Cristianesimo e nichilismo
Sergio Givone con Giancarlo Burghi
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Cristianesimo e nichilismo
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scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
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Chi è Sergio Givone
Sergio Givone è nato a Buronzo (Vercelli) nel 1944. Si è laureato in
Filosofia all'Università di Torino con Luigi Pareyson. Ha insegnato a
Perugia, Torino e Firenze, dove attualmente è professore ordinario di
Estetica. È stato condirettore, insieme a Carlo Sini, Massimo
Cacciari e Vincenzo Vitiello della rivista “Paradosso” nata nel
1992.
L'interesse di Sergio Givone per l'estetica nasce da un modo di
concepire la filosofia come un discorso che trova i suoi contenuti
fuori di sé: nell'arte, nel mito, nella rivelazione religiosa. La
filosofia non è se non interpretazione di questi contenuti, volta a
rilevarne il valore universalmente comunicabile. Questo non significa
che egli si riconosca nell'area di pensiero indicata come “ermeneutica”.
Piuttosto che autoriflessione sul carattere interpretativo del
discorso filosofico, quella di Givone vuol essere interpretazione in
atto di quei testi in cui arte e religione chiamano in causa la
filosofia. Per questa via egli è tornato a interrogarsi sulla portata
del romanticismo, riconoscendo in esso l'origine storica di una
problematizzazione del valore di verità dell'esperienza estetica,
ancora oggi viva e densa di implicazioni. Givone, infine, trova un
punto di convergenza di arte e religione nella nozione di “pensiero
tragico”, con la quale intende sottolineare l'attualità di un
pensiero che non arretra di fronte al carattere irriducibilmente
enigmatico dell'essere e dell'esistere.
Questa la sua bilbiografia:
La storia della filosofia secondo Kant, Mursia, Milano, l972; Hybris
e melancholia, Mursia, Milano, 1974; William Blake. Arte e
religione, Mursia, Milano, 1978; Ermeneutica e romanticismo,
Mursia, Milano, 1983; Dostoevskij e la filosofia, Laterza,
Roma-Bari, l984; Storia dell'estetica, Laterza, Roma-Bari,
1988; Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore,
Milano, 1988; La questione romantica, Laterza, Roma-Bari, l992;
Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari, l995; (con m. ferraris e
f. vercellone) Estetica, TEA, Milano, 1996; Favola delle
cose ultime, Einaudi, Torino 1998. Ha curato: Estetiche e
poetiche del Novecento, SEI, Torino, 1973; Sul pensiero
simbolico, Il poligrafo, Padova, 1996; Estetica: storia,
categorie, bibliografia, La Nuova Italia, Firenze, 1998.
Per chiarire il concetto di nichilismo, possiamo partire
dall'accostamento tra Nietzsche e Dostoevskij. Entrambi pensano il
nichilismo come destino storico ineluttabile, a partire dalla morte di
Dio, dunque come una vicenda interna all'evento cristiano. Con
Nietzsche, in qualche modo, si imposta una sorta di identità tra
cristianesimo e nichilismo.
Sì, Nietzsche pensa che il nichilismo sia figlio del cristianesimo.
Non sapremmo, in fondo, dire il nulla del nostro essere al mondo -
questo dice il nichilismo - se il cristianesimo questo nulla non
l'avesse scoperto in Dio, in Dio che muore, in Dio che si fa nulla.
Naturalmente Nietzsche, quando parlava del nichilismo come risultato
del cristianesimo, pensava questo nesso come qualche cosa di negativo:
il nichilismo che nasce dal cristianesimo è un nichilismo reattivo e
risentito, è il nichilismo di chi non sa accettare la vita così
com'è, fatta di bene e male, di essere e di nulla. Occorre passare,
secondo Nietzsche, a un diverso nichilismo: un nichilismo
anticristiano, che non guarda più al dover essere, ma che sia fedele
all'essere, alla terra.
È perciò curioso come oggi, proprio a partire da Nietzsche, si parli
di nichilismo in senso positivo, ma si ritrovi questa positività
proprio nel rapporto che il nichilismo avrebbe - e che Nietzsche aveva
sottolineato - con il cristianesimo. Si dice che nichilismo e
cristianesimo sono la stessa cosa: bisogna essere nello stesso tempo
cristiani e nichilisti, perché è stato il cristianesimo a insegnarci
che l'essere al mondo è finito, è costitutivamente legato al nulla.
Non è stato il cristianesimo a insegnarci che Dio stesso muore? La
storia viene letta in una chiave nello stesso tempo cristiana e
nichilistica, proprio sulla base di questa rivelazione. Ora, se è
vero che Nietzsche e gli esiti del pensiero nietzscheano hanno dato
luogo a questa interpretazione, diciamo così, positiva del nichilismo
- o meglio, dell'identità di nichilismo e cristianesimo - c'è anche
chi ha tracciato del nichilismo una ben diversa genealogia. Ed è
stato Dostoevskij.
