La fatica del dialogo
Enzo Bianchi
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Questo articolo è apparso sul numero di marzo-aprile 2001 di Reset
Enzo Bianchi è il priore del monastero di Bose.
“Stranieri e pellegrini” (Prima lettera di Pietro 2,11):
così sono stati definiti i cristiani dall’apostolo Pietro e poi nei
primi secoli del cristianesimo. Credo sia difficile negare che questo
principio ispiratore dello stare dei cristiani nel mondo e nella
storia sia caduto nell’oblio durante il tempo della cristianità,
durante quei secoli in cui, per lo meno in occidente, vi è stata
simbiosi istituzionale tra fede cristiana e civiltà, simbiosi capace
di generare un’entità sociale, politica, economica e istituzionale.
Eppure quella definizione, che sintetizzerei con il termine di “stranierità”,
ridiventa essenziale oggi per un cristianesimo che - ben al di là di
numeri, statistiche e sondaggi - conosce la situazione di minoranza
nel mondo.
Del resto, fin dal suo nascere sul tronco di Israele, la chiesa si
riconosce abitata da una vocazione all’esilio tra le “genti” (le
nazioni, i pagani per usare la terminologia biblica), senza mai
identificarsi con alcuna etnia, senza mai appiattirsi su un’unica
cultura, senza mai adagiarsi in un determinato assetto
storico-culturale. Sorprende ancora oggi - all’inizio del terzo
millennio post Christum natum - la lapidaria attualità di un
testo risalente al terzo secolo della nostra era, quella lettera A
Diogneto che pare un fresco contributo al dibattito in corso tra
laici e cattolici: “I cristiani né per regione, né per lingua si
distinguono dagli altri uomini… non abitano città proprie né usano
una linguaggio differente… vivono nella loro patria, ma come
forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono
distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è loro patria, e
ogni patria è per loro straniera”.

Basterebbe allora fare un salto indietro di diciassette secoli,
dimenticare il contributo determinante dato dai cristiani alla cultura
europea e occidentale, rinunciare a imprimere un’impronta specifica
ai valori e alle tradizioni della società civile? No di certo, ma la
dimensione della stranierità va riscoperta proprio per misurarsi
adeguatamente con l’irriducibile dialettica tra appartenenza e
differenza, tra solidarietà e diversità, tra convivenza civile e
alterità. Del resto, l’elementare esperienza umana mostra che siamo
“stranieri a noi stessi”, come Julia Kristeva ha voluto intitolare
un suo saggio, e le svariate voci della cultura del XX secolo - dalla
psicanalisi alla filosofia, dalla letteratura alla poesia - hanno
indicato la stranierità come dimensione costitutiva dell’uomo.
Stranierità allora significa, anche per la chiesa, vivere la
provvisorietà e la transitorietà degli assetti culturali, percepire
che la “verità” non è un possesso che si possa imporre agli
altri ma una “eccedenza” che supera tutti. Allora una chiesa che
riconosca come in tutte le culture e religioni vi siano “semi di
verità”, vivendo la stranierità può scoprirsi essa stessa “seme”,
annuncio e prefigurazione di una dimensione che la supera
infinitamente e alla quale dà il nome di “regno di Dio”. Ma
allora l’annuncio cristiano avverrà in una dialettica in cui la
de-culturazione dell’evangelizzatore si accompagna alla
in-culturazione del vangelo; allora l’altro, cesserà di essere
semplice “oggetto” destinato a essere condotto alla “mia”
verità, unica e universale e diverrà “soggetto” da accogliere
nella sua unicità, con la “sua” verità. La verità allora non
sarà senza l’altro, né tantomeno contro l’altro, non sarà
imprigionabile in categorie giuridiche o in affermazioni dogmatiche,
ma troverà spazio nella storia grazie all’incontro tra diversi, tra
stranieri che scoprono la possibilità di una comprensione e di una
relativa comunione proprio perché accettano di non essere “padroni
di casa”, detentori del Senso, proprietari della Verità.
Forse questo della stranierità è un campo che andrebbe maggiormente
coltivato e indagato sia da laici che da cattolici in questi tempi in
cui si assiste a un abbozzo di dialogo che troppo velocemente ricade
in una mal dissimulata contrapposizione di monologhi. Se infatti oggi
la sfida per i cristiani è di articolare verità e alterità nel
senso della comunione, dell’ascolto e dell’incontro, non dell’esclusione,
dell’arroganza e dell’autosufficienza, la tentazione diventa
quella di continuare a ragionare come maggioranza e quindi di
esercitare pressioni per essere riconosciuti nel ruolo di reggenti in
una società in cui sono tramontate le ideologie messianiche e
permangono poco eloquenti le etiche laiche.
