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La lezione del Kosovo: se non si fa l'Europa

Giancarlo Bosetti


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Giancarlo BosettiPace, ma col fiato sospeso

Benissimo. La guerra e’ finita, l’accordo definitivo c’e’. L’ultimo si’ a sbloccare le incertezze e’ quello della Cina. Quando il rappresentante di Pechino all’Onu, Shen Guafong, ha annunciato: ''Non bloccheremo la risoluzione'' (quella che da’ il via libera alla forza internazionale per il suo ingresso nel Kosovo), e nel momento in cui la Nato ha certificato il ritiro in corso dell’esercito serbo, e’ cominciata una fase nuova che mette tutti d’accordo, almeno per un momento, nel sollievo. Basta bombardamenti. Segue pero’ un gigantesco "MA", perche’ questa non e’ una guerra come le altre. Non c’e’ soltanto da seppellire i morti e da ricostruire: la vicenda politica che segue, per riportare i profughi albanesi nella loro regione (400.000 entro settembre), per garantire la sicurezza, organizzare gli aiuti, ricostruire, stabilizzare l’intera area, apre una lista di problemi cosi’ lunga, fitta e contraddittoria da lasciare col fiato sospeso. La fame di chiarezza che viene dai lettori e’ immensa e purtroppo, molto spesso, i contributi alla chiarificazione dei problemi non riescono ad altro che a mostrare nuove complicazioni, di cui non si vedono soluzioni a breve.

 

Ci sono gli italiani, bene

Accogliamo intanto comunque con soddisfazione la fine delle incursioni aeree e l’ingresso in Kosovo di 50.000 soldati italiani, tedeschi, inglesi, francesi, americani e russi. Il ruolo degli italiani in questa vicenda e’ stato buono. Buono l’appoggio militare, buono il sostegno statale e volontario ai profughi, e buona, nei limiti in cui era possibile (obbiettivamente: molto ristretti) la pressione per una soluzione politica che coinvolgesse Russia e Cina. Pensate se oggi non fossimo parte attiva nelle operazioni di presidio del Kosovo, noi il paese piu’ vicino, tra i maggiori, al teatro della catastrofe: sarebbe una condizione di assenteismo, inspiegabile, miserabile e autolesionistica. Ma non nascondiamo che adesso comincia una storia molto piu’ lunga dei 79 giorni di guerra, una storia nella quale e’ in gioco non soltanto la pace nell’area balcanica ma la forma dell’ordine internazionale degli anni a venire.

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Finalmente si scende di quota

Nella stranezza di una guerra combattuta da alta quota dai paesi della Nato contro un regime nazionalista guidato da un uomo incriminato (strada facendo) per gravi violazioni dei diritti umani erano gia’ contenute le contraddizioni che ora si rifletteranno nella conduzione della pace e nei criteri di riordino dei paesi coinvolti (tra i quali rimane il regime di cui sopra, con il suo capo). Ora gli uomini sono sul terreno, finalmente, e armati, anche se nel ruolo di truppe di pace ed in base ad accordi pattuiti con gli ex belligeranti serbi. L’intervento umanitario e’ sceso dunque di quota ed approda davanti alle case degli albanesi, che pero’ nel frattempo sono state evacuate o distrutte, o tutt’e due le cose insieme. Il tragico paradosso di questo risultato e’ figlio dei molti paradossi di una guerra che i paesi della Nato hanno voluto e fatto, ma solo entro certi limiti, dal momento che non hanno mai seriamente considerato l’idea di un attacco militare a terra. I motivi dell’impresa bellica aerea sono stati abbastanza forti e convincenti, per le opinioni pubbliche occidentali, da sostenere i governi che hanno mosso guerra a Milosevic, ma non abbastanza forti da spostare l’impresa dai cieli alla terra. I principi si mescolano pragmaticamente con le ragioni del consenso e con le convenienze politiche (sia detto con il massimo rispetto per la natura pacifica delle democrazie), ma questa scelta incontra due obbiezioni, una di ordine morale e una di ordine pratico. Quella di ordine morale dice che in questo modo – come ha sostenuto anche su "Caffe’ Europa" e nel convegno di "Reset" ad Abano Terme il filosofo americano Michael Walzer – si accetta che vi siano vite piu’ spendibili (quelle balcaniche) e altre meno spendibili (quelle occidentali). Quella di ordine pratico dice che in questo modo la pulizia etnica non e’ stata impedita, forse e’ stata addirittura accelerata, e, cosa ancora piu’ grave, che non si sono impediti massacri sulla cui entita’ sappiamo gia’ abbastanza ma vedremo piu’ chiaro tra qualche tempo. Cosi’ stanno le cose se non vogliamo fare solo ragionamenti di comodo e senza nulla togliere alle responsabilita’ criminali del regime di Belgrado.