Anche Dostoevskij pensava che il nichilismo fosse qualche cosa come un
destino. “Siamo tutti nichilisti”, diceva, non possiamo uscire da
questa dimensione, dobbiamo renderci conto che è successo qualcosa -
al di là di quella che può essere la nostra fede o non fede - che ci
coinvolge tutti. Questo qualche cosa è appunto lo sfondamento
dell'essere, che è necessariamente lo sfondamento della metafisica.
Dostoevskij ovviamente non si esprimeva in questi termini, ma andava
sicuramente in questa direzione quando, pur riconoscendo il legame del
nichilismo con il cristianesimo, ne mostrava tutta l'ambiguità.
E ben lungi dal tessere quell'elogio del nichilismo - come fecero gli
eredi di Nietzsche - cerca di proporre una interrogazione del fenomeno
stesso, che sappia vederne l'ambiguità, cioè che sappia - dice - “gettare
uno sguardo in entrambi gli abissi”. Uno sguardo che sappia, per
esempio, vedere nel nulla la condizione della nostra vita, ma che
sappia anche vedere l'errore, la cancellazione, l'insopprimibile
angoscia che da questo errore, da questa cancellazione, derivano.
Approfondiamo la posizione di Dostoevskij. In che senso è riduttivo o
addirittura errato interpretare in chiave di libertinismo la celebre
affermazione di Ivan Karamazov, “Se Dio non esiste, tutto è lecito”?
E in che senso lei dice che Dostoevskij porta l'ateismo dentro la
fede, che è necessario che Dio esista perché ci sia il male, lo
scandalo del male?
Bisogna considerare il fatto che Dostoevskij non è un filosofo. E
questa è una fortuna, perché i suoi personaggi non sono soltanto
degli interlocutori fittizi, a cui lui mette in bocca tesi, o che
esprimono il pensiero dell'autore, o che si prestano a essere
confutate, sempre alla luce di quello che è il vero pensiero
dell'autore. I personaggi di Dostoevskij parlano a nome proprio. Nel
caso di Ivan Karamazov, abbiamo a che fare con un pensiero, di fronte
al quale non bisogna arretrare, ma seguire fino in fondo. Un pensiero
che bisogna raggiungere sulle posizioni a cui Ivan lo ha portato: e
lì, semmai, riconoscere che bisogna andare ancora oltre.
Come viene inteso, di solito, questa affermazione di Ivan Karamazov:
“Se Dio non esiste, l'unica possibilità è che tutto è possibile”?
Nel senso appunto di un libertinismo che varrebbe allora come la prova
che Dio deve esistere. Dio deve esistere come argine, come baluardo,
come l'essere che impedisce questa caduta. Ma è davvero questo che ci
dice Dostoevskij? E se invece Dostoevskij ci dicesse: attenzione, Ivan
ha ragione, Dio non esiste: cioè non esiste quel Dio che noi ci
immaginiamo, che noi ci fingiamo, solo per poter arginare questa
potenza della libertà e dell'arbitrio che è in noi. Sì, gli uomini
si sono sempre creati gli dèi a propria immagine e somiglianza, e
hanno fatto di questi dèi i guardiani delle loro insicurezze, delle
loro paure, delle loro angosce.
Ma perché hanno inventato questi simulacri, questi feticci? Perché
non hanno saputo ritrovare Dio là dove Dio va ritrovato: cioè nella
stessa potenza della libertà da cui gli dèi vorrebbero
salvaguardarci, della potenza e della libertà e dell'arbitrio, che è
Dio. Dio dunque non come l'argine, il baluardo, come l'essere che
salva dal non essere; ma come l'essere che abbraccia il non essere,
che porta il non essere dentro di sé. Dio come potenza della
libertà. Ma se Dio è questo, è un Dio inquietante: un Dio che è
amore e misericordia da un parte, ma terribile e addirittura
vendicativo dall'altra. È un Dio dove davvero tutto è possibile. Ma
allora Ivan ha ragione: il limite del suo pensiero consiste
nell'intendere la cosa in un senso libertino, cioè di lasciar cadere
l'accento sull'aspetto dell'arbitrio, piuttosto che sull'aspetto della
libertà.
Il limite del pensiero di Ivan è di non aver saputo vedere tutta la
carica di novità che c'era nella sua tesi, nella sua stessa
affermazione. Si è fermato - lui che sembra così capace di andare a
fondo nelle cose e di essere provocatorio, al punto di spingersi fino
a questo limite quasi inoltrepassabile - si arresta su questo limite,
che va oltrepassato nella direzione di un pensiero abissale - direbbe
Dostoevskij - cioè di un pensiero capace di misurare, di guardare, di
“gettare uno sguardo in entrambi gli abissi”. E qui i due abissi
quali sono? L'abisso del libertinismo, cioè di un arbitrio che fa
dell'uomo non solo il responsabile delle sue azioni, ma colui che può
tutto in quanto non è mai veramente responsabile delle sue azioni;
dall'altro l'abisso della libertà, in cui vale ciò che dice Ivan
Karamazov, cioè che tutto è possibile: ma qui la possibilità va
intesa in senso forte, nel senso che l'uomo è responsabile di tutto
quello che fa.
