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Ma il dibattito no!



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E' una piccola rivoluzione: la filosofia esce dall'ambito accademico per raggiungere il grande pubblico attraverso i canali più disparati - dal cinema alla narrativa, fino addirittura al fumetto. Il fenomeno è recente, e in rapida espansione, come vedrete dagli articoli che seguono. Abbiamo chiesto a un illustre docente universitario - ma anche un convinto sostenitore della necessità di rendere la filosofia accessibile anche a a utenti "che per loro fortuna non faranno il mio lavoro" - di spiegarci perché tutto questo succede proprio adesso.


Salvatore Veca è professore ordinario di Filosofia della politica presso l'Università di Pavia e presidente della Fondazione Feltrinelli. Ha pubblicato numerosi saggi filosofici concentrandosi negli ultimi anni sulle questioni di verità, giustizia e identità - gli esiti di queste meditazioni sono contenuti nel saggio Dell'incertezza, cui ha fatto seguito la raccolta di saggi di filosofia sociale e politica Della lealtà civile (entrambi Feltrinelli).

Recentemente Veca ha tenuto una delle lezioni di filosofia e cinema organizzate dal Sole 24 Ore: il suo intervento esaminava il film Ninotchka come introduzione alla domanda "Che cos’è una società giusta?".

Come mai proprio in questo momento si cerca di avvicinare la filosofia al grande pubblico?

Onestamente è molto difficile per me trovare una singola risposta. In parte, è un discorso di maggiore visibilità della filosofia come sapere socialmente riconosciuto. L'attenzione sociale verso i vari tipi di attività intellettuale segue un andamento ciclico: c'è stato il ciclo dei sociologi, poi quello degli economisti. Visto che gli economisti cominciano a non prevedere a più di tre giorni, e che i sociologi dicono che le società sono tutte integrate, è venuta meno la fiducia sociale nei loro confronti e adesso ci si rivolge ai filosofi, che sono gli eredi di un sapere arcaico e remoto: un po' meticci, un po' sciamani. Si è creata una domanda di saggezza, di significato, la necessità di accedere a un sapere esperto che fornisca istruzioni per l'uso delle nostre vite.


Non sarà un tentativo di rivalsa da parte della filosofia occidentale nei confronti delle filosofie orientali, che hanno ottenuto tanti consensi negli ultimi anni?

Può essere uno degli elementi, ma non giustificherebbe la grande tradizione anglosassone della divulgazione: pensiamo ad esempio a Richard Popkin o a Bertrand Russell. Per gli anglosassoni, la filosofia è un'attività intellettuale con un carattere disciplinare, come la chimica o la biologia molecolare, la matematica o l'algebra. Così come ci sono libri che spiegano il Big Bang o il DNA a persone che non sono del ramo così esistono grandissimi libri di divulgazione per spiegare la filosofia a chi non è di questo mestiere, come Principia Mathematica di Russell, che è una delle imprese della gloria dell'intelligenza umana, di vertiginosa complessità e astrazione.

Perché da noi è meno diffusa la volontà, o la capacità, di divulgare concetti filosofici?

E' la cultura della divulgazione in sè che manca: vale per i concetti filosofici come per quelli scientifici. Da noi la divulgazione è sempre stata ritenuta un'attività di serie B, mentre io la ritengo un'impresa meritoria che richiede un appassionato spreco di risorse intellettuali. Parlare di filosofia in modo accessibile prevede l'attribuzione di importanza all'impresa, quella di rispondere a una domanda che altrimenti resterebbe disattesa. L'idea è quella di rivolgere a un pubblico per il quale non si presume la padronanza tecnica della tradizione filosofica una serie di informazioni, nozioni, teorie e dottrine, presupponendo il meno possibile ed esplicitando tutte le definizioni dei termini per chi non sa che cosa significhino.
Credo che la mancanaza di una nostra cultura della divulgazione dipenda dal fatto che coloro che sono addetti alla produzione di discorsi filosofici o scientifici ritengono che i loro interlocutori siano esclusivamente le comunità di riferimento, e che in qualche modo sottoporsi all'esercizio della divulgazione voglia dire abbassarsi di livello. Invece chi dà grande importanza alla filosofia dovrebbe ritenere che una delle imprese più preziose sia quella di far si che altri ne possano condividere.
E' buffo: laddove c'è maggiore tradizione di divulgazione filosofica c'è anche una maggiore istituzionalizzazione della ricerca filosofica, cioé esiste una comunità filosofica con una forte identità collettiva. La filosofia diventa allora un sapere l'accesso al quale richiede più atteggiamenti di convergenza. Se penso che il mio sapere sia stato guadagnato attraverso tecniche di esplorazione e di ricerca interne al mio sapere e alla mia cerchia stretta, allora sottopormi all'esercizio di comunicarlo a un'altra cerchia non mi toglie nulla, anzi, aggiunge valore.

