Ogni istante è un crocevia
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“Parlare del destino è parlare del tempo. E nessuna arte come il
cinema ha saputo raccontare questa dimensione in modo tanto libero da
vincoli”. Così la pensa Umberto Curi, docente di Storia della
filosofia all’Università di Padova, ma anche accanito divoratore di
film. Così accanito da fondere le due competenze in un libro
pubblicato lo scorso anno da Raffaello Cortina, Lo schermo del
pensiero, una ricerca dei maggiori principi filosofici nelle
sequenze dei suoi film più amati.
Adesso, per le edizioni Bruno Mondadori, Curi si ripresenta in
libreria con un testo, Il volto della Gorgone, che indaga sul
più inevitabile dei destini, la morte. Ed è proprio sul rapporto tra
il destino e il cinema che accetta di parlare con Caffè Europa.

Professore, qual e’ secondo lei il regista che ha saputo meglio
parlare di destino?
“Difficile fare graduatorie. Sicuramente, il primo a cui penso è
Krzystof Kieslowski. Specie in due suoi film, La doppia vita di
Veronica e Film Rosso. Affrontano entrambi il tema del
destino visto attraverso la lente del doppio. Nel primo caso, il
destino di un personaggio, la Veronica francese, è legato a quello di
una sua ignota gemella, la Veronica polacca, lontana nello spazio. Nel
secondo, il passato dell’anziano giudice prefigura quello di un
giovane studente in legge, che molti anni dopo rivive gli stessi
identici eventi. Una doppio nel tempo, dunque”.
Qual è l’originalità di Kieslowski?
“Quella di aver saputo dare al tempo una sua specifica dignità. Il
regista polacco esalta l’aspetto della rappresentazione, nel senso
etimologico di portare nel presente, creando un'inversione tra futuro
e passato. Il cinema, in fondo, è tempo, e null’altro. E’ l’unica
forma espressiva in cui si percorre la dimensione spazio/tempo senza
essere vincolati alla direzione dell’irreversibilità. E Kieslowski
mostra, meglio di chiunque altro, come il futuro appartenga al passato”.
Un capovolgimento della direzione temporale si trova anche in molto
cinema di cassetta.
“Certo, in Ritorno al futuro, di Robert Zemeckis, si assiste
all’ingegnoso stratagemma che offre grandissime occasioni di trama.
Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo aspetto. Non scordiamoci che
Zemeckis è un regista di origine greca, nel sangue porta la
riflessione antica tra il tempo inteso come kronos e tempo come
permanenza. Se noi guardiamo con attenzione Cast Away, il film
più recente diretto da Zemeckis, ci accorgiamo che l’elemento
antropologico su cui si sono concentrati i giornali è quello più
marginale rispetto ai valori affrontati dal film. A mio avviso, Cast
Away è un’acuta analisi sul tempo come dimensione soggettiva,
non riducibile ai parametri fisici ordinari. Il tempo che il
protagonista vive nell’isola è completamente diverso da quello che
vive in città. E’ un’altra percezione dell’esistenza”.