Dostoevskij porta l'ateismo nel cuore stesso del cristianesimo. Questo
non solo perché il cristianesimo è la religione del Dio che muore,
ma perché il cristianesimo è la religione che nega il Dio che dà
ragione del male nel mondo, della sofferenza, della negatività in
tutte le sue figure. Il cristianesimo ci insegna a negare questo Dio:
cioè insegna che là dove Dio fosse pensato come il fondamento, come
colui che risponde al mistero e lo consegna a un principio di
spiegazione - dove, del mistero, ma anche del male, anche della
sofferenza, in definitiva, non v'è più nulla - là dove Dio fosse
pensato in questi termini (come in definitiva lo ha pensato la
tradizione metafisica: Dio, l'essere necessario), lì dovrebbe essere
negato in nome del male, in nome della sofferenza che si pretende di
spiegare. Ma che il cristianesimo abbia in sé un momento ateistico,
che l'ateismo debba essere portato dentro il cristianesimo, non
significa che l'ultima parola è quella dell'ateo, quella di Ivan.
Certo non bisogna arretrare. Bisogna andare oltre. Dostoevskij dice
che l'ateismo è il penultimo gradino. Non colui che rifiuta
l'ateismo, ma colui che lo ha portato, che lo ha attraversato, sa
giungere a quella dimensione di fede che è la dimensione propriamente
cristiana. Non dunque un passo indietro, rispetto all'ateismo, ma un
passo in avanti. Avendolo conosciuto, avendo cioè esplicato quella
che Dostoevskij chiama la “potenza della negazione”. Bisogna
negare, e quindi accogliere, la verità di Ivan, anche se è una
verità dimidiata, che si arresta: bisogna sapere negare Dio come
principio e come ragione ultima di tutte le cose, per raggiungere quel
Dio che non è principio, che non è ragione ultima di tutte le cose,
che non viene a spiegare il senso della sofferenza, ma lo porta in
sé, prende la sofferenza su di sé.
Ed è la risposta - ancora timida, appena accennata - che Alesa dà a
Ivan, nella famosa scena della bettola, in cui i due fratelli,
ironicamente, ma neanche tanto, discutono dei grandi problemi. Ma è
anche la risposta - risposta molto più forte e vigorosa - che dà
Dmitrij il quale, innocente, sceglie, accetta la condanna come se
fosse colpevole, in base per l'appunto al principio propriamente
tragico della solidarietà di tutti nella colpa; e in base al
principio della sofferenza come via alla riconciliazione con Dio.
Quello della sofferenza inutile è un tema decisivo in Dostoevskij. È
come se il male potesse essere guardato e preservato nella sua
drammaticità solo fuoriuscendo dalla filosofia, che lo giustifica, lo
stempera, lo neutralizza - come del resto ha fatto anche la teodicea
tradizionale. Professor Givone, il male può essere pensato solo
all'interno di una rivelazione religiosa? In che senso la filosofia,
in particolare il pensiero tragico, è ermeneutica dell'esperienza
religiosa?
Non si può dire che il male può essere pensato solo all'interno di
una dimensione religiosa, ma certo si deve dire che l'esperienza
religiosa, contrariamente a quello che si crede comunemente - aiuta a
comprendere, a mantenere desta la consapevolezza del male, della
sofferenza e della negatività. L'esperienza religiosa non è una
forma per sua natura di evasione, di edulcoramento del problema del
male. E questo è veramente l'equivoco che Dostoevskij ci aiuta a
dissipare. Si dice: il male c'è, la sofferenza è qualche cosa di cui
tutti facciamo l'esperienza. Le religioni non sono altro che dei
dispositivi, che l'uomo ha inventato e che ha utilizzato per
sopportare, per elaborare l'insopportabile, per convivere con qualche
cosa che se restasse allo stato di natura non sarebbe sopportabile.
Ma non è così: in realtà il supposto stato di natura della
sofferenza e del male - cioè il fatto che il male non ha nessuna
spiegazione, il fatto che la sofferenza è una sorta di retaggio con
cui ciascuno di noi deve prima o poi fare i conti - questa idea di una
naturalità, di una naturalezza del negativo, quest'idea profondamente
irreligiosa, in realtà stempera il negativo, perché lo consegna alla
natura, cioè a una condizione, non solo inoltrepassabile, ma che è
la nostra e che noi non possiamo fare altro che accettare. La
dimensione religiosa - e quindi le grandi religioni - elaborando il
problema del male, è vero, hanno prospettato delle soluzioni a questo
problema, ma lo hanno anche reso più acuto, più profondo. Hanno
davvero aperto degli scenari, in cui il male cessa di apparire come un
dato di natura, e viene invece inserito in una vicenda non soltanto
storica ma addirittura cosmica, cioè in una vicenda che coinvolge
l'uomo, la sua storia, ma anche il mondo tutto intero e il suo
creatore.
