Il futuro del servizio pubblico
radiotelevisivo Enrico Menduni
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Quello che segue è l'intervento di Enrico Menduni al Convegno
"Innovazione e sistema televisivo", organizzato dalla Fondazione Italianieuropei
(www.italianieuropei.it), e tenutosi a Roma
venerdi' 25 giugno
1. L'esperienza televisiva europea, come quella radiofonica, è
profondamente segnata dal concetto di servizio pubblico. Qui la radio e la televisione
sono stati considerate elementi di un vero e proprio disegno di welfare diretto ad elevare
l'alfabetizzazione e il livello culturale e informativo dei cittadini e a fornir loro un
intrattenimento domestico pressoché gratuito in un'epoca in cui forti barriere sociali ed
economiche rendevano difficile l'accesso ad altri servizi per la ricreazione e il tempo
libero. Questo ambizioso progetto di welfare si è sostanziato e ha trovato una sua forma
culturale e istituzionale nelle aziende nazionali di servizio pubblico radiotelevisivo.
Negli anni Settanta, quando un complesso di fattori sociali, economici
e tecnologici ha aperto la strada in tutta Europa all'emittenza privata, questo disegno di
welfare aveva già dispiegato gran parte dei suoi effetti e stava cercando di ridefinire
se stesso in un mondo ormai segnato da un'offerta copiosa e plurale di beni e servizi
informativi, culturali e di intrattenimento, in gran parte generati dal mercato. Al di là
delle pur significative e profonde differenze nazionali, l'emittenza televisiva privata
non avrebbe potuto radicarsi nei vari paesi europei e crescere con tanto vigore se non si
fosse insediata in una saturazione delle funzioni originarie dei servizi pubblici che
veniva percepita anche a livello della coscienza diffusa.
La convivenza tra le aziende del servizio pubblico radiotelevisivo e le
emittenti private è stata comunque difficile, e ha rappresentato un compito nuovo a cui i
servizi pubblici non erano certo abituati. Sicuramente essa si è rivelata più difficile
in quei paesi, come il nostro, in cui il legislatore non è stato in grado di
diversificare efficacemente le missioni e le risorse tecnologiche, indirizzando ad esempio
i privati verso il cavo e il satellite.
Una concorrenza impropria, fra soggetti per natura diversi ma chiamati
dalle nuove condizioni a dividersi, in maniera asimmetrica, uno stesso mercato
pubblicitario, non ha costituito la cornice più serena per definire se esistesse una
nuova missione di servizio pubblico e in cosa essa consistesse, al di là di concetti
così generali da risultare di scarsa utilità pratica.
Il danno principale di questa condizione anomala è stato la produzione
di una diffusa ipocrisia a proposito del servizio pubblico, di una radicata doppia verità
nel senso comune e anche nella classe dirigente, che le ha impedito, prima ancora dei
condizionamenti di altra natura, di svolgere una vera ed effettiva funzione dirigente in
questo campo. Jean Luis Missika, autore per il governo francese di un acuto rapporto sul
servizio pubblico, ha parlato di "ingiunzione paradossale" (injonction
paradoxale"): "
il potere politico reclama dalla televisione pubblica una
cosa e il suo contrario. Quando il Parlamento vota il bilancio del canale televisivo
pubblico, indica implicitamente un obiettivo di audience, prendendo atto del livello di
risorse pubblicitarie lì previsto. Sempre in forma implicita, questo obbiettivo costringe
France 2 a una concorrenza diretta con TF1. Ma poiché ciò rimane nella sfera del non
detto, sarà sempre possibile rimproverare a France 2 i suoi 'sbandamenti', di essere 'al
rimorchio di TF1', di essere divenuta una 'televisione commerciale di stato' e di parlare
della sua crisi di identità o della sua schizofrenia. Dal punto di vista delle risorse il
canale pubblico è obbligato alla concorrenza, ma da quello ideologico è obbligato a
marcare la sua differenza sia nei programmi che nel palinsesto. Una televisione che sia
contemporaneamente concorrenziale e complementare è come un coltello senza lama a cui
manchi il manico. Nella formula lapidaria di Hervé Bourges, 'fare la concorrenza a TF1
con i programmi di Arte'."
