologica.
La cultura laica e progressista non farebbe bene a cercare di più il
dialogo con quelle frange di pensiero teologico che rinunciano al
carattere autoritativo dei loro argomenti, considerandole come una
voce con pari oneri di giustificazione delle proprie posizioni
rispetto ad ogni altro partecipante alla discussione pubblica?
Certamente. Dirò di più, provocatoriamente, che è tempo che il
pensiero laico ricominci a riconsiderare seriamente la problematica
teologica in senso forte sia nella forma tradizionale sia nelle nuove
teologie nella misura in cui queste non svaporano in meri discorsi
etici edificanti. Nessun cedimento quindi alla new age con i suoi
ammiccamenti al sacro. Questo è il senso della mia riflessione laica
sul teologo Bonhoeffer (che in sorprendente associazione mi ha
riportato alla memoria alcune affermazioni di Adorno) e la ripresa di
tematiche del pensiero tedesco contemporaneo che si confronta con la
questione e il pensiero religioso. Mi permetto di rimandare il lettore
al capitolo del mio libro dedicato a Lübbe, a Böckenförde e ad
alcune pagine di Habermas. Tutto questo per dire che le questioni che
stiamo affrontando non sono il sottoprodotto dell’arretrata
provincia italiana ma sfidano al cuore il pensiero contemporaneo.
D’accordo, ma New Age a parte, non le sembra di trattare un po’
troppo male il sacro? In fondo, uno spirito rigoroso come Durkheim
insegnava proprio che del sacro, anche laicamente ripensato, non
possono fare a meno neanche le moderne democrazie. Non le sembra che
la religione abbia più spesso a che fare con il sacro che con Dio? In
fondo Dio, in materia di religione, è un po’ ‘l’ultimo arrivato’.
Capisco quello che Lei dice. Ma mi permetta, nella nostra
conversazione inevitabilmente sintetica, di collocarmi risolutamente
nella linea di pensiero che “diffida” del sacro, delle sue ambigue
manifestazioni e razionalizzazioni. Questo non vuol dire negarne la
presenza o la dimensione durkheimianamente sociale. Ma non è su
questo terreno che si muovono le mie riflessioni e proposte. Non a
caso mi sento in sintonia con Bonhoeffer che parlava addirittura di
cristianesimo non-religioso.
Lei definisce la democrazia in termini piuttosto simili a quelli
usati da Jürgen Habermas, ossia come “lo spazio pubblico
democratico entro cui i cittadini, credenti e non, si scambiano i loro
argomenti e attivano procedure consensuali di decisione”. Non si
tratta di definizione puramente procedurale della democrazia anche da
lei criticata in passato?
La democrazia discorsiva e procedurale (suggerita in questi termini da
Habermas, ma presente - come Lei sa - in molti filoni del pensiero
filosofico e politologico al di qua e al di là dell’Atlantico)
dovrebbe archiviare una volta per tutte l’uso improprio della
distinzione tra democrazia sostanziale (o dei valori) e la democrazia
formale (o delle procedure). Non si tratta di negare la fecondità
analitica di questa distinzione. Ma nel dibattito pubblico essa si è
incartapecorita in una contrapposizione sostantiva. Non a caso l’appello
alla democrazia sostanziale viene fatta dai cattolici quando i “valori”
da essi sostenuti non trovano implementazione legislativa - con il
sottinteso che quelli dei laici non sono “valori”, ma piuttosto
disvalori che si affermano soltanto tramite il formalismo delle
procedure. Come se i “valori” fossero delle entità metafisiche,
che uno possiede e l’altro no, e non fossero invece comportamenti
che diventano “argomenti” da scambiare nel dibattito pubblico che
finisce necessariamente nelle procedure per prendere decisioni.
Nella democrazia procedurale e discorsiva tutti i partecipanti sono
portatori di valore, per definizione. Il valore della laicità
consiste appunto nel definire la democrazia come lo spazio pubblico
entro cui tutti i cittadini,credenti e non, confrontano i loro
argomenti e attivano consensualmente processi decisionali, senza
chiedersi conto autoritativamente delle ragioni delle proprie verità
di fede o dei propri convincimenti. Ciò che conta è la reciproca
capacità di persuasione e la leale osservanza delle procedure.
Per dirla ancora con Habermas: le procedure sono ricche di
contenuti etici perché istituzionalizzano il principio dell’eguale
rispetto?
Sì. In questa ottica la formula “come se Dio non ci fosse” non è
una mera finzione a fini di intesa pragmatica, ma un atto di
intelligenza che pone laico e religioso sullo stesso piano - come
cittadini - pur partendo da motivazioni dissonanti. Su questo piano
né il primo né il secondo possono pretendere di avere qualcosa di
più rispetto all’altro: entrambi sono soli o, e si vuole, autonomi
nell’argomentare il senso morale del loro mondo personale e
collettivo e nel decidere. Questa è,ancora una volta, la definizione
della laicità. Se vogliamo insistere ancora nel parafrasare Habermas,
potremmo parlare di laicità deliberativa.

Contro alcune interpretazioni della secolarizzazione lei sostiene
che i valori idealmente alla base delle moderne democrazie, per
esempio i diritti umani, non possono essere considerati eredi di
princìpi cristiani. Modernità e tradizione ebraico-cristiana, in
altri termini, devono solo cercare un compromesso, un modus vivendi, o
possono al contrario condividere un nucleo di valori comuni?
