La prospettiva del pensiero tragico
Intervista a Sergio Givone
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pensiero tragico
Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Sergio Givone è nato a Buronzo (Vercelli) nel 1944. Si è laureato
in Filosofia all'Università di Torino con Luigi Pareyson. Ha
insegnato a Perugia, Torino e Firenze, dove attualmente è professore
ordinario di Estetica. È stato condirettore, insieme a Carlo Sini,
Massimo Cacciari e Vincenzo Vitiello della rivista “Paradosso”
nata nel 1992.
L'interesse di Sergio Givone per l'estetica nasce da un modo di
concepire la filosofia come un discorso che trova i suoi contenuti
fuori di sé: nell'arte, nel mito, nella rivelazione religiosa. La
filosofia non è se non interpretazione di questi contenuti, volta a
rilevarne il valore universalmente comunicabile. Questo non significa
che egli si riconosca nell'area di pensiero indicata come “ermeneutica”.
Piuttosto che autoriflessione sul carattere interpretativo del
discorso filosofico, quella di Givone vuol essere interpretazione in
atto di quei testi in cui arte e religione chiamano in causa la
filosofia. Per questa via egli è tornato a interrogarsi sulla portata
del romanticismo, riconoscendo in esso l'origine storica di una
problematizzazione del valore di verità dell'esperienza estetica,
ancora oggi viva e densa di implicazioni. Givone, infine, trova un
punto di convergenza di arte e religione nella nozione di “pensiero
tragico”, con la quale intende sottolineare l'attualità di un
pensiero che non arretra di fronte al carattere irriducibilmente
enigmatico dell'essere e dell'esistere.
Questa la sua bilbiografia:
La storia della filosofia secondo Kant, Mursia, Milano, l972; Hybris e
melancholia, Mursia, Milano, 1974; William Blake. Arte e religione,
Mursia, Milano, 1978; Ermeneutica e romanticismo, Mursia, Milano,
1983; Dostoevskij e la filosofia, Laterza, Roma-Bari, l984; Storia
dell'estetica, Laterza, Roma-Bari, 1988; Disincanto del mondo e
pensiero tragico, Il Saggiatore, Milano, 1988; La questione romantica,
Laterza, Roma-Bari, l992; Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari, l995;
(con m. ferraris e f. vercellone) Estetica, TEA, Milano, 1996; Favola
delle cose ultime, Einaudi, Torino 1998. Ha curato: Estetiche e
poetiche del Novecento, SEI, Torino, 1973; Sul pensiero simbolico, Il
poligrafo, Padova, 1996; Estetica: storia, categorie, bibliografia, La
Nuova Italia, Firenze, 1998.
Professor Givone, in quali termini ci si può introdurre all’universo
e al senso aperti dal pensiero tragico? Da quali prospettive può
essere avvicinato?
Quella del pensiero tragico è una prospettiva relativamente recente.
Se ne possono trovare tracce nella storia della filosofia; Nietzsche,
per esempio, tentò una ricostruzione - tentativo però abbandonato -
di quella che egli definì la “filosofia tragica” dei Greci. Non
è detto che questo abbandono non sia dovuto proprio al riconoscimento
che di un pensiero tragico vero e proprio presso i Greci non si può
parlare. Certo, i Greci hanno espresso la tragedia, ma il pensiero
tragico è una cosa diversa. Thomas Mann ha parlato di pensiero
tragico a proposito di Pascal e di Racine, ma anche questa proposta
sembra caduta. Insomma, il pensiero tragico è un modo di pensare
recente, in quanto si costituisce sulla base di una risposta a quello
che è un grande fenomeno epocale: il nichilismo. È una risposta,
diciamo pure, non nichilistica al nichilismo.
Che cosa distingue pensiero tragico e nichilismo? Ecco un buon punto
di partenza: il nichilismo, paradossalmente, non tematizza quello che
sembrerebbe essere il suo problema più proprio, ossia il problema del
nulla. Per il nichilismo il nulla è un fatto, qualche cosa di cui non
si può che prendere atto. Secondo il nichilismo, le cose sono certo
impregnate di nulla, non sono se non in rapporto al nulla, ma per l’appunto
il nulla è la condizione del loro essere. Cosa sarebbe il mondo, cosa
sarebbe l’essere senza il nulla? Qualcosa di inconcepibile. Ma per l’appunto
in quanto condizione dell’essere delle cose, del nostro stesso
essere, il nulla è un fatto, un “a priori”, qualche cosa con cui
dobbiamo - ecco la proposta, il progetto tipicamente nichilistico -
abituarci a convivere.