Fin qui Missika: ma cambiando semplicemente i nomi dei canali l'analisi
si potrebbe adattare all'Italia. In questo non detto, in questa ipocrisia, in questa
duplice verità c'è il piccolo cabotaggio di alcuni politici d'assalto e censori
improvvisati ma, soprattutto, la complessiva incapacità della classe dirigente di
governare, per lunghi anni, la transizione dal monopolio ad un sistema plurale in forme
eque, eticamente fondate, capaci di innescare cambiamenti virtuosi utili per il paese.
Il sistema televisivo è stato in quell'epoca (parliamo degli anni '80)
governato e protetto soprattutto dall'esistenza di confini nazionali chiaramente
percepiti. Certo, a livello della circolazione dei prodotti audiovisivi c'è stata la
crisi verticale del cinema italiano (produzione ed esercizio) e lo squilibrio del
"dieci a uno" tra importazioni ed esportazioni dagli Usa, con tutte le note e
gravi conseguenze culturali. Ma i sistemi televisivi europei erano ancora sistemi
nazionali, definiti dalle barriere culturali e linguistiche.
Oggi questi confini non esistono più. La tecnologia satellitare li ha
in parte dissolti, l'integrazione multimediale ha continuato l'opera. La risorsa
trasmissiva non è più risorsa scarsa, ma più abbondante della richiesta. La
finanziarizzazione transnazionale delle imprese di comunicazione ha finito di distruggere
i confini, facendo dell'Europa uno fra i più ricchi mercati del mondo per la creazione e
circolazione di beni e servizi comunicativi, informativi, culturali, audiovisivi. Il
mercato, non più il servizio, o l'azione illuminata di classi dirigenti nazionali, cerca
di marcare con la sua impronta la comunicazione, particolarmente nelle aree più
innovative; ma non si deve dimenticare che il mercato non è l'unica forma, o
necessariamente la migliore, della circolazione di prodotti e servizi culturali.
Performing arts, industrie di prototipi e non di prodotti in serie, il broadcasting sono
eccezioni significative.
L'Unione europea ha con decisione liberalizzato le telecomunicazioni in
ogni loro segmento e aspetto, fissando norme e principi per la libera concorrenza in cui
ogni aiuto statale, ogni asimmetria anche virtuosa ha l'obbligo di giustificarsi con
dovizia di argomenti, se non vuole soccombere. Ciò però non vuol dire che la
giustificazione sia impossibile e che essa non possa trovare orecchie attente, e non solo
quelle, notoriamente più generose, del Parlamento europeo. I principali stati europei
dispongono tutti di televisioni di servizio pubblico finanziate con un mix di risorse
pubbliche e pubblicitarie (con la sola eccezione della Bbc).
In realtà sostenere che per l'Unione europea la libera concorrenza
commerciale rappresenta un bene supremo è soltanto una "vulgata" assai
approssimativa, quando il problema della normativa comunitaria è sempre quello di
salvaguardare il principio della libera concorrenza (iscritto nei trattati di Roma e
Maastricht) tutelando insieme i diritti, la parità di accesso (il "servizio
universale") e lo sviluppo della società: per dirlo con le chiare parole della
Direttiva "Televisione senza frontiere 2" (approvata dal Parlamento Europeo e
dal Consiglio nel 1997), "conciliare la libera circolazione dei servizi televisivi
con la necessità di prevenire possibili elusioni delle misure nazionali destinate a
proteggere un legittimo interesse generale".
2. Un legittimo interesse generale di diffusione della cultura, di
tutela della creazione intellettuale e artistica, di servizio informativo al cittadino e
alla comunità può dunque essere perseguito, esercitato e protetto nel quadro europeo
attraverso una missione di servizio pubblico.