La religione inserisce il problema del male in una vicenda, chiarendo
questo problema infinitamente più grave e più difficile da
risolvere. In che senso Dostoevskij ci aiuta a capire questo? Se non
fosse neanche pensabile un paradigma altro - un paradigma di
redenzione, di salvezza - radicalmente altro rispetto al mondo, in
fondo la vicenda mondana sarebbe ricompresa appunto da quella
naturalità di cui si diceva prima, e il fatto che noi soffriamo, che
gridiamo la nostra insofferenza nei confronti della sofferenza,
insomma lo scandalo del male, non sarebbe davvero scandaloso. Sarebbe
un fatto, sarebbe un dato di natura, ma non uno scandalo. Dove il male
appare davvero scandaloso? Là dove del male si chiede ragione a Dio.
Ma ecco il paradosso nel paradosso: se Dio desse ragione del male, Dio
varrebbe, in definitiva, come quel principio di natura che svuota il
male della sua problematicità, perché allora il fatto che noi
soffriamo sarebbe semplicemente imputabile alla nostra cecità. (noi
non sappiamo vedere le ragioni per cui soffriamo, ma c'è Dio e Dio
contiene queste ragioni. E là dove, o prima o poi, Dio queste ragioni
ce le dà, ecco che il male in definitiva non è più nulla, e noi ci
rendiamo conto di soffrire e di aver sofferto solo perché eravamo
ciechi). Paradosso nel paradosso: Dio, cioè l'essere, il principio in
base al quale soltanto il male mantiene la sua scandalosità, potrebbe
essere pensato anche come il principio che toglie la scandalosità del
male, perché ne dà la spiegazione.
E allora ecco la necessità di pensare Dio altrimenti, cioè di
pensare Dio come colui che non viene a togliere o a giustificare il
male, ma piuttosto viene a salvarlo conservandolo. Qui siamo
nell'ambito di un pensiero assolutamente paradossale: che cosa
significa conservare il male e nello stesso tempo salvarlo? Cosa
significa vedere nella sofferenza l'unica via di salvezza? Cosa
significa concepire Dio come l'orizzonte dentro cui un tale pensiero
si lascia pensare? Significa appunto offrirsi a quei paradossi, che
sono i paradossi del pensiero religioso. Un pensiero religioso
finalmente svincolato dalla sua pregiudiziale metafisica, quella per
cui in definitiva Dio era identificato con l'essere (l'essere con
l'essere necessario, dunque con l'essere che dà a sé e al mondo la
propria giustificazione) e libera invece prospettive radicalmente
alternative.
A questo proposito Sergio Quinzio afferma paradossalmente che il male
è una sorta di invenzione ebraico-cristiana: l'uomo cristiano non è
più rassegnato al male, ne avverte lo scandalo, diversamente
dall'uomo pagano, che invece accetta il nascere, il morire, la
sofferenza, come dati naturali. Quinzio ha indagato anche il rapporto
tra nichilismo e cristianesimo e ha delineato una visione tragica del
cristianesimo, per alcuni aspetti, vicina alla sua. Al pensiero
tragico riconosce il merito di superare l'angusto pensiero
razionalistico e metafisico, ma lo accusa di neutralizzare il dramma
lacerante della contraddizione nel pensiero di questa contraddizione.
Ci sarebbe in questa visione una verità ulteriore in cui la
contraddizione si compone: cosa risponde a questa obiezione?
Cominciamo dal primo punto, quello che riguarda il rapporto tra
paganesimo e cristianesimo, e il fatto che solo nella tradizione
ebraico-cristiana il male conserverebbe la sua scandalosità. Questo
è vero solo in parte, perché si potrebbe rovesciare questa
affermazione e dire che, nella tradizione ebraico-cristiana, in fondo,
il male non è più veramente tale, perché è proiettato su uno
sfondo di redenzione già da sempre avvenuta, che appunto svuota il
male della sua scandalosità. È in questa prospettiva che qualcuno ha
detto che il cristianesimo è una religione fondamentalmente
anti-tragica; mentre invece la tragedia accade, è accaduta
storicamente, ma potremmo dire, sempre di nuovo accade, in una
dimensione pagana della vita, cioè nella dimensione che non proietta
la sofferenza e il male su uno sfondo di redenzione.
Allora io piuttosto distinguerei un cristianesimo antitragico - e
dunque un cristianesimo in cui inevitabilmente il problema del male e
della sofferenza tendono ad edulcorarsi - e un paganesimo antitragico,
dove il problema del male e della sofferenza tendono a stemperarsi in
una dimensione naturalistica, dove il male appartiene alla vicenda del
nascere e del morire e non è veramente maligno. Ma, se è vero che ci
sono un cristianesimo e un paganesimo antitragici, è anche vero che
c'è un paganesimo tragico - qui non sono d'accordo con Quinzio - che
ha un senso terribile della sofferenza e del male (basti pensare alla
tragedia, che non stempera certo il male e il suo problema in una
dimensione di naturalità); e c'è anche un cristianesimo - e qui
Quinzio ha ragione - tragico, che fa valere questo elemento di
scandalosità nei confronti di Dio stesso. Anzi in Dio vede colui che
salvaguarda questa scandalosità, che tiene aperta la dimensione in
cui il male appare scandaloso.