Non così, invece, il pensiero tragico. Il pensiero tragico trova che
questa del nichilismo al problema del nulla sia una risposta evasiva.
In realtà il nulla è un problema, qualche cosa che deve essere
interrogato. Insomma, il pensiero tragico nasce dalla riproposizione
in chiave moderna, anzi contemporanea - appunto a fronte di quello che
è definito il grande fenomeno dell’epoca, il nichilismo - della “domanda
fondamentale”: perché l’essere e non, piuttosto, il nulla? È
questa una domanda metafisica? Ponendola, il nichilismo si reinserisce,
come alcuni critici hanno fatto osservare, nella tradizione
metafisica? Io non direi. Vero è che la domanda fondamentale presenta
soluzioni che sono tipicamente metafisiche, se si pensa soprattutto a
Leibniz, che è stato colui che, meglio di ogni altro, ha saputo
formularla. Ma, appunto, come? Ponendola e togliendola nello stesso
tempo. Diceva Leibniz: perché c’è qualcosa e non piuttosto il
nulla? Il fatto che qualcosa ci sia è già la prova che l’essere
già da sempre l’ha vinta sul nulla. Se c’è qualcosa, è giusto
che qualche cosa ci sia. È giusto in base a quel principio di ragione
che governa l’essere stesso.
Questo è un modo tipicamente metafisico di porre la domanda
fondamentale. Schelling, contro Leibniz, la riproporrà in un senso
propriamente tragico, e cioè non dando per scontato che, poiché c’è
qualcosa, ci debba essere il nulla, ma nel nulla riconoscendo quel
fondamento infondato, che getta una luce inquietante sull’essere,
che fa dell’essere ciò che è ma potrebbe anche non essere, insomma
il luogo in cui tutto, sempre di nuovo, dev’essere deciso. La
domanda fondamentale, in questa chiave, è posta su uno scenario
decisamente tragico perché, se il fondamento dell’essere è il
nulla, l’essere è convertito nella libertà: uno scenario dove
sempre tutto, di nuovo, è da decidere. Nulla mai è “ab origine”
deciso. Siamo fuori dalla metafisica, dal razionalismo metafisico,
siamo di fronte a un confronto col nichilismo, dove davvero il
pensiero tragico oggi ha, mi pare, qualche cosa da dire.
Approfondiamo il problema della relazione tra pensiero tragico e
nichilismo. Il nichilismo, dunque, come dissoluzione del tragico e il
tragico come alternativa al nichilismo? E quali sono state e sono le
difficoltà della filosofia occidentale nel pensare il 'nullla'?
Il problema è proprio questo: il nichilismo è una forma, anzi è la
forma per eccellenza, di dissoluzione del tragico. Il tragico viene
dissolto là dove il nulla è concepito come una condizione, un “a
priori” dell’esperienza, qualche cosa di cui noi dobbiamo prendere
atto, prendendo atto della nostra finitezza: cosa sarebbe di noi senza
il nulla, senza la morte? Secondo il nichilismo, la morte è qualche
cosa che ci spaventa, ma è anche ciò che ci fa essere quello che
siamo. Senza la morte, cioè senza questo destino che ci accompagna e
che fa sì che finiamo nel nulla, cosa sarebbe delle nostre speranze,
del fatto che progettiamo in vista del nostro tramontare, per salvarci
da questo naufragio, sapendo però che naufragare dobbiamo?
Insomma senza il nulla, senza la morte, la nostra vita sarebbe qualche
cosa di inconcepibile. Dunque i nichilisti concludono che, anziché
paventare il nulla e la morte, dobbiamo abituarci a convivere con
questa realtà. Ma è una conclusione un po’ troppo precipitosa,
perché, per quanto sia vero che l’”a priori” della nostra
esperienza è segnato da una radicale, forse insopprimibile
negatività, è anche vero che non per questo tale negatività merita
solo il nostro elogio; dobbiamo piuttosto ricorrere ad un pensiero che
sappia dire l’una cosa e l’altra. Il nulla - in fondo, una
metafora della morte - è la condizione della nostra vita, ciò che
rende la vita quello che è. È dunque anche la condizione del valore;
ciò che la fa preziosa perché è effimera, destinata a tramontare.
