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Letti per voi/Il teatro di guerra di Biljana Srbljanovic

Andrea Tarquini

 

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Questo articolo e' apparso su "La Repubblica" del 9 giugno

Biljana Srbljanovic, nata nel 1970 a Belgrado, si è laureata in drammaturgia e scienze teatrali all'Accademia di arti drammatiche di Belgrado, dove ora insegna, nel 1997. Ottiene un grande successo con Trilogia di Belgrado. Nel ' 98 Storie di famiglia è un trionfo al teatro alternativo Atelje 212. Da allora le sue opere sono rappresentate più volte nelle principali città tedesche. Sta ultimando un terzo lavoro, titolo provvisorio, La caduta. Figura-simbolo dell'intellighentsia critica, pubblica su Repubblica il suo diario da Belgrado in guerra. Il suo compagno è Nenad Prokic, direttore teatrale impegnato come lei nella denuncia del regime.

Colonia Guai alle dittature, e specie ai totalitarismi di sinistra, quando, eccedendo in stupidità, corruzione e violenza, spingono gli intellettuali a vincere la paura e a rompere il silenzio. A Belgrado, nel dopoguerra che si annuncia difficile quanto vicino, c'è una bella, giovane donna che sfida il regime con dure, audaci opere teatrali e con coraggiose testimonianze sulla stampa internazionale, come il "Diario" su la Repubblica che l'ha resa celebre anche da noi. Diffamata dai media di Milosevic come "prostituta al servizio degli italiani", attaccata da insidiose campagne antisemite contro i suoi amici, Biljana Srbljanovic è in questi giorni in Germania: accompagna la sua troupe in una tournée di successo in successo. Ascoltando lei che cerca di dare ai giovani serbi la voglia di discutere sul futuro, ripercorriamo i drammi del passato-presente dell'Est e dell'Europa intera.

"La cosa più terribile", confessa, "è pensare che arrivi la pace ma a Belgrado tutto resti come prima, che "lui" rimanga saldo al potere". L'incubo di una svolta impossibile pesa sui suoi pensieri, a tratti le rattrista il bel volto, mentre percorriamo la ricca Colonia. E qua e là, qualche rudere del '45 rimasto tra i nuovi palazzi del centro o qualche restauro frettoloso ricordano che mezzo secolo fa ci volle la disfatta nella seconda guerra mondiale per liberare la Germania e il mondo dalla tirannide hitleriana. "Vengo dall'accademia di letteratura, ho scelto il teatro perché mi offre una scrittura e una comunicazione più dirette", racconta Biljana, che si stringe a fianco del suo compagno Nenad Prokic, drammaturgo e direttore di teatro. Ha portato in Germania le sue due prime opere, emblematiche del dramma jugoslavo: Trilogia di Belgrado racconta la triste vita dell'altra Serbia, quella dell'emigrazione giovanile. Protagonisti del dramma a episodi sono ragazzi e ragazze bollati come "traditori" dal regime: alcuni dei 300 mila fuggiti dalla Serbia per scampare alle guerre di Milosevic. Quasi in un'implicita evocazione di Milan Kundera o Czeslaw Milosz, la loro vita è altrove. Diversi personaggi di questa diaspora antinazionalista e disperata - un renitente alla leva e il fratello a Praga, due intellettuali frustrati in Australia, giovani in cerca di fortuna in California - vivono l'attesa del Capodanno tra nevrosi, violenza e tensioni. Storie di famiglia narra invece di come alcuni bimbi di Belgrado giocano agli adulti, e così mettono in scena lo squallore e le sofferenze della vita sotto l'ultimo socialismo reale nel vecchio continente.