Ma non solo si può, si deve. Non procedere ad una efficace
ridefinizione della missione di un servizio pubblico radiotelevisivo significa condannarlo
ad una fine lenta (ma neanche tanto) per asfissia, cioè per l'impossibilità di
sopravvivere in un mercato che richiede regole, dimensioni di investimento e velocità di
decisione da esso stesso stabilite, per mancanza di appetibilità e di praticabilità
rispetto a partner internazionali, e tutto quello mentre la doppia verità, mai risolta,
consente in ogni momento il tiro al bersaglio sul servizio pubblico manchevole in questo o
in quell'aspetto, la paralisi o il cambiamento continuo dei suoi vertici. Negli anni
Ottanta la persistenza di national boundaries consentivano un appeasement duopolistico (un
compromesso collusivo) tra il servizio pubblico e un'azienda privata assai poco normale,
anche in assenza di una chiara definizione di servizio pubblico moderno, permettendo
perfino interpretazioni personali, anche virtuose, e brillanti variazioni sul tema. Oggi
non è più possibile: tecnicamente, finanziariamente, culturalmente. Sono richieste
dimensioni finanziarie adeguate, risorse non stagnanti, alleanze internazionali, economie
di scala, autonomie operative, differenziazione tra amministrazione, gestione e controllo;
una forma culturale adeguata e coesa e, se è consentito, un fondamento etico, un'etica
progressiva del servizio universale senza il quale non c'è coesione e riconoscibilità
sociale.
Se la Rai non è messa in condizione di adeguarsi a queste condizioni
rischia di essere come la piacente ragazza di Torriglia, "che tutti la guardano e
nessuno la piglia". Che fa un'enorme fatica, ingiustamente per il suo valore, nel
tessere alleanze internazionali.
Se non ci fosse per la Rai una ridefinita missione di servizio
pubblico, e si trattasse solo lo dico per assurdo, perché è cosa che nessuno
desidera di renderla commerciale e profittevole, non si vede perché non la si
dovrebbe privatizzare e cederla al mercato come è accaduto a società grandi dieci volte
lei (Telecom Italia) e come l'Unione europea ci imporrebbe legittimamente. Per paradosso,
guardando al profitto si cancellerebbe un'immagine di marca legata alla qualità, che è
essa stessa un valore da difendere, perché genera fidelizzazione e quindi valore
aggiunto.
Adattarsi al mercato è necessario, ma ben altro significa: disboscare
i troppi organismi di controllo creandone uno solo, rendere trasparente e certa la
proprietà, distinguere la sua sfera di intervento dall'autonomia manageriale dandole
maggior certezza e lunghezza dei termini di mandato, e dunque aumentare la velocità delle
decisioni. Collegare in modo trasparente le funzioni svolte alle varie fonti delle proprie
risorse e la loro contabilizzazione, e creare una struttura societaria che permetta
partnership delle più varie e il presidio dei comparti più innovativi delle
telecomunicazioni o la valorizzazione di tutte le risorse aziendali (come ad esempio gli
impianti o gli immobili: iniziative già in parte attuate).
Chiarendo però un punto: se soltanto a qualche frammento della Rai
fosse affidata una dichiarata funzione di servizio pubblico, la Rai sarebbe presto
smembrata perché il suo "core business", tutto "for profit", sarebbe
inevitabilmente venduto, caricando probabilmente costi fissi sui frammenti restanti e
travolgendoli sotto il peso di tali oneri e della connessa conflittualità. Invece di
aumentare di volume, si andrebbe in senso contrario.
Del resto, se solo tali frammenti (nuova Rai Tre o altri) fossero
considerati di servizio pubblico, non si vede perché gli italiani dovrebbero essere
felici di pagare lo stesso canone, che oggi ritengono distribuito su una ben più ampia
gamma di servizi.