Ma nondimeno il nulla è il nulla, la morte è la morte, cioè qualche
cosa che spaventa, che fa orrore, che si staglia su uno sfondo di
negatività del quale dobbiamo, se non venire a capo, certo porre il
problema.

Il pensiero tragico si è configurato in epoca relativamente recente e
che gli autori che hanno cercato un vero e proprio pensiero tragico
nella storia della filosofia, di fatto, hanno lasciato cadere questo
loro tentativo. La difficoltà nasce dal fatto che la storia della
filosofia occidentale si svolge, quasi interamente, sotto un
interdetto: tu non devi pensare il nulla. Lo ha detto Parmenide: tu
non devi pensare il nulla, perché pensare il nulla è impossibile,
anzi di più: è contraddittorio. Quindi, secondo Parmenide, non solo
dovrai dire dell’essere che è ma non dovrai neppure dire del non
essere che non è, perché dirlo è già attribuire al non essere una
qualche realtà, sia pure negativa. Quindi la contraddizione si
insinua anche nel pensiero che dica ciò che sembrerebbe legittimo e
doveroso dire - che il non essere non è. È un interdetto che pesa
“ab origine” sull’intera storia del pensiero occidentale. Tant’è
vero che la metafisica ha fatto suo questo interdetto e ha rimosso il
nulla in quanto problema. Non solo la metafisica, ma anche la logica e
la scienza.
Heidegger, che in epoca moderna ha posto la questione con più
forza di ogni altro, nella Introduzione alla metafisica pone il
problema del nulla proprio a partire da un riflessione sulla scienza,
facendo notare come la scienza, appunto, si occupa di ciò che è e
come, per farlo, è costretta a rimuovere ciò che non è. Ma, secondo
Heidegger, chi si occupa del nulla, di ciò che non è?
Non la metafisica, perché da tempo - da sempre, anzi - lo ha escluso
dal suo dominio; non la logica. E allora chi? Di qui il problema di un
altro pensiero, che sappia appunto affrontare un problema che
sembrerebbe improponibile filosoficamente. Di qui la difficoltà di
rinvenire, nella storia del pensiero, proposte che vadano nella
direzione di un pensiero tragico. Tuttavia, il nulla non è stato
cancellato. È, certo, rimosso. Possiamo definirlo come il “grande
rimosso” del pensiero occidentale. Proprio in quanto rimosso, c’è
- sia pure nella forma di una posizione che, mentre pone, toglie ciò
che pone, o che, mentre toglie, pone ciò che toglie. Allora, come
proprio del rimosso, il nulla lo incontriamo nella forma di una
irruzione, che sorprende la filosofia, ossia di fronte alla quale la
filosofia sembra difendersi e non disporre di categorie che davvero
sappiano pensare questa - chiamiamola paradossalmente - realtà del
nulla.
Il nulla irrompe nei tragici. Si è detto che il pensiero presocratico
- secondo Nietzsche, altri invece lo hanno detto per la sofistica -
sia l’ideologia della tragedia. Ossia, ciò che i tragici hanno
intuito, pensato, messo in scena, i presocratici avrebbero in qualche
modo tematizzato, pensato in forma propriamente filosofica. Questo non
è vero. In realtà il pensiero presocratico, anche la sofistica,
esclude il nulla, l’ontologia del nulla. L’interdetto di Parmenide
resta valido. Il nulla è soltanto una figura fittizia, che serve a
descrivere quella che già Parmenide chiamava la “via falsa”, la
via di colui che si lascia incantare dalle ombre, dalle apparenze, da
ciò che non è. Ma per l’appunto è solo una funzione, quasi
didattica, l’introduzione del nulla nel pensiero presocratico.
Ma davvero i tragici si sono limitati a indicare la doppia via: la via
che conduce verso la verità e dunque verso la salvezza e la via che
conduce invece verso l’errore e dunque verso la perdizione? Davvero
i pensatori tragici stanno sugli spalti del teatro e osservano quello
che, invece, gli autori tragici mettono in scena, come se mettessero
in scena i loro pensieri? Io ho qualche dubbio. Ho l’impressione che
dal profondo della scena tragica emerga quello che davvero possiamo
dire un altro pensiero, cioè emerga un pensiero che pensa il nulla,
che non si serve del nulla come di una figura fittizia, e quindi
puramente illustrativa di ciò che è verità e di ciò che è errore,
ma introduce un nulla, lo fa irrompere nel cuore stesso del pensiero
trasformandolo per sempre.