Però Quinzio dice anche: questo non è cristianesimo tragico - o
meglio, non è pensiero tragico - perché il pensiero tragico è, a
sua volta, una forma di evasione dal problema. Il pensiero tragico è
quello che pensa - se capisco bene l'obiezione di Quinzio - la
tragicità del reale, ma poi supera questa tragicità nel pensiero di
essa. Io credo che Quinzio, quando parla appunto di pensiero tragico
in questi termini, ne parla come se il pensiero tragico fosse pensiero
dialettico: Quinzio imputa al pensiero tragico una sorta di hegelismo.
È vero che c'è la contraddizione nelle cose e che questa
contraddizione è fonte di sofferenza - dunque c'è una radice maligna
nelle cose - ma il pensiero che pensa la contraddizione, la risolve
anche, perché, per l'appunto, tesi e antitesi danno luogo a un
superamento nel pensiero. Ma questo è razionalismo metafisico, questo
è Hegel, questo non è pensiero tragico.
Il pensiero tragico nasce precisamente dalla considerazione, dalla
constatazione dei limiti del razionalismo metafisico. Là dove per
Hegel - per questo il pensiero di Hegel è razionalistico e metafisico
insieme - pensiero ed essere sono la stessa cosa, e dunque il pensiero
risolve l'essere e le sue contraddizioni, invece per il pensiero
tragico, il pensiero e l'essere non sono la stessa cosa. Il pensiero,
certo, pensa l'essere, ci ragiona, cerca di avanzare delle ipotesi,
indaga quello che è l'enigma, il mistero dell'essere, ma il mistero
dell'essere resta fondamentalmente tale. Ecco perché il pensiero
tragico, a differenza del razionalismo metafisico, a differenza di
Hegel, mantiene questo suo legame con il mito, con la tradizione
religiosa, e non pensa ad altro che al mito e alla tradizione
religiosa, ma non risolvendoli in sé e quindi superandoli, bensì
considerandoli come la fonte stessa del suo interrogare. Fonte
inesauribile perché misteriosa, enigmatica. Questo carattere di
irriducibilità del mistero e dell'enigma dell'essere, segna la
differenza tra pensiero tragico e razionalismo metafisico.
Il nichilismo trova le sue origini, per lo meno etimologiche, nel
concetto di nulla, a cui lei ha dedicato una avvincente storia. Un
concetto che la logica e la metafisica hanno rimosso. Per lei si
tratta di pensare il nulla in maniera diversa: questa è l'impresa
ardita. E la vera alternativa - che poi è un'alternativa etica,
metafisica e teologica - è tra l'ontologia della necessità, che
dominerebbe in qualche modo la tradizione occidentale, e l'ontologia
della libertà. In che senso?
Pensare il nulla è precisamente ciò che, secondo la tradizione
metafisica, non va fatto. Non va fatto perché non è possibile farlo.
Pensare il nulla è cadere in contraddizione, è pensare qualche cosa,
quindi attribuire l'essere a qualche cosa che non è. Nella misura in
cui io dico che il nulla non è o che il non essere non è, già entro
in contraddizione perché attribuisco qualche cosa, sia pure il non
essere, a qualche cosa che assolutamente non è, al non essere stesso.
Ed ora l'idea profonda, l'idea che sta nel cuore del pensiero di
Parmenide, il vero padre della metafisica: tu non penserai il nulla.
Questo interdetto, questa proibizione di pensare il nulla, la
ritroviamo, via via, in tutta la storia della filosofia.
La ritroviamo in Platone, il quale compie - come lui stesso dice nel
Sofista - un parricidio, perché cerca di pensare il nulla, introduce
il nulla nel discorso filosofico. Ma il parricidio, come Platone
stesso dimostra, si risolve in un grande elogio, in un trionfo del
padre, in un grande elogio di Parmenide, perché in realtà Platone
dimostra l'impossibilità di pensare il nulla in quanto nulla. Il
nulla può esser pensato soltanto come finzione, solo per analogia,
serve per spiegare ciò che altrimenti non potremmo spiegare, cioè la
molteplicità, quindi, in definitiva, il divenire. Ma, assolta questa
funzione - una specie di finzione - del nulla non resta più niente
nella scienza, che è l'erede di questa tradizione metafisica. La
scienza pensa ciò che è, con i suoi strumenti agisce su ciò che è,
sperimenta ciò che è, lasciando ciò che non è fuori del campo
della sperimentazione possibile: i buchi neri, oppure i numeri
razionali, sono finzioni platoniche, sono elementi introdotti nel
discorso, che però non hanno nessun peso ontologico, nessuna realtà
ontologica.