Naturalmente, quando come "core business" dell'azienda fosse
riconosciuta la concessione del servizio pubblico radiotelevisivo, come peraltro è
contenuto nella legge, nella convenzione Stato-Rai e con particolare puntualità nel
contratto di servizio, nulla impedirebbe di svolgere altre funzioni for profit:
naturalmente per questo sarebbe necessaria una forma societaria, anzi di gruppo, adeguata,
capace di graduare in varie compagini societarie la partecipazione di altri soggetti al
capitale e all'impresa.
3. Spesso nel campo di cui ci occupiamo, e forse non solo in questo, le
decisioni politiche hanno preso la forma del non decidere. Vorrei segnalare qui che i nodi
stanno venendo rapidamente al pettine e non è più consentito di non decidere.
L'inamidato duopolio televisivo è ormai incrinato dall'arrivo delle televisioni
tematiche, della convergenza, della multimedialità. La L. 249/97 ha spalancato le porte
alla concorrenza. L'Iri, padrone putativo della Rai, sta per chiudere il suo ciclo e il
suo pacchetto totalitario di azioni deve trovare una collocazione.
Ma non si tratta solo di aspetti istituzionali. E' la realtà stessa
della società dell'informazione che modifica, e talvolta in meglio, le condizioni di un
servizio pubblico. Un esempio: la produzione nazionale di fiction, un capitolo
fondamentale dell'identità culturale moderna del paese, un elemento essenziale della
dialettica tra specificità locale e processi globali per declinare le diverse identità
in uno scambio meno ineguale. La rivitalizzazione di un'industria audiovisiva gracile,
sbaragliata negli anni Ottanta, gli stessi in cui altrove si rafforzavano i produttori
indipendenti. C'è più servizio pubblico di questo? La fiction italiana è stata
nell'ultima stagione un successo della Rai pensiamo a "Un medico in
famiglia" che ne ha prodotto il 62% (dieci anni fa era al 40). L'apporto della
fiction italiana è stato determinante perché le reti raggiungessero i loro obiettivi di
ascolto. Ma in Italia se ne producono 309 ore all'anno, quante nel 1988; in Germania e in
Inghilterra 1.000 ore; 600 ore in Francia; la neonata industria di fiction spagnola
produce 800 ore all'anno. Da noi si può investire un miliardo all'ora, ma in Germania in
media il doppio, in Gran Bretagna e in Francia una volta e mezzo. Si può fare di più
dunque, ma per questo è necessario un sostegno virtuoso al mercato, un prelievo di
risorse di servizio pubblico per una funzione di interesse generale. Funzioni, come si
vede, perfettamente compatibili con finalità economici anche se esse non sono gli unici
obiettivi.
Un'altra funzione nuova di servizio pubblico è l'innovazione, la
qualità e la diversità. La televisione generalista, si sa, non ama rischiare, preferisce
andare sul sicuro, magari comprando un collaudato "format" straniero, o
ricorrendo al LOP, al "least objectionable program", il programma che suscita
minori obiezioni e dunque è culturalmente conservatore. Già oggi, se accorpiamo in
macrogeneri le programmazioni Rai, Mediaset e Tmc notiamo quanto la Rai sia più varia,
più attenta già adesso a una "biodiversità culturale". Cultura, informazione,
trasmissioni di servizio, hanno un peso nel mix ben più rilevante rispetto al
quadrilatero fiction-varietà-giochi-sport. Non è anche questa varietà un bene da
tutelare e sviluppare? Ma questa costa, e va contro le tendenze spontanee del mercato,
anche se nel medio periodo può sicuramente produrre anche un profitto. E probabilmente
determinerà un prodotto ad utilità ripetuta, rispetto al banale giochino "da dove
chiami?", realizzato a basso costo in studio ma che una volta trasmesso non serve
più a nessuno. Se per certe classi di beni e servizi un'offerta plurima orientata al
profitto e al più largo smercio è l'ambiente che dà al consumatore i prodotti migliori,
questo non è vero per la tv.
Il servizio pubblico nell'era della società dell'informazione può
rappresentare l'infrastruttura tecnologica e operativa, ma anche culturale ed etica, in
cui contenere questo preminente interesse generale.
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