Il pensiero diventa - l’espressione è tipica nella tragedia - “logos”,
“discorso razionale” che conosce l’ambiguità e la duplicità,
che fa dell’apparire del vero non l’apparire di una verità
incontrovertibile governata dalla necessità, ma fa dell’apparire
del vero un enigma, qualche cosa che è e non è, che è in questo
modo ma potrebbe essere altrimenti, qualche cosa appunto di
fondamentalmente enigmatico. Dike - la giustizia, ma anche la forma
dell’apparire del vero - è inafferrabile, ma non perché - come
volevano i sofisti - ciò che è giusto qui è sbagliato altrove,
dunque nel quadro di un radicale relativismo. No, dike è dike, sempre
se stessa. Ma la sua identità non è governata dal principio di
ragione, dal principio di non contraddizione: è una identità
enigmatica, è e non è, è ma è fondata sulla indeterminazione,
sulla possibilità di apparire altra da come è già apparsa. È
appunto un enigma e l’essere dell’enigma consiste nel fatto che l’essere
ha il suo fondamento nel nulla, piuttosto che nella necessità.
Professor Givone, nella comprensione del pensiero tragico una
questione fondamentale è sicuramente rappresentata dalla relazione
tra Paganesimo e Cristianesimo di fronte al tragico. Altrettanto
fondamentale è la questione se la tradizione cristiana effettivamente
superi o meno il tragico.
Questo è un grande problema, forse il più grande di tutti. Si dice -
è diventato quasi un luogo comune - che il tragico sia una realtà
che appartiene al mondo pagano e che non può essere trasferita al
mondo cristiano. Il Cristianesimo sarebbe, per sua natura, non solo
una religione, ma una visione del mondo fondamentalmente antitragica.
Questo perché il Cristianesimo introdurrebbe nel mondo una categoria,
la categoria della redenzione, che renderebbe impossibile appunto il
tragico.
Si dice: là dove l’esito ultimo della storia è la redenzione, là
dove al di là del dramma non solo di ogni vicenda individuale ma del
dramma dell’uomo nella storia c’è la redenzione, una finale
riconciliazione di ognuno con tutti e di tutti con Dio - perché
questo in definitiva è la redenzione: la riconciliazione, diciamo
pure, dell’essere con se stesso - il dramma si trasforma in qualche
cosa che drammatico, o meglio tragico, propriamente non è più.
Si fanno degli esempi pertinenti a questo proposito. Si dice che Dante
ha scritto una Divina “Commedia”, che di tragedie in epoca
cristiana non ne sono state più scritte e che, laddove sono state
scritte, si è trattato di autori non più cristiani o di opere che
solo in apparenza sono tragedie. Shakespeare, Kleist sarebbero già
autori post-cristiani e tragedie non propriamente tragiche sarebbero,
ad esempio, quelle di Racine. Questo proprio perché il Cristianesimo
non sopporterebbe il tragico, cioè quella enigmaticità che resti
davvero tale, non risolta in una superiore forma di riconciliazione, e
cioè di redenzione. O la redenzione o il tragico, questa la tesi.
Io credo che questo sia un discorso da prendere molto sul serio, ma da
approfondire, perché non è vero che la redenzione sia qualche cosa
di fondamentalmente antitragico. Non bisogna confondere la redenzione
e l’idea cristiana di salvezza con l’apocatastasi, cioè con l’idea
che il mondo alla fine dei tempi ritrovi la sua unità, la sua
perfezione, la sua integrità originaria e cancelli tutti quegli
elementi di scissione, di dolore, di sofferenza, che hanno costituito
la storia del mondo.
La redenzione non è l’apocatastasi, essa trattiene dentro di sé
questi elementi di scissione e di sofferenza. La redenzione, così
come ci è descritta per esempio nell’ultimo testo rivelato secondo
la tradizione cristiana, l’Apocalisse, vede sul trono l’agnello
sgozzato. Abbiamo la figura di un Dio sofferente, che porta la
sofferenza dentro di sé e, è vero, la espia, la presenta nella forma
di una consolazione possibile, ma la esibisce, non la cancella, non la
supera.