Da una parte il cinema si svincola dalle leggi fisiche. Dall’altra,
pero’, si ha l’impressione che le sceneggiature cerchino stimoli
dalle ultime conquiste delle fisica per creare riflessioni e intrecci
nuovi. Nei panni dell’altra, in cui la protagonista scambia
la sua vita con quella del suo doppio incontrato per caso, sembra la
dimostrazione delle teorie sugli universi paralleli concepiti dalla
fisica quantistica. Così come pellicole del genere Lola corre
o Sliding Doors, in cui la struttura narrativa classica viene
frantumata.
“Sì, la tendenza è questa. In Sliding Doors, per esempio,
sarebbe sbagliato vedere soltanto l’aspetto moralistico, in cui un
personaggio è migliore dell’altro, sebbene sia la stessa persona,
perché sceglie in modo diverso. Nel film, più profondamente, si
mostra come ogni istante della nostra vita rappresenti un crocevia del
destino, in cui qualsiasi ipotesi è sempre esposta all’influenza
dell’alternativa”.
Nel buddismo si dice più o meno questo: poco prima di nascere
abbiamo una visione delle cose principali che intendiamo fare per
affrontare i nostri nodi e poi tutta l’esistenza è un continuo
esercizio del riconoscerle. Anche in Sliding Doors si ha quasi
l’impressione che i punti chiave per le due protagoniste siano più
o meno simili. Come dire, qualsiasi strada si prenda, prima o poi ci
si scontra in tappe del nostro destino già stabilite.
“In questo senso, oltre alla cultura orientale, la storia di Sliding
Doors risente del pensiero greco. Della moira, in
particolare. Frettolosamente si traduce moira come destino.
Più specificamente la moira è il destino assegnato all’eroe.
E la tragedia nasce dall’opposizione dell’eroe alla propria moira.
Come nel caso di Edipo, che non poteva eludere il padricidio e l’incesto
con la madre”.
Negli ultimi anni, alcuni registi hanno indagato sulle linee del
destino umano capovolgendo la linearità del tempo. E’ il caso di
Manchewski in Prima della pioggia o di Tarantino in Pulp
Fiction.
“Sì, è un’esplorazione che continua. Penso al recente Memento,
in cui il gioco sul tempo sfugge a ogni possibilità di controllo. Il
tema del film è proprio quello che l’uomo viene giocato senza
comprendere le dinamiche della dimensione temporale”.

Altro film che affronta il destino da un punto di vista particolare
è Ricomincio da capo (vedi articoli collegati) di
Harold Ramis, in cui Bill Murray si risveglia ogni mattina dovendo
ripetere esattamente la stessa giornata del giorno prima: lui mantiene
la percezione del tempo che passa, quindi può agire distintamente, ma
il mondo intorno rimane fermo al giorno in cui si celebra la festa
della marmotta...
“La radiosveglia dice sempre lo stesso slogan, la prima persona che
incontra lo saluta sempre con le stesse parole e così via. Un incubo
claustrofobico che esprime benissimo la tirannide del tempo. Non
quello che passa, ma quello che torna rendendoci prigionieri. Anche
questo è un destino che riguarda molti”.
Alla fine, dopo un’infinità di giorni così, il protagonista,
all’inizio un arido e anaffettivo, capisce che l’unica salvezza è
vivere un giorno intero cogliendo tutte le occasioni che quel giorno
offre per amare il prossimo. Non solo per sedurre Andie Mc Dowell, ma
anche per aiutare le persone che soffrono.
“E’ l’amore nel suo statuto più peculiare, più profondo,
quello che trascende le passioni, a scardinare la prigionia del tempo
e salvare il protagonista”.
Nel suo ultimo libro lei ha scritto un saggio dal titolo Imparare a
morire, cioé ad accogliere il destino estremo di ognuno.
“Credo che la filosofia sia proprio l’arte che insegna come
morire. Come è noto, la pozione somministrata a Socrate per
provocarne la morte è un veleno potentissimo, ottenuto dalla cicuta.
Una bevanda mortale, dunque, con la quale Socrate sostiene di rendere
grazie agli dei. Se non che il termine costantemente impiegato nel
Fedone per indicare questa pozione è pharmakon, un termine che
non significa univocamente "veleno", ma che invece vuol dire
- insieme e indissolubilmente - veleno e antidoto, tossico e rimedio,
droga letale e medicina salvifica. Ebbene un pharmakon, e
dunque una bevanda la cui dinamica è doppia, la cui valenza è
duplice, è ciò che beve Socrate per ‘trasferirsi ad altra dimora’.
Perchè la morte è duplice come la vita: da una parte può essere la
fine di un percorso, dall’altra un modo per cambiare di casa”.
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