Là dove invece esiste una vera e propria ontologia del nulla, esiste
come trasgressione dell'interdetto parmenideo. Questa ontologia del
nulla la possiamo ricostruire attraverso alcune tracce: il nulla è il
grande rimosso della storia della filosofia occidentale e quindi è
chiaro che l'ontologia del nulla non può essere cercata che negli
episodi marginali di questa storia. Ha lasciato soltanto delle tracce,
non è stata elaborata una vera e propria ontologia del nulla o
meontologia. Ma le tracce sono rivelative e ci fanno incontrare autori
- che magari non interpreteremmo in questa chiave, ma che in questa
chiave vanno interpretati - come Plotino, il quale sostiene che il
nulla è al di là dell'essere, anzi ne è il fondamento, il non
essere è il fondamento dell'essere e dunque converte l'essere nella
libertà.
Troveremo questa stessa idea nei mistici, che arrivano a identificare
Dio con il nulla e troveremo quest'idea nei romantici, i quali
cercheranno di elaborare una vera e propria ontologia della libertà,
cioè una concezione dell'essere come libertà piuttosto che come
necessità, su base estetica. Perché su base estetica? Perché
appunto l'arte ci permette di sperimentare il paradosso dei paradossi,
il paradosso per cui l'essere, la verità dell'essere è, ma è sempre
altra da sé. Le opere d'arte di che cosa parlano, se non della
verità dell'essere? Questa verità dell'essere è sempre altra da
sé, è addirittura contraddittoria rispetto a se stessa. Le opere ci
parlano di questa contraddittorietà, ci presentano visioni del mondo
antitetiche e tuttavia entrambe, nella loro antiteticità, espressive
del vero, espressive del senso dell'essere. Dunque Plotino, la
mistica, i romantici, insomma l'estetica, si situano nella prospettiva
di una ontologia della libertà.
Nulla, libertà, Dio: in questa nuova prospettiva questi tre termini
sono in relazione. Ecco, partiamo innanzi tutto dal primo binomio.
Quello tra libertà e nulla. Che cos'è questa ontologia del nulla,
che è anche poi ontologia della libertà?
Ontologia della libertà e ontologia del nulla sono strettamente
collegate. Solo là dove il nulla è il fondamento dell'essere, cioè
solo là dove l'essere è pensato come non governato dalla necessità,
non predeterminato, non preceduto da qualche cosa che lo determini,
quindi non fondato se non sul nulla, solo laddove abbiamo a che fare
con un' antologia del nulla, l'essere si converte nella libertà
stessa. Per capire questo punto, ci può aiutare un confronto fra due
filosofi che sembrano appartenere allo stesso ambito di pensiero, ma
di fatto pervengono a prospettive molto lontane, se non addirittura
antitetiche. Mi riferisco a Heidegger, da una parte, e a Sartre,
dall'altra, i quali hanno avuto il grande merito di reintrodurre nel
cuore del dibattito filosofico il problema del nulla, e lo hanno fatto
in modo molto diverso.
Mi limiterò a una descrizione schematica: Heidegger muove dal nulla,
e cioè dal fatto che il nulla è questa sorta di evidenza primaria,
di esperienza primaria che noi facciamo - “la chiara notte del nulla”,
la chiama - nella quale la nostra vita si rivela per quello che è,
destinata al nulla, segnata dalla nullità e dalla negatività. Ogni
nostro progetto, il nostro stesso essere, sono legati, provengono, non
si lasciano comprendere, se non a partire dal nulla. In Heidegger, il
nulla come evidenza primaria converte l'essere nella libertà, appunto
perché l'essere, essendo fondato sul nulla, non ha nulla se non il
nulla stesso che lo determini, che lo costringa a essere, che lo
faccia essere quello che è. In quanto fondato sul nulla, in quanto
fondato su questa evidenza primaria, l'essere infine si rivela, ed è
questo che propriamente “la chiara notte del nulla” rivela come la
libertà. Dunque Heidegger parte dal nulla e il nulla gli permette di
convertire l'essere nella libertà.
Sartre, al contrario, parte dalla libertà. L'evidenza primaria è la
libertà: l'esperienza che noi anzitutto facciamo è quella di essere
liberi. Ma in realtà noi - fa osservare Sartre - siamo tutt'altro che
liberi, perché nasciamo non avendolo chiesto; abbiamo un corpo,
questo corpo è il limite della nostra esistenza, anzi è la nostra
stessa esistenza come predeterminata. E tuttavia - dice Sartre - noi
siamo pur sempre liberi anche nei confronti del nostro corpo. Se lo
abbiamo è perché l'abbiamo voluto, tant'è vero che possiamo non
volerlo o possiamo negarlo. Esiste pur sempre il suicidio. Dunque
anche nella determinazione più ferrea, quella che fa sì che io sono
quello che sono - sono nato qui, anziché là, sono fatto così
anziché in un altro modo - anche nella determinazione più ferrea, la
radice è la libertà.