Ci sono due tradizioni diverse, all’interno del Cristianesimo, che
portano entrambe verso un pensiero tragico. La redenzione può essere
una risposta al problema della sofferenza: hai sofferto ma in funzione
di altro, di qualche cosa che supera il momento della sofferenza; la
sofferenza è cancellata, di essa non ne è più nulla. Ma se la
redenzione è, proprio al contrario, l’impossibilità di dare una
risposta; se la redenzione è il Dio che prende su di sé il dolore
del mondo non perché lo giustifica e lo supera, ma perché non lo
può giustificare - ecco la figura apocalittica dell’agnello
sofferente - se la sofferenza è un abisso così profondo da non poter
essere spiegato neppure da Dio, al punto che Dio prende su di sé la
sofferenza e la espia esibendola, conservandola, siamo in una
prospettiva completamente diversa.
Non è vero che la redenzione è la restituzione dell’essere alla
sua integrità, alla sua perfezione originaria. Non è vero che la
redenzione cancella l’elemento negativo presente nella storia. Essa
lo illumina, lo esalta, lo salva conservandolo. Pensiamo all’etimologia
di salvezza: salvare, è “servare”, che vuol anche dire “conservare”.
Ecco, Dio che viene a salvare conservando. Questo è un paradosso
tipicamente tragico: la sofferenza è salvata, a misura che è
conservata, ma conservata da Dio, e quindi non semplicemente fissata
alla sua insopprimibilità, alla sua insuperabilità. La sofferenza è
superata, ma in un modo misterioso, enigmatico, paradossale, dove si
deve dire l’una cosa e l’altra, che tanto più è superata quanto
più è conservata a se stessa; per usare un’espressione di un
filosofo non cristiano, ma che risponde a questo spirito tragico del
Cristianesimo: la “memoria della vita offesa”. Dio salva in quanto
conserva l’offesa, conserva la vita offesa, perdonandola ma non
dimenticandola. Siamo nel cuore del tragico.
Professor Givone, in che senso Lei dice che c'è un Paganesimo
antitragico, così come un Cristianesimo antitragico, ma anche un
Paganesimo tragico e un Cristianesimo tragico?
Pensiamo al dogma cristiano del peccato originale. Che cosa c’è di
più propriamente tragico di questa figura? Il peccato originale è la
colpa dell’innocente, la necessità di dover rispondere di ciò che
non è colpa nostra. Ma questo è l’essenza stessa del tragico. Che
cosa se non la tragedia greca ci ha insegnato che esiste una
tradizione, altamente problematica, dell’esistenza dove siamo
chiamati a rispondere di qualche cosa di cui non siamo colpevoli? O
meglio, che cosa, se non la tragedia greca, ci insegna che siamo
colpevoli di qualche cosa che non abbiamo consapevolmente commesso?
Edipo è colpevole di qualche cosa di cui nessun tribunale lo
accuserebbe; ma è colpevole. Freud lo ha capito benissimo, ma
altrettanto bene lo aveva capito già Sofocle. È necessario ricorrere
a Freud per comprendere che Edipo ha voluto uccidere suo padre: è il
volere più profondo del volere di cui era consapevole, del volere di
superficie ed è questo volere profondo, che contraddice il volere di
superficie, a costituire l’anima del tragico.
Lo stesso vale per il mito, figura, dogma, del peccato originale. Noi
siamo colpevoli, nasciamo con una colpa che nessuno ci può di fatto
imputare, ma questa colpa originaria, che ci coinvolge tutti in un
orizzonte di colpevolezza, ha appunto un significato profondissimo:
questo essere colpevoli anche di qualche cosa che non ci può essere
imputato, è il vincolo, nella colpa, di tutti. Questo vincolo, questo
nascere colpevoli, questo sentirci solidali nella colpa, è un
elemento di comprensione della nostra esistenza del quale sembra
davvero difficile poter fare a meno.
Si dirà: ma tutto ciò non ha più a che fare con la nostra
esperienza di uomini, appunto, moderni, i quali si sono liberati, una
volta per tutte, di queste mitologie. Ma proviamo a spiegare una
realtà di cui pure facciamo esperienza. La tecnica è un movimento
che mi trascende, gli apparati tecnologici che guidano i grandi
processi di trasformazione e la mia stessa esistenza, ai quali la mia
esistenza, così come l’esistenza di tutti, è subordinata, in fondo
non sono nelle mani di nessuno: essi sono, potremmo dire, pura
trascendenza, processi che seguono il loro corso indipendentemente
dalla buona o cattiva volontà dei singoli. Tuttavia i singoli sanno
bene di essere tutti responsabili di questi processi.