La logica della “maggioranza” che impone le proprie certezze
lascerebbe il posto a quella dell’influenza del gruppo di pressione
che utilizza mezzi e strategie tipici delle lobbies oppure allo
sdegnoso e agguerrito asserragliarsi in quel che resta di una
cittadella fortificata in attesa di stagioni migliori. No, quella
stessa parola di Dio che situa i cristiani come “stranieri e
pellegrini” nella storia richiede anche di non strutturare la loro
presenza sui modelli politici mondani (cf. Luca 22,25-27): per
i credenti l’essere nella storia deve far emergere la “riserva
escatologica” costitutiva della loro identità e fondante la loro
prassi anti-idolatrica.
L’essere cristiano non può identificarsi con l’elaborazione di
uno specifico progetto di liberazione, di giustizia e di pace, né con
le culture generate dall’identità cristiana. Il posto dei cristiani
è nella compagnia degli uomini: con loro - senza alcun titolo che li
garantisca più degli altri sulla realizzazione di un progetto sociale
-dialogheranno e si confronteranno senza arroganza, memori che il loro
Signore e maestro li ha chiamati pusillus grex, “piccolo
gregge”: realtà quotidiana di una minoranza fiera della propria
identità ma non arrogante, consapevole che, pur senza mai tralasciare
di predicare il vangelo, il risultato non dipende dalla sua volontà
perché “non di tutti è la fede” (2 Tessalonicesi 3,2).
Anche l’antico adagio patristico “etsi Deus non daretur”
- che è stato ripreso recentemente da Rusconi finendo per
condizionare buona parte del dibattito odierno - letto nell’ottica
della stranierità acquista ben altro spessore. Nella prima metà del
XX secolo fu usato dal teologo protestante Dietrich Bonhoeffer per
ribadire l’esistenza di responsabilità umane che, pur ispirate dal
vangelo e quindi da Dio, nella loro traduzione tecnica, economica,
politica all’interno di una determinata società, vanno assunte “come
se Dio non ci fosse”. L’essere cittadini “senza vangelo” non
significa - come paventano alcuni interlocutori cattolici - avere come
credenti “una presenza pubblica limitata” o essere relegati “nella
sfera intima della religiosità personale” e tantomeno essere
ghettizzati, bensì restare profondamente radicati nel vangelo
evitando di considerarlo sic et simpliciter dispensatore di
soluzioni sociali, economiche e politiche.
Per il cristiano, il vangelo è ispirazione cui va assoluta
obbedienza, ma la traduzione in prassi dell’ispirazione appartiene
alla sua responsabilità nel mondo. Non a caso l’editorialista della
“Civiltà Cattolica” del novembre scorso, in uno degli interventi
più lucidi su questo argomento, ricordava che l’annuncio del
Vangelo e delle sue esigenze cui è tenuta la chiesa “non le
conferisce neppure de iure un reale potere d’intervento nelle
realtà mondane”. Se così non fosse, essa rischierebbe di declinare
il vangelo come imposizione, come rinnovata supremazia culturale,
assumendo l’atteggiamento tipico di chi si ritiene l’unico
detentore di certezze risolutive e, come tale, pronto a brandire la
propria verità davanti o addirittura contro gli altri. Non si tratta
di affettato irenismo o di semplice correttezza formale, bensì di un’intima
convinzione: le possibili traduzioni del messaggio evangelico nella
quotidiana prassi civile sono appelli e apporti che i cristiani
offrono a quanti, come loro e assieme a loro, sono cittadini.

E non mi pare proprio che l’agire da cittadini “come se Dio non ci
fosse” porterebbe i cristiani ad abdicare alla loro identità di “soggetto
storico” per rinchiudersi nel ghetto di “setta esperienziale”:
proprio la vicenda umana di Bonhoeffer è conferma dell’esatto
opposto. Pastore di una chiesa minoritaria, “confessante”, seppe
reagire all’aberrazione nazista sul piano storico in modo ben più
efficace e incisivo delle chiese “maggioritarie”: la sua
testimonianza non finì nel chiuso di una sacrestia ma nell’inferno
concentrazionario, come membro attivo della congiura contro Hitler.
Questo forse ci aiuta a capire meglio un altro aspetto della
riflessione teologica di Bonhoeffer, anch’esso quanto mai attuale
nell’attuale dibattito sull’impatto della fede nella società:
quella che lui definisce la “disciplina dell’arcano, ciò che
tiene aperto il rapporto tra fede e mondo”.
Per il teologo luterano, la confessio fidei è tesoro prezioso
da custodire in modo “tenero e nascosto, come raccolto in seno,
protetto e sottratto a ogni presa”. In quest’ottica di
cristianesimo “non religioso” la fede cristiana non può
prescindere da due elementi: l’Antico Testamento, con il suo
pressante richiamo all’ “al di qua”, e la croce di Cristo, sulla
quale Dio coinvolge se stesso nel destino e nelle colpe del mondo.