 

Una guerra imperfetta

Ma la stranezza di questa guerra non sta solo nel rapporto obliquo tra i mezzi (bombardamenti) e i fini (impedire la pulizia etnica) sta anche nella imperfetta identita’ del soggetto che l’ha condotta per conto della "comunita’ internazionale". La guerra l’ha fatta la Nato, perche’ l’Europa che avrebbe dovuto muoversi prima, anche con le armi, non ne e’ stata capace e non ne ha gli strumenti. L’ipotesi di una azione europea, magari con l’appoggio americano, sarebbe stata piu’ coerente con un disegno politico che dovra’ ora comunque proporsi l’integrazione dell’area balcanica; piu’ coerente di una azione, come e’ stata, fondamentalmente americana con l’appoggio europeo. Ancora piu’ coerente con un disegno dell’ordine internazionale basato su regole certe e su maggiori garanzie di universalita’ del diritto sarebbe stato un intervento dell’Onu, di una sua forza armata, o comunque deliberato dalle Nazioni unite. Ma a questo schema di azione, come sappiamo, si oppongono, sia in questo caso sia in generale, gli Stati Uniti che non intendono cedere il loro ruolo di superpotenza unica ed egemone. Questo stato di cose ha reso la guerra imperfetta dal punto di vista della legittimita’. E’ stato il minore dei mali nelle condizioni date, ma non potra’ diventare un modello operativo per il futuro a meno che non si abbia in testa, come ideale, il modello della "pace imperiale", della "pax americana" dominato da un’unica sorgente di potere. Questo modello non puo’ star bene neppure ai simpatizzanti degli Stati Uniti per la semplice ragione che non e’ abbastanza liberale. La democrazia internazionale ha bisogno, come quella interna, di pesi e contrappesi, di un pluralismo di poteri. Ed anche per questo e’ indispensabile attrezzare un esercito europeo, vale a dire la potenza militare di una grande area democratica del mondo. Gli Stati Uniti sono una societa’ libera e la loro opinione pubblica e’ assai piu’ democratica e collaudata di quella cinese o russa, ma non possiamo far dipendere da lei tutte le questioni di sicurezza e di protezione dei diritti umani che si presenteranno nel corso del tempo.

 

NATO o esercito europeo?

Si apre qui un problema di disegno degli equilibri mondiali nei quali l’Europa avra’ una parte fondamentale, ma la costruzione di una vera opinione pubblica europea e’ soltanto agli inizi. Lo dimostra la campagna elettorale per il voto del 13 giugno che non e’ riuscita, nonostante la guerra, a portare l’attenzione sulla riforma dell’Unione europea e sulla costruzione di una volonta’ comune nella politica estera. Le difficolta’ sono forti anche tra forze politiche relativamente omogenee, ed al governo quasi dovunque, come i partiti del socialismo europeo. Per capire di quali differenze si tratta basta pensare che mentre il neopresidente del’Unione, Romano Prodi, persegue un progetto di ricostruzione dell’economia e della societa’ nei Balcani che veda protagonista l’Europa e, ancora di piu’, un progetto di progressiva integrazione degli Stati balcanici nell’Unione (abbiamo pubblicato su "Caffe’ Europa" articoli e documenti al Piano Emerson), il premier britannico si associa all’idea dell’integrazione europea ma continua ad affidare il futuro militare europeo alla sola Nato. La quale certamente non ha esaurito la sua funzione, e sarebbe davvero ridicolo parlarne in questi giorni; ma e’ certo che se si sostiene, come non si puo’ non fare da democratici, l’ideale di una pluralita’ di poteri militari, oltre che economici, questi non possono essere concentrati tutti nella struttura a dominanza americana. Ci vuole una struttura europea.



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