| Ma il dibattito no! 
 
 
 Salvatore Veca con Paola Casella
 
 
 
 Articoli collegati:
 Tuttologia, il sale della vita
 Ma il dibattito no!
 A proposito di stile
 Da Aristotele a Spielberg
 Miniantologia/ Pasticcio di
          pensieri
 E' una piccola rivoluzione: la filosofia esce dall'ambito accademico
          per raggiungere il grande pubblico attraverso i canali più disparati
          - dal cinema alla narrativa, fino addirittura al fumetto. Il fenomeno
          è recente, e in rapida espansione, come vedrete dagli articoli che
          seguono. Abbiamo chiesto a un illustre docente universitario - ma
          anche un convinto sostenitore della necessità di rendere la filosofia
          accessibile anche a a utenti "che per loro fortuna non faranno il
          mio lavoro" - di spiegarci perché tutto questo succede proprio
          adesso.
 
 Salvatore Veca è professore ordinario di Filosofia della politica
          presso l'Università di Pavia e presidente della Fondazione
          Feltrinelli. Ha pubblicato numerosi saggi filosofici concentrandosi
          negli ultimi anni sulle questioni di verità, giustizia e identità -
          gli esiti di queste meditazioni sono contenuti nel saggio Dell'incertezza,
          cui ha fatto seguito la raccolta di saggi di filosofia sociale e
          politica Della lealtà civile (entrambi Feltrinelli).
 
 Recentemente Veca ha tenuto una delle lezioni di filosofia e cinema 
              organizzate dal Sole 24 Ore: il suo intervento esaminava il film 
              Ninotchka come introduzione alla domanda "Che cos’è 
              una società giusta?".
 
 Come mai proprio in questo momento si cerca di avvicinare la
          filosofia al grande pubblico?
 
 Onestamente è molto difficile per me trovare una singola risposta. In
          parte, è un discorso di maggiore visibilità della filosofia come
          sapere socialmente riconosciuto. L'attenzione sociale verso i vari
          tipi di attività intellettuale segue un andamento ciclico: c'è stato
          il ciclo dei sociologi, poi quello degli economisti. Visto che gli
          economisti cominciano a non prevedere a più di tre giorni, e che i
          sociologi dicono che le società sono tutte integrate, è venuta meno
          la fiducia sociale nei loro confronti e adesso ci si rivolge ai
          filosofi, che sono gli eredi di un sapere arcaico e remoto: un po'
          meticci, un po' sciamani. Si è creata una domanda di saggezza, di
          significato, la necessità di accedere a un sapere esperto che
          fornisca istruzioni per l'uso delle nostre vite.
 
 Non sarà un tentativo di rivalsa da parte della filosofia occidentale 
              nei confronti delle filosofie orientali, che hanno ottenuto tanti 
              consensi negli ultimi anni?
 
 Può essere uno degli elementi, ma non giustificherebbe la grande
          tradizione anglosassone della divulgazione: pensiamo ad esempio a
          Richard Popkin o a Bertrand Russell. Per gli anglosassoni, la
          filosofia è un'attività intellettuale con un carattere disciplinare,
          come la chimica o la biologia molecolare, la matematica o l'algebra.
          Così come ci sono libri che spiegano il Big Bang o il DNA a persone
          che non sono del ramo così esistono grandissimi libri di divulgazione
          per spiegare la filosofia a chi non è di questo mestiere, come Principia
          Mathematica di Russell, che è una delle imprese della gloria
          dell'intelligenza umana, di vertiginosa complessità e astrazione.
 
 Perché da noi è meno diffusa la volontà, o la capacità, di
          divulgare concetti filosofici?
 
 E' la cultura della divulgazione in sè che manca: vale per i concetti
          filosofici come per quelli scientifici. Da noi la divulgazione è
          sempre stata ritenuta un'attività di serie B, mentre io la ritengo
          un'impresa meritoria che richiede un appassionato spreco di risorse
          intellettuali. Parlare di filosofia in modo accessibile prevede
          l'attribuzione di importanza all'impresa, quella di rispondere a una
          domanda che altrimenti resterebbe disattesa. L'idea è quella di
          rivolgere a un pubblico per il quale non si presume la padronanza
          tecnica della tradizione filosofica una serie di informazioni,
          nozioni, teorie e dottrine, presupponendo il meno possibile ed
          esplicitando tutte le definizioni dei termini per chi non sa che cosa
          significhino.
 Credo che la mancanaza di una nostra cultura della divulgazione
          dipenda dal fatto che coloro che sono addetti alla produzione di
          discorsi filosofici o scientifici ritengono che i loro interlocutori
          siano esclusivamente le comunità di riferimento, e che in qualche
          modo sottoporsi all'esercizio della divulgazione voglia dire
          abbassarsi di livello. Invece chi dà grande importanza alla filosofia
          dovrebbe ritenere che una delle imprese più preziose sia quella di
          far si che altri ne possano condividere.
 E' buffo: laddove c'è maggiore tradizione di divulgazione filosofica
          c'è anche una maggiore istituzionalizzazione della ricerca
          filosofica, cioé esiste una comunità filosofica con una forte
          identità collettiva. La filosofia diventa allora un sapere l'accesso
          al quale richiede più atteggiamenti di convergenza. Se penso che il
          mio sapere sia stato guadagnato attraverso tecniche di esplorazione e
          di ricerca interne al mio sapere e alla mia cerchia stretta, allora
          sottopormi all'esercizio di comunicarlo a un'altra cerchia non mi
          toglie nulla, anzi, aggiunge valore.
 