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Il suo è uno stile secco, carico d'amara ironia e spietato pessimismo. E a ogni rappresentazione, le platee diventano un happening politico, un'amara autocoscienza della Serbia rimasta ferma a prima dell'89. "Mi chiedete a quali autori mi ispiro? Non sempre l'ispirazione o la formazione culturale vengono direttamente dal teatro. Certo, contano Ionesco o Beckett. Ma anche autori coraggiosi, da Thomas Mann a Umberto Eco, o filosofi come Popper. O Hannah Arendt, il cui grande saggio sul totalitarismo a Belgrado è stato stampato si e no in cento esemplari: noi intellettuali e il nostro pubblico ci passiamo le copie di mano in mano, come gioielli da tramandare sotto il regime e sotto le bombe. E quando penso ad Hannah Arendt, mi chiedo se voi occidentali non sottovalutiate l'astuzia e la capacità di sopravvivenza del dittatore". Visto dagli occhi di Biljana, il futuro della Serbia è una pagina bianca su cui gravano le ombre del presente. "Io faccio teatro per mostrare che la società resta capace di riflettere su se stessa. Ma spesso penso quanto sia grande il rischio di uscire dalla guerra nella vergogna, senza dignità". Oggi, racconta la giovane ribelle di Belgrado, in Serbia si vive tra la rabbia e la paura: c'è chi parla apertamente e grida il suo odio per Milosevic, ma c'è anche chi - e sono tanti - non trova il coraggio di dire di no, c'è chi continua a lavorare come se niente fosse. "All'inizio del conflitto le mie opere teatrali sono improvvisamente scomparse dal repertorio dei teatri, senza spiegazione. Da noi, in tempi normali, non esiste la censura, e nessuno ha invocato le leggi di guerra per questi cambiamenti. Ma si sa che un teatro può essere indotto a piegarsi da finanziamenti negati, tanto più in un momento in cui i soldi mancano a tutti". Ecco il parallelo con la Germania dell'anno zero riemergere dal presente di Belgrado. "Mi chiedete se anche i serbi devono scontare grandi colpe, così come i tedeschi pagarono per aver scelto Hitler? Ognuno deve trovare la sua via: è sbagliato criminalizzare una società tutta, o generazioni intere, ma non si può dimenticare che esiste anche la colpa delle scelte degli ignoranti, una categoria morale. E anche i tedeschi soffrirono, nel '45 e dopo". Come sarà il futuro? Un processo che la Serbia saprà affrontare da sola, o dovrà lasciarsi imporre dai vincitori come fu per la Germania? "A volte ho la sensazione che in Serbia tutto sia destinato a fallire: il mercato, il comunismo, forse persino la strategia della Nato. Oggi, a Belgrado, se ascolti quel termometro dell'umore popolare che sono i tassisti, senti dire che sarebbero disposti a uccidere Milosevic con le loro mani. Non so perché mi sembrano quasi parlare come Jamie Shea, quel portavoce Nato che a ogni briefing sui bombardamenti mi ricorda il Dottor Stranamore. E mi chiedo: ora che la Nato rischia di vincere ma negoziando con lui la vittoria, dovremo noi serbi riuscire contro di lui, cioè laddove anche la Nato fallisce? E come dovrei invitare alla lotta contro il suo potere? Non voglio cambiare il mondo predicando la violenza. Mi ha fatto impressione la Cnn quando l'altra sera, come in un monito a noi serbi, ha mostrato le immagini del processo e dell'esecuzione di Nicolae ed Elena Ceausescu. L'intento era di indicare una possibile fine per Milosevic, ma a me le immagini di quei due vecchi romeni impotenti e incapaci di capire cosa stesse succedendo facevano solo pena". Chi parla così, di solito, sceglie l'esilio, non la resistenza all'interno. "Ci ho pensato spesso, e non nego che la figura di Thomas Mann per noi sia sempre più un esempio. Ma voglio restare nel mio paese. Voglio combattere le correnti nazionaliste della cultura ufficiale, proprio nel mio ambiente, nel teatro dove quelle idee, dopo l'89, cominciarono per prime a farsi attive e hanno causato tanto danno". Cominciò anche sul palcoscenico, in Serbia e in Croazia, racconta Biljana, la riscoperta dei nazionalismi e degli odii verso gli altri popoli, l'esaltazione del ruolo nazionale del regime.

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Ma la guerra spacca l'intelligentsija europea, la porta a schierarsi pro o contro la Nato. Il discorso cade inevitabilmente su Peter Handke, lo scrittore austriaco di origine slovena in campo con Belgrado contro gli occidentali. "Non voglio credere che egli agisca in malafede", dice Biljana, "ma una cosa posso e devo dirla: venendo a Belgrado, parlando a manifestazioni ufficiali, prendendo posizione in modo unilaterale solo contro la Nato e non contro i massacri, lui tutto fa fuorché aiutare noi intellettuali critici. Lui ha scelto di parlare solo con la nomenklatura nazionalista, con gli accademici paludati della cultura ufficiale. E così facendo rende e renderà tutto più difficile. Non aiuta certo le voci indipendenti, né le tante piccole, coraggiose case editrici che tentano di mantenere in vita un dibattito degno di questo nome". La scelta di Handke, purtroppo, non è un caso isolato. "Sono delusa dalla cultura occidentale", si sfoga Biljana, e spiega: "Con qualche vistosa eccezione, ci ha lasciati soli. Oggi l'intelligentisja da noi sopravvive grazie agli aiuti del finanziere George Soros, non alla solidarietà degli intellettuali della prospera Europa occidentale. Né Handke, né chi tace, aiuta a superare una situazione in cui gli ufficiali della polizia speciale del regime sono più pagati dei migliori professori universitari, e in cui i docenti critici sono spesso ammoniti con la minaccia di reclutare a forza i loro figli mandandoli a combattere e morire in Kosovo".

E di cosa avrà bisogno la Serbia per risollevarsi, dopo la tragedia dell'ultima guerra scatenata e persa da Milosevic? Di quali leader? "Non avrà bisogno di nuovi leader forti, per carità. Le servirà scoprire pian piano una vita democratica normale, con normali leader politici che potranno vincere le elezioni e poi perderle. Le servirà liberarsi da questo clima tetro in cui gente come Arkan o altri criminali di guerra siedono tranquilli nei bar, si comportano come pacifici, rispettabili cittadini". E' una liberazione possibile? Biljana giura sul suo ottimismo, ma traccia un quadro. Forse più ancora della ricostruzione d'un paese devastato prima dal malgoverno poi dalla guerra, sarà difficile la ricostruzione morale d'una società devastata da quella che lei chiama a tratti "cleptocrazia", una società stilizzata dalla triste simbologia di Trilogia di Belgrado e di Storie di famiglia, e incapace di cogliere il senso dei tempi e della Storia. Riuscirà questa Serbia a diventare un paese moderno? "Dipenderà molto anche da noi intellettuali", risponde Biljana, "dalla nostra capacità di restare sempre una voce critica, e di ricordare, anche in una futura democrazia, che ogni potere merita critiche. Guai a noi se un giorno diremo entusiasti: "Ecco, ora i nostri sono al potere". A me piace l'idea di restare in minoranza, all'opposizione". Ma quando verrà una società davvero matura e tollerante? "Non con queste generazioni, troppo segnate dagli odii e dalle nostalgie. Forse dovremo aspettare dieci o quindici o vent'anni anni, dare tempo ai bimbi di oggi e a quelli che devono ancora nascere di crescere liberi dal bagaglio della Storia".

 


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