Se sapere è potere, forse la difficoltà a divulgare è anche una resistenza a estendere il proprio potere ad altri.

Potere di fare che cosa, però? Il divulgatore fa sì che le persone che accedono a quanto sarebbe stato loro escluso possano maturare modi di vedere le cose che confermano o chiedono cambiamenti ai loro modi ordinari. Il che non è poco, perché vuol dire lavorare sulle preferenze delle persone.

In questo sforzo divulgativo, non si rischia di sconfinare nel manuale how-to?

Certo, un manuale che cerca di rispondere alla domanda: che fare per essere felici? E' l'estensione divulgativa della filosofia come forma di predica travestita, mentre io penso che l'impegno per la divulgazione filosofica vada preso sul serio, perché è un impegno a comunicare ad altri uditori gli esiti di un lavoro analitico. A predicare ci pensano i preti, noi filosofi dobbiamo comunicare argomenti.


L'insegnamento della filosofia a livello liceale è ancora utile?

Nell'ambito della riforma dei cicli, è allo studio l'ipotesi che l'insegnamento della filosofia venga introdotto nell'ultimo biennio della scuola dell'obbligo. Ma non avrebbe senso insegnare filosofia a ragazzini di 14-15 anni nei termini più tradizionali della storia del pensiero. Sarebbe meglio addestrarli a maturare la capacità di riconoscere e padroneggiare vari modi di risolvere i problemi.
La grande difficoltà non è tanto quello di passare da un insegnamento di tipo tradizionalmente storico a un insegnamento per problemi, ma quello di educare gli educatori. Chi deve insegnare a ragazzi così giovani, senza lo scopo di formare degli esperti di storia della filosofia, deve partire dall'identificazione di questioni che non presuppongano la conoscenza di tecniche argomentative o di dottrine, e deve rendere immediatamente riconoscibile il problema non dal punto di vista filosofico ma dal punto di vista dello studente. Dopodiché potrà mostrare allo studente come il repertorio degli esempi filosofici di trattare quel problema può costituire per lui un arricchimento.

Quindi essenziale è trovare una via di accesso alla sua comprensione del problema.

Senza però essere ossessionati dalla tecnopedagogistica, in cui si entra in classe, si fa vedere un film e poi si fa il dibattito: come diceva Moretti, il dibattito no! Un insegnante deve diventare il regista di una messainscena che serva a far capire e a far sentire - perché nell'insegnare ai ragazzi di 14 anni bisogna giocare su due registri, quello caldo degli stati del sentire, e poi quello freddo della ragione, perchè i ragazzi possano giudicare ciò che hanno visto.

Dunque il cinema può costituire una buona via di accesso alla filosofia.

Il cinema è l'arte del Ventesimo secolo, e per l'insegnamento della filosofia è cruciale come lo sono state, o possono esserlo, la letteratura, la poesia e il melodramma: perché esemplificano vite possibili, anche emotivamente. La capacità attrattiva, soprattutto per dei giovani, di questi esempi sta nel fatto che nell'esperienza del cinema, della letteratura, della poesia o del melodramma si allarga il ventaglio delle vite possibili, si può pensare se stessi o ritrovarsi in altre vite. Bisogna che le persone riconoscano che là dentro ci sono i dilemmi che hanno provato o potranno provare, dopodichè si può esaminare la questione soggiacente, dal punto di vista astratto, a un determinato dilemma morale. Ma io sono per una dieta non monotona: lo spunto per una riflessione filosofica può essere la scena di un film, ma anche un articolo di giornale, e persino un mal di testa.


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