In termini generalissimi è facile rispondere positivamente al quesito
se esiste un “nucleo di valori comuni” tra modernità e tradizione
ebraico-cristiana. Ma la questione diventa meno banale se andiamo a
cercare come si sono effettivamente affermati i “diritti umani” -
nel senso preciso e moderno del termine. Un grande intellettuale
cattolico, Jacques Maritain, ricordava ai cattolici che storicamente i
diritti fondamentali dell’uomo sono stati affermati e promossi non
già dalla Chiesa ma dal movimento laico, illuministico, in alcuni
casi scontrandosi violentemente con la Chiesa stessa.
In questa ottica acquista un significato ben diverso l’affermazione
(storicamente ineccepibile) delle “radici cristiane” dell’
Europa, che è uno dei motivi insistenti di questo Papato. Ancora
recentemente l’ha ripresa il Pontefice stesso nel suo accorato
rimprovero alla Carta europea dei diritti perché in essa non viene
nominato Dio. In questa sede non intendo insistere nella contestazione
dell’argomento che il riferimento a Dio sia la garanzia più solida
del rispetto dei diritti dell’uomo: storicamente infatti in nome di
Dio sono state legittimati anche delitti e massacri atroci. Ma la
convinzione della Chiesa di oggi che il riferimento a Dio svolga la
garanzia di difesa dei diritti umani fa parte (in buona fede) di una
lettura unilaterale della storia del Novecento come “secolo contro
Dio” in cui la Chiesa sarebbe stata presuntivamente una delle
vittime principali. È un aspetto di quell’unilateralismo nell’interpretazione
e promozione dei diritti umani , di cui parlavo sopra.
A questa constatazione aggiungerei, senza rinnegare le remote radici
cristiane dell’Europa, che questa si è sviluppata nella modernità
in una logica squisitamente laica (condivisa magari da uomini di fede,
spesso di tradizione liberale e persino socialista). Insomma l’identità
europea è un inestricabile intreccio di remote radici cristiane e
della loro moderna compiuta secolarizzazione.
Alcuni capitoli del suo libro affrontano il rapporto tra colpa
individuale e colpa collettiva, nonché il problema del male radicale.
La teologia, come discorso riflessivo sulla religione, non può essere
una lente per ripensare il tribolato nesso tra individuo e società
intorno al quale si scervellano da sempre le scienze sociali?
La problematica della “colpa” è una delle più coinvolgenti
che conferma l’intreccio di motivi religiosi e laici secolarizzati
di cui ho appena detto, soprattutto quando ci si pone l’interrogativo
“Dov’era Dio ad Auschwitz?” (su questo tema nel mio lavoro mi
riferisco ad Hans Jonas e a Margarete Susman). Anche la Chiesa ha
affrontato il tema delle sue colpe del passato con il documento
Memoria e riconciliazione che ha impressionato molto favorevolmente i
laici. In realtà, ad un esame più attento, il documento appare
concettualmente più reticente di quanto non appaia rispetto ad alcuni
gesti altamente simbolici del Papa.
Quanto alla riapertura di un dialogo con il pensiero teologico serio
(inteso come discorso riflessivo sulla religione), credo di essermi
già espresso chiaramente.
Tornando indietro ai suoi lavori sull’identità nazionale
italiana e le sue culture politiche: esiste, in Italia, una cultura
politica integralmente laica ma sensibile alle ragioni dei credenti?
Interpreto il suo “tornare indietro” ai miei lavori sulla
identità italiana come una sollecitazione a esplicitare l’esistenza
di una continuità nella linea di ricerca. In effetti la continuità
riguarda il problema di “che cosa tiene insieme”, al di là della
funzionalità degli interessi, una comunità politica - come dato di
fatto e come modello ideale. Le tappe di questo percorso sono state
via via le riflessioni sul senso di appartenenza ad una storia
nazionale, sulla riscoperta del patriottismo costituzionale, sul
repubblicanesimo e la religione civile. Controintuitivamente ora la
messa a fuoco della laicità della democrazia non vuol essere la
riscoperta di contrapposizioni di parte - laici contro cattolici - ma
al contrario l’invito a ricercare un nuovo impegnativo terreno
comune su cui dispiegare la comune cittadinanza.
A questo proposito mi lasci spendere ancora qualche parola sulla
formula “come se Dio non ci fosse”, che a prima vista sembra una
proposta inaccettabile o troppo costosa per il credente. Per
cominciare, la formula non è la riproposizione della separatezza tra
‘privato’ e ‘pubblico’ secondo la tradizionale dottrina
laico-liberale, semplicemente perché questa separatezza è già
venuta meno nella qualità dei problemi che oggi dobbiamo affrontare
soprattutto nella bioetica e a fronte delle biotecnologie. In secondo
luogo l’etsi Deus non daretur non ha assunti ateistici o agnostici;
al contrario costruire il mondo etico personale, civile e politico,
prescindendo dall’ipotesi-Dio (che poi in concreto nella nostra
cultura è il Dio del magistero della Chiesa) è la risposta più
coerente e radicale al motivo teologico della piena assunzione di
responsabilità morale della donna e dell’uomo. Non dimentichiamo
infatti che il principio del “come se Dio non ci fosse” è
suggerito qui innanzitutto contro l’improprio coinvolgimento del
dato religioso o teologico in tematiche connesse all’idea di natura
o ad interpretazioni controverse della storia.
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