Non sto adesso facendo del moralismo: la colpa, la solidarietà nella
colpa è precisamente quella tragica, per cui siamo colpevoli di
qualche cosa che ci trascende. Questo qualche cosa che ci trascende i
Cristiani lo chiamavano peccato originale, i Greci lo chiamavano
destino, ma sia i Greci, cioè i tragici, sia i Cristiani - quei
Cristiani che hanno pensato tragicamente il Cristianesimo - hanno
pensato il peccato originale e il destino come una necessità che ci
domina e di fronte alla quale noi non possiamo nulla ma di cui,
nonostante questo, noi siamo responsabili. Dunque possiamo e siamo
chiamati a renderne conto.
Ma, se siamo chiamati a renderne conto, dobbiamo dire l’una cosa e l’altra
- ecco il pensiero doppio, l’ambiguità - che siamo e nello stesso
tempo non siamo responsabili, che ci deve e non deve essere imputato
questo male. Il pensiero tragico dice l’una cosa e l’altra,
sopporta la contraddizione. In questo c’è dunque una continuità
tra Paganesimo , Cristianesimo e pensiero tragico propriamente
moderno.
Nietzsche è un autore che non possiamo eludere, nell’interpretazione
del rapporto tra Paganesimo e Cristianesimo. Può parlarci della sua
lezione?
Nietzsche sostiene che, con il Cristianesimo, del tragico non v’è
più nulla. Il Cristianesimo ha cancellato il tragico in base a un
ideale di redenzione che considera la sofferenza come lo strumento per
una più alta riconciliazione dell’uomo con Dio. Il Paganesimo sa
invece - secondo Nietzsche - sa essere tragico perché sa essere
fedele al finito. Essere fedele al finito significa essere fedele al
nostro destino di morte, che non è oltrepassabile. La fedeltà al
finito è il presupposto per quel pensiero capace di sopportare la
contraddizione e dunque di essere propriamente pensiero tragico. Non
solo, dopo aver distinto Paganesimo e Cristianesimo, e identificato il
Cristianesimo con una concezione del mondo fondamentalmente
antitragica, Nietzsche identifica anche il Cristianesimo con una
concezione del mondo fondamentalmente nichilista. Nichilismo e
Cristianesimo sono, per Nietzsche, la stessa cosa, in quanto il
nichilismo è l’esito di una scissione ontologica, quella per cui da
una parte c’è l’essere e dall’altra il dover essere, che non
solo non coincide con l’essere, ma svaluta, impoverisce, svuota l’essere.
Scindere, separare l’essere e il dover essere, come, secondo
Nietzsche, fa il Cristianesimo, significa inseguire un vuoto fantasma
e sacrificare a questo fantasma, che è Dio, la vita quale essa è,
degna di essere amata nel bene e nel male e anzi al di là del bene e
del male, perché appunto, al di là del bene e del male, non ci
dovrebbe essere che il nostro “sì” alla vita. I Cristiani
trasformano il nostro “sì” alla vita in un “no” gonfio di
risentimento perché, non sapendo amare la vita e inseguendo appunto
questo fantasma trascendente, rivolgono nei confronti della vita tutto
il loro sentimento risentito.
Ma questo è nichilismo, perché dire che Dio alla fine di un
processo, in nome di Dio stesso, impone di dire la verità su Dio,
cioè che Dio per noi non è più nulla, non ha più significato per
la nostra vita, significa dire che Dio è morto. Ma se Dio è morto,
se questo fantasma non è più neanche tale, ma soltanto il segno del
nostro “no” alla vita, la vita diventa il luogo perfettamente
negativo in cui noi non sappiamo fare altro che negare. Per la
verità, Nietzsche parla anche - mentre definisce questo tipo di
nichilismo “nichilismo reattivo” o “risentito” - di un’altra
forma di nichilismo, cioè la forma nichilistica di chi, prendendo
atto che Dio è morto, sappia trasformare - ed è questo il senso vero
della transvalutazione dei valori - il suo “no” in un “sì”.