Dunque la libertà è l'esperienza primaria. Ma se la libertà è
l'esperienza primaria, la libertà converte l'essere nel nulla,
perché qualsiasi cosa io faccio è giustificata, è giustificata da
me, cioè da nessuno, cioè dal nulla. Il nulla è l'esito: dunque che
io - come dice in una frase celebre con cui si chiude L'essere e il
nulla - che io guidi degli eserciti, trasformi gli Stati, persegua
degli ideali sublimi o mi ubriachi in solitudine è la stessa cosa. È
la stessa cosa, appunto perché la libertà converte l'essere nel
nulla, la libertà è la radice fondamentalmente arbitraria
dell'essere. Dunque l'essere, qualsiasi cosa alla fine viene al mondo,
finisce con l'essere uguale a qualsiasi altra cosa.
Ecco un doppio schema, uno schema diverso, due forme possibili di
ontologia del nulla: in Heidegger il nulla, come evidenza primaria,
converte l'essere nella libertà; in Sartre la libertà, come evidenza
primaria, converte l'essere nel nulla. Una vera e propria ontologia
della libertà su che basi può nascere? Su basi, appunto,
heideggeriane, perché abbiamo visto Heidegger parte dall'ontologia
del nulla e arriva a un'ontologia della libertà, laddove invece in
Sartre abbiamo il movimento contrario, e dunque l'approdo è
l'ontologia del nulla.
Professor Givone, approfondiamo l'altra relazione, quella tra Dio e il
nulla. Il nulla, la negazione, si situa non solo all'interno
dell'esperienza cristiana - l'esperienza che Dio è morto, è assente,
che non salva - ma concerne la stessa vita divina. Il nulla insidia la
stessa divinità, è una minaccia che attraversa Dio, il Dio
impassibile della vecchia metafisica.
La tradizione metafisica ha allontanato lo spettro del nulla da Dio,
ma - come abbiamo visto - c'è un'altra tradizione, la tradizione
mistica, e anche la tradizione estetica, che hanno invece reintrodotto
il nulla in Dio. La tradizione mistica. Qui si potrebbe ricordare
l'idea cabalistica dello Tzimtzum , cioè del nesso che lega Dio e la
creazione. Tzimtzum significa il ritrarsi di Dio. Dio crea
ritraendosi, lasciando essere il mondo. Ma questa parola della mistica
ebraica è la stessa parola che aveva usato Plotino, padre della
mistica cristiana - lui che cristiano non era. Il poietés, il
Demiurgo - in altri termini Dio - crea il mondo lasciandolo essere. E
dunque avevano ragione i cabalisti a dire che questo lasciar essere -
ma questo lasciar essere vuol dire lasciarlo essere nella sua
libertà, quindi liberamente lasciarlo essere nella sua libertà -
questo gesto è possibile solo attraverso un ritrarsi, un venir meno a
se stesso, in qualche modo un venire a patti con la stessa negazione
di sé e dunque un venire a patti con il nulla.
Ancora più radicali dei cabalisti e di Plotino - paradossalmente più
radicali - sono stati certi teologi, uno in particolare, Bovillo, il
quale ha espresso questo rapporto di Dio con il nulla in un modo
felicissimo. Bovillo è un teologo vissuto nel Cinquecento e che ha
scritto un libro, Liber de nihilo (Libretto sul nulla), che merita di
essere ripreso. In esso Bovillo si chiede: se qualcuno ci salva dal
nulla, chi può mai essere questo qualcuno se non Dio? Noi sappiamo di
dover morire, sappiamo che la nostra vita è destinata a finire, a
tramontare. Se mai qualcuno ci salverà dall'al di là di questo
nostro tramonto, di questo nostro naufragio, chi se non Dio? Già - ma
continuava Bovillo, che fin qui sosteneva tesi pienamente ortodosse -
se è vero che Dio e nessun altro, che Dio ci può salvare dal nulla,
è anche vero che il nulla salva Dio da se stesso.
Cosa vuol dire che il nulla salva Dio da se stesso? Che se in Dio non
ci fosse il nulla, se Dio non avesse la possibilità di lasciar essere
il mondo, dunque di consegnarsi al nulla, di autolimitarsi, di venire
a patto con il nulla, Dio sarebbe quell'essere perfettissimo che è
quanto di più antidivino ci sia. Dio sarebbe questa realtà tutta
piena, questo essere dominato dalla necessità, che è tutto meno che
Dio, a ben vedere. Dunque Dio è salvato da Dio stesso, Dio è salvato
dal nulla che gli permette di abbandonarsi alle cose, di consegnarsi
al divenire, di ritrarsi in una sua inaccessibile identità. Questo
doppio movimento di Dio che si abbandona al divenire, di Dio che si
ritrae in un suo mistero impenetrabile, è pensabile solo in rapporto
al nulla.