Nessun cedimento allora né a un “cristianesimo di puri” né alla
rassegnazione ad “accettare l’uomo per quello che è”: si tratta
invece, e non è poca cosa per un cristiano, di assumere la realtà
che è Cristo, nella fede vero uomo e vero Dio.
E' questa tenera custodia della disciplina dell’arcano, il
salvaguardare da parte dei cristiani di uno spazio-tempo - come
singoli e come comunità - di interiorità raccolta che offre la
possibilità di salvare il principio della realtà così come si
presenta sulla croce. è questo rapporto dinamico tra “ultimo” (la
giustificazione per fede, la grazia, il dono di Dio) e “penultimo”
(tutto il resto, a cominciare dalla sim-patia, dalla solidarietà
umana, dalla convivenza civile) che permette di mantenere il “mistero”
e rende al contempo possibile un’etica cristiana spendibile nella
società. Non perché l’ultimo soppianti il penultimo, ma proprio
perché, lungi dall’eliminarlo, lo trasfigura.
La confessio fidei - cioè la proclamazione delle verità
affermate nel Credo apostolico e tutto quanto ha attinenza alla
vita spirituale - vanno riservati esclusivamente alle assemblee
cristiane, non per privilegio iniziatico ma perché il Credo di
fronte ai non cristiani è l’azione, il porre gesti concreti
di “diversità evangelica” nel quotidiano, il rifiutare l’asservimento
a qualsiasi idolo. Possiamo allora capire la portata estremamente
attuale di una lettera di Bonhoeffer dal carcere nell’aprile del
1944: “Come facciamo a essere ekklesìa, chiamati, senza per
questo considerarci religiosamente privilegiati, ma piuttosto facenti
in tutto e per tutto parte del mondo? Cristo allora non è più
oggetto della religione, ma qualcosa di completamente diverso,
veramente il Signore del mondo… Forse a questo punto acquista nuova
importanza la disciplina dell’arcano, la distinzione tra cose
penultime e cose ultime” (Resistenza e resa, Milano 1969, p.
214).
Come si vede, nessuna rinuncia alla propria identità cristiana,
nessun cedimento alla mentalità mondana, nessun compromesso con la
radicalità delle esigenze evangeliche, ma una piena solidarietà con
le fatiche, la ricerca del male minore, del bene possibile con quanti,
etsi Deus non daretur, mirano alla salvaguardia della dignità
umana e si sentono implicati nella responsabilità civile. In quest’ottica
assumono tutt’altro peso alcune convinzioni che la chiesa non
ritiene sue ma derivate da quella che lei discerne essere la volontà
di Dio, divenuta Legge nell’Antico Testamento (la bibbia di Israele)
e Vangelo nel Nuovo Testamento. La chiesa, con profonda umiltà e
riconoscendo anche la propria inadempienza nel cammino storico, non
può, per esempio, modificare l’annuncio rigoroso ed esigente di
Gesù sul matrimonio fedele, sulla vita come dono di Dio che solo a
lui va riconsegnata, sul rispetto e sulla salvaguardia della
creazione.
Non potrà perciò accogliere come prassi cristiana il divorzio, ma
non impedirà agli altri cittadini di avvalersi delle leggi che lo
regolano; confessando che Dio è in alleanza con ogni uomo, sua
creatura, dal concepimento fino alla morte, il cristiano non può
confessare e riconoscere che altri si ritengano padroni della vita:
per questo porrà domande, interpellerà, avvertirà i non cristiani,
si confronterà con loro sul piano antropologico ed etico - sicuro che
le proprie convinzioni hanno una portata umana e sono un servizio all’uomo
e alla qualità della vita - ma non impedirà che le leggi della
collettività cerchino il male minore, né pretenderà che la
legislazione dello stato faccia riferimento a Dio o a una qualsiasi
chiesa.
Paolo VI amava ripetere: “la chiesa oggi si fa dialogo”. Oggi in
questo faticoso confronto con chi non condivide la sua fede, in questo
dialogo che va ripreso e approfondito ogni giorno, il cristiano non
dimentichi che sovente in quanti prescindono da Dio c’è più
passione che non in alcuni di quelli che costantemente si richiamano a
lui: molti laici conducono una lotta anti-idolatrica, una battaglia
contro ogni asservimento dell’uomo con una tenacia e una lucidità
esemplari anche per i cristiani.
“Stranieri e pellegrini”, i credenti abbiano dunque “una bella
condotta tra i non cristiani”, dice ancora Pietro nella sua prima
Lettera, “conducano una vita decorosa di fronte agli altri” (Prima
Lettera ai Tessalonicesi): vivano cioè nutriti delle convinzioni
che vengono loro dal vangelo e le traducano con linguiaggio
antropologico, in modo da mostrare agli altri la portata umanistica e
la “bontà umana” che esse contengono. Aperti all’ascolto dell’altro,
disponibili al dialogo, i cristiani saranno così capaci di edificare
con gli altri membri della “polis” un mondo il più abitabile
possibile.
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