 Se sapere è potere, forse la difficoltà a divulgare è anche una
          resistenza a estendere il proprio potere ad altri.
 
 Potere di fare che cosa, però? Il divulgatore fa sì che le persone
          che accedono a quanto sarebbe stato loro escluso possano maturare modi
          di vedere le cose che confermano o chiedono cambiamenti ai loro modi
          ordinari. Il che non è poco, perché vuol dire lavorare sulle
          preferenze delle persone.
 
 In questo sforzo divulgativo, non si rischia di sconfinare nel
          manuale how-to?
 
 Certo, un manuale che cerca di rispondere alla domanda: che fare per
          essere felici? E' l'estensione divulgativa della filosofia come forma
          di predica travestita, mentre io penso che l'impegno per la
          divulgazione filosofica vada preso sul serio, perché è un impegno a
          comunicare ad altri uditori gli esiti di un lavoro analitico. A
          predicare ci pensano i preti, noi filosofi dobbiamo comunicare
          argomenti.
 
 L'insegnamento della filosofia a livello liceale è ancora utile?
 
 Nell'ambito della riforma dei cicli, è allo studio l'ipotesi che
          l'insegnamento della filosofia venga introdotto nell'ultimo biennio
          della scuola dell'obbligo. Ma non avrebbe senso insegnare filosofia a
          ragazzini di 14-15 anni nei termini più tradizionali della storia del
          pensiero. Sarebbe meglio addestrarli a maturare la capacità di
          riconoscere e padroneggiare vari modi di risolvere i problemi.
 La grande difficoltà non è tanto quello di passare da un 
              insegnamento di tipo tradizionalmente storico a un insegnamento 
              per problemi, ma quello di educare gli educatori. Chi deve insegnare 
              a ragazzi così giovani, senza lo scopo di formare degli esperti 
              di storia della filosofia, deve partire dall'identificazione di 
              questioni che non presuppongano la conoscenza di tecniche argomentative 
              o di dottrine, e deve rendere immediatamente riconoscibile il problema 
              non dal punto di vista filosofico ma dal punto di vista dello studente. 
              Dopodiché potrà mostrare allo studente come il repertorio degli 
              esempi filosofici di trattare quel problema può costituire per lui 
              un arricchimento.
 
 Quindi essenziale è trovare una via di accesso alla sua
          comprensione del problema.
 
 Senza però essere ossessionati dalla tecnopedagogistica, in cui si
          entra in classe, si fa vedere un film e poi si fa il dibattito: come
          diceva Moretti, il dibattito no! Un insegnante deve diventare il
          regista di una messainscena che serva a far capire e a far sentire -
          perché nell'insegnare ai ragazzi di 14 anni bisogna giocare su due
          registri, quello caldo degli stati del sentire, e poi quello freddo
          della ragione, perchè i ragazzi possano giudicare ciò che hanno
          visto.
 
 Dunque il cinema può costituire una buona via di accesso alla
          filosofia.
 
 Il cinema è l'arte del Ventesimo secolo, e per l'insegnamento della
          filosofia è cruciale come lo sono state, o possono esserlo, la
          letteratura, la poesia e il melodramma: perché esemplificano vite
          possibili, anche emotivamente. La capacità attrattiva, soprattutto
          per dei giovani, di questi esempi sta nel fatto che nell'esperienza
          del cinema, della letteratura, della poesia o del melodramma si
          allarga il ventaglio delle vite possibili, si può pensare se stessi o
          ritrovarsi in altre vite. Bisogna che le persone riconoscano che là
          dentro ci sono i dilemmi che hanno provato o potranno provare,
          dopodichè si può esaminare la questione soggiacente, dal punto di
          vista astratto, a un determinato dilemma morale. Ma io sono per una
          dieta non monotona: lo spunto per una riflessione filosofica può
          essere la scena di un film, ma anche un articolo di giornale, e
          persino un mal di testa.
 
 
 Articoli collegati:
 Tuttologia, il sale della vita
 Ma il dibattito no!
 A proposito di stile
 Da Aristotele a Spielberg
 Miniantologia/ Pasticcio di
          pensieri
   Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
        da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui Archivio
        Attualita' |