Dunque Dio non garantito, ma in qualche modo minacciato dal nulla. Ma
nel pensiero tragico anche l'ombra della colpa oscura la divinità:
Dio uccide se stesso, il sacrificio diventa espiazione. Lei dice che
il male non è semplicemente giustificato, conciliato da Dio, ma è
assunto da Dio. Altri, ad esempio Vattimo - rifacendosi al Girard di
La violenza e il sacro - rifiutano l'interpretazione del cristianesimo
come religione del sacrificio, quindi l'idea di un Dio vittima. Lei
non sembra d'accordo con questa lettura del fatto cristiano e vede in
esso un vero sacrificio in cui vittima e carnefice coincidono: può
parlarcene?
Bisogna innanzitutto intendersi sul concetto di sacrificio. Certo che
se lo si rapporta ad una concezione religiosa, per cui Dio è
l'Onnipotente, colui che dispone in modo autoritario e violento
dell'essere, proprio perché è il principio metafisico che governa
l'essere tutto intero, allora certamente il sacrificio ha un carattere
violento e autoritario, anzi fa ricadere l'esperienza religiosa in
quelle forme naturalistiche di religiosità, che non sono cristiane.
Altra cosa è pensare il sacrificio nella prospettiva del pensiero
tragico, dove - lo abbiamo appena visto - di Dio tutto si può dire
meno che sia il principio, l'essere che ha una sorta di onnipotenza
che lo fa identico alla necessità, l'essere che governa la realtà
tutta intera, il padrone. Il pensiero tragico non pensa Dio in questo
modo. Il pensiero tragico pensa a Dio come libertà, come colui che
consegna il mondo all'uomo, rimettendosi e rimettendo il mondo
totalmente nelle mani dell'uomo.
Allora, da questo punto di vista, che cos'è il sacrificio? È tutto
meno che la violenza di un oscuro “principio delle origini”,
violento e autoritario, che si eserciterebbe nei confronti dei suoi
sottoposti. Non abbiamo a che fare con una imperiosa richiesta di
questo principio, ma al contrario, con un consegnarsi di questo
principio - cioè di Dio come libertà - all'esperienza della morte,
all'esperienza del nulla. Nel sacrificio cristiano è Dio che si
consegna liberamente alla propria passione. Questo recita giustamente
la liturgia: “consegnandosi liberamente alla propria passione e
morte”.
Dio, proprio perché è libertà, perché originariamente non è il
principio assoluto che domina il mondo secondo necessità, può
consegnarsi liberamente alla propria passione e morte, può
consegnarsi liberamente al nulla, alla potenza della negazione. Ma
allora, cos'è il sacrificio che non è sacrificio? È sacrificio
perché Dio si auto-sacrifica: consegnarsi alle potenze della
negatività, consegnarsi liberamente, che cosa significa se non
sacrificarsi? Si tratta perciò di sacrificio, ma di un sacrificio
assolutamente altro rispetto a quello di un padrone, che esige il
sacrificio dal proprio sottoposto.
Il vero equivoco allora è quello di Vattimo, che continua a pensare
il Dio del pensiero tragico come il Dio metafisico, e per questo può
definirlo “l'ultimo grande equivoco metafisico” e vedere in esso
un residuo dell'immagine naturalistica, minacciosa del Dio della
vecchia metafisica. Ma il Dio metafisico è l'esatto contrario del Dio
del pensiero tragico: è il Dio secondo necessità, il Dio fondato, il
Dio principio di ragione. Invece il Dio del pensiero tragico è il Dio
secondo libertà, infondato, talmente infondato da consegnarsi al
nulla e da rimettere la sua creazione all'uomo, che ne dispone
totalmente al punto da farsene totalmente responsabile.
Ma, di nuovo: questa assunzione di responsabilità, è qualcosa di cui
solo il pensiero tragico dà ragione, perché le categorie che la
spiegano sono quelle di colpa, sono - in termini teologici - quelle di
peccato. Sono precisamente le categorie che Vattimo dissolve perché,
nella sua interpretazione del cristianesimo - cristianesimo uguale
nichilismo - il cristianesimo è completamente svuotato di questo
elemento appunto costitutivo del cristianesimo stesso, che è la
colpa, il peccato; così come è svuotato dell'altro elemento
costitutivo del cristianesimo: l'espiazione della colpa e del peccato.
Dunque non c'è più colpa e non c'è più redenzione. Ma che
cristianesimo è - io domando - un cristianesimo che non conosce più
il peccato e che quindi non conosce perché non può conoscere più la
redenzione?
Vattimo risponderebbe: un cristianesimo nichilistico. Ma io
continuerei: un cristianesimo totalmente appiattito sulla realtà
così com'è. E fare l'elogio del cristianesimo è come fare l'elogio
del nichilismo. Ma fare l'elogio del cristianesimo e l'elogio del
nichilismo, in questa prospettiva, è la stessa cosa che fare l'elogio
in definitiva della realtà così com'è. Nei confronti di questo
cristianesimo, io non posso non ritorcere l'accusa che Vattimo rivolge
al pensiero tragico, quando parla appunto del “grande equivoco
nichilistico”.
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