Ma il dibattito no!
Salvatore Veca con Paola Casella
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pensieri
E' una piccola rivoluzione: la filosofia esce dall'ambito accademico
per raggiungere il grande pubblico attraverso i canali più disparati
- dal cinema alla narrativa, fino addirittura al fumetto. Il fenomeno
è recente, e in rapida espansione, come vedrete dagli articoli che
seguono. Abbiamo chiesto a un illustre docente universitario - ma
anche un convinto sostenitore della necessità di rendere la filosofia
accessibile anche a a utenti "che per loro fortuna non faranno il
mio lavoro" - di spiegarci perché tutto questo succede proprio
adesso.

Salvatore Veca è professore ordinario di Filosofia della politica
presso l'Università di Pavia e presidente della Fondazione
Feltrinelli. Ha pubblicato numerosi saggi filosofici concentrandosi
negli ultimi anni sulle questioni di verità, giustizia e identità -
gli esiti di queste meditazioni sono contenuti nel saggio Dell'incertezza,
cui ha fatto seguito la raccolta di saggi di filosofia sociale e
politica Della lealtà civile (entrambi Feltrinelli).
Recentemente Veca ha tenuto una delle lezioni di filosofia e cinema
organizzate dal Sole 24 Ore: il suo intervento esaminava il film
Ninotchka come introduzione alla domanda "Che cos’è
una società giusta?".
Come mai proprio in questo momento si cerca di avvicinare la
filosofia al grande pubblico?
Onestamente è molto difficile per me trovare una singola risposta. In
parte, è un discorso di maggiore visibilità della filosofia come
sapere socialmente riconosciuto. L'attenzione sociale verso i vari
tipi di attività intellettuale segue un andamento ciclico: c'è stato
il ciclo dei sociologi, poi quello degli economisti. Visto che gli
economisti cominciano a non prevedere a più di tre giorni, e che i
sociologi dicono che le società sono tutte integrate, è venuta meno
la fiducia sociale nei loro confronti e adesso ci si rivolge ai
filosofi, che sono gli eredi di un sapere arcaico e remoto: un po'
meticci, un po' sciamani. Si è creata una domanda di saggezza, di
significato, la necessità di accedere a un sapere esperto che
fornisca istruzioni per l'uso delle nostre vite.

Non sarà un tentativo di rivalsa da parte della filosofia occidentale
nei confronti delle filosofie orientali, che hanno ottenuto tanti
consensi negli ultimi anni?
Può essere uno degli elementi, ma non giustificherebbe la grande
tradizione anglosassone della divulgazione: pensiamo ad esempio a
Richard Popkin o a Bertrand Russell. Per gli anglosassoni, la
filosofia è un'attività intellettuale con un carattere disciplinare,
come la chimica o la biologia molecolare, la matematica o l'algebra.
Così come ci sono libri che spiegano il Big Bang o il DNA a persone
che non sono del ramo così esistono grandissimi libri di divulgazione
per spiegare la filosofia a chi non è di questo mestiere, come Principia
Mathematica di Russell, che è una delle imprese della gloria
dell'intelligenza umana, di vertiginosa complessità e astrazione.
Perché da noi è meno diffusa la volontà, o la capacità, di
divulgare concetti filosofici?
E' la cultura della divulgazione in sè che manca: vale per i