Nel momento in cui il cielo si svuota, e dunque lo sguardo rivolto
verso l’alto rivela tutta la sua inconsistenza, o ci si chiude in un
lamento senza fine sul fatto che Dio non c’è più e che il mondo
dunque non ha più nessun valore, oppure si sa, a partire da quella
consapevolezza, accettare la realtà e dunque convertire il nostro “no”
alla vita in un “sì” pieno, che non arretra di fronte alla
considerazione del male, del dolore, della sofferenza che la vita
comporta. Ma, di nuovo, chi sa dire questo “sì? L’uomo tragico, l’uomo
anticristiano, che ha rovesciato il “no” del Cristianesimo nel “sì”
del Paganesimo. Quel “sì” che è tragico proprio perché è “sì”
nonostante il male, il dolore e, anzi, in forza del male e del dolore.
Quella di Nietzsche è la riproposta di una concezione pagana, al di
là del Cristianesimo.
Qual è invece la posizione di Kierkegaard rispetto al
Cristianesimo?
Il pensiero tragico, secondo Kierkegaard, trova la sua realizzazione
più piena e più compiuta proprio nel Cristianesimo, ma un
Cristianesimo naturalmente le cui categorie devono essere totalmente
ripensate; un Cristianesimo che sappia sciogliere i propri legami -
legami molto equivoci - con la tradizione metafisica, che sappia
pensare la redenzione come qualcosa di tragico, quindi non la
Aufhebung della scissione, come quella dimensione - paradossale,
evidentemente - in cui il superamento del dolore e la sua
conservazione sono tutt’uno, e, di nuovo, in cui Dio, anziché
venire a dare una risposta sulla ragione del male nel mondo, assume su
di sé questo male e lo redime, esibendolo, conservandolo, portandolo
dentro di sé. Non che questo significhi fare del male o avere una
sorta di manicheismo, per cui Dio è un Dio ancipite, in cui il
principio positivo e il principio negativo, il bene e il male vengano
alla fine a coincidere. No, Dio è Dio a misura che in lui il male è
redento. Ma, per l’appunto, la redenzione non cancella il male, ma
svela nel male, cioè nel dolore e nella sofferenza, il senso dell’essere.
Nella misura in cui è svelato, il male è sottratto a se stesso, alla
propria forza puramente distruttiva e nichilistica. Ma nella stessa
misura il male è fissato a una inoltrepassabilità, nel senso che
annichilire questa vicenda sarebbe, appunto, dimenticare ciò che è
stato. Dio è questa realtà che ricorda la sofferenza, ricordandola
la espia e la redime, ma per l’appunto la ricorda e dunque la
conserva. Non c’è niente, secondo Kierkegaard, di più tragico del
fatto che non ci si possa salvare dal male se non trattenendoci in una
dimensione dove il male che abbiamo fatto e che abbiamo subito sia
conservato in Dio stesso.
E ricordiamo che è stata la tradizione mistica, a ben vedere, a
rendere possibile qualche cosa come un pensiero tragico, perché se la
mistica non fosse intervenuta con i suoi paradossi - a dire ad esempio
con Meister Eckhart che Dio è il nulla, a presentare questa divinità
che sta sull’abisso, anzi che è essa stessa abissale, cioè che non
ha fondamento, che non è governata da un principio di ragione, a
parlare dell’essere come sovrastato dalla libertà, del nulla come
fondamento dell’essere - del pensiero tragico non ci sarebbe stata
traccia, perché, per l’appunto, il pensiero tragico ha questo
presupposto, che l’essere sia essenzialmente infondato e dunque sia
la libertà stessa.
Ha scritto Martin Heidegger: “Il luogo proprio del tragico è l’estetica”.
In che senso possiamo intendere questa affermazione?
Heidegger ha scritto questo nel suo grande studio dedicato a Nietzsche
ed è forse il caso di ricordare quali sono i presupposti della sua
interpretazione di Nietzsche per capire come, interpretando Nietzsche,
sia poi arrivato a questa affermazione apparentemente sconcertante:
“il tragico ha il suo luogo proprio nell’estetico”. Affermazione
paradossale, perché in genere si tende a pensare che l’arte sia la
dimensione dell’effimero, del gioco, della finzione, e non di quel
conflitto della verità che è propria del tragico.
L’interpretazione heideggeriana di Nietzsche è tutta fondata sull’idea
di morte di Dio, ma anche sul tentativo di sottrarre quest’idea a
quella che per Heidegger è la sua banalizzazione. Chi è che
banalizza quest’idea? Tutti sanno che Dio è morto, le Chiese sono
vuote, il mondo moderno non guarda più a Dio, ma guarda alla tecnica,
eccetera. Ma questo è un ritornello che nella Gaia Scienza Nietzsche
mette in bocca al fannullone. Heidegger avverte che Nietzsche nel
pensiero della morte di Dio ha colto qualche cosa di inaudito, di
ancora impensato: Dio altro, totalmente altro, rispetto a come l’aveva
pensato la tradizione metafisica. Dio non tanto come essere che ha in
sè la propria ragion d’essere, dunque fondamento di se stesso e
dell’essere in quanto tale, ma Dio come orizzonte, come - egli dice
- “divinità oscura, che sempre dilegua”, orizzonte all’interno
del quale la stessa morte di Dio si lascia concepire.
Heidegger fa riferimento, a questo proposito, al “trono di grazia”,
cioè all’iconografia della crocifissione dove Dio muore in Dio: il
figlio muore e alle sue spalle il padre assiste, rendendo questa morte
visibile, lasciando che sia oggetto di esperienza per l’uomo. Dio
come orizzonte, un Dio che si contrappone alla tradizione metafisica,
che, se mai, fa riferimento alla mistica. Un Dio pieno di paradossi,
che è tutto, meno che il fondamento, la ragione ultima di tutte le
cose. È altro, è l’apertura, la dimensione a partire dalla quale l’impensabile
- appunto l’inaudito - si lascia pensare e udire.
Per capire questo dobbiamo pensare alla tradizione della mistica, ma
anche all’estetica, perché è l’estetica che ci parla della
realtà come di qualcosa che accade - piuttosto che come di qualcosa
che si lascia spiegare sulla base del principio di ragione -, della
realtà di una rosa che fiorisce, della realtà di un evento che si
dà a conoscere, ma anche della realtà che ricapitola in sé il senso
dell’essere, e cioè la realtà di Dio. È l’estetica che
concepisce l’essere come apertura, come libertà piuttosto che come
necessità. E non a caso l’estetica, da questo punto di vista,
appare come l’erede della mistica. Ed è Plotino, ispiratore dei
mistici ma anche fondatore di una concezione dell’arte molto
interessante, a spiegare questo nesso. Plotino, infatti, pensa l’essere
come infondato e la creazione come gesto che non risponde ad uno
schema, ad un progetto, ma come gesto che libera l’essere a se
stesso. Ora, per la mistica e per l’estetica insieme, il carattere
di evento della realtà e dell’essere stesso si lascia finalmente
cogliere. Ma cogliere il carattere di evento della realtà significa
sottrarre la realtà al principio di ragione, sottrarla alla
necessità e offrirla a un’esperienza di segno radicalmente
contrario, in cui la realtà riacquista quel carattere di enigma, di
ambiguità e soprattutto appare come totalmente affidata a me, che me
ne faccio responsabile.
Divento responsabile anche di ciò di cui propriamente non sono, da
cui tutti i paradossi della tragedia, del pensiero tragico. Se la
realtà è ambigua, infondata, affidata a me che liberamente - anche
se mi opprime perché governata dalla necessità - mi atteggio nei
suoi confronti, allora la frase di Heidegger: “Il luogo più proprio
del tragico è l’estetico”, non è poi così stravagante, perché
l’estetico è quel luogo che ci mette di fronte a un’altra
realtà, a una diversa, irriducibile concezione della realtà. Realtà
uguale libertà, libertà uguale coinvolgimento nella stessa radice
dell’essere di colui che, di fatto, sulla scena del mondo, sembra
costretto a recitare una parte minima, insignificante e tuttavia l’uomo
immortale - questa figura più adatta alla commedia che alla tragedia
- è “responsabile” - come ha detto Dostoevskij - “per tutti di
tutto”. Di nuovo, siamo sul piano di una solidarietà nella colpa,
che soltanto il pensiero tragico riesce a spiegare, ma sulla base di
una diversa ontologia, dove l’essere è libertà piuttosto che
necessità. Questa ontologia è la grande lezione della mistica da una
parte, dell’estetica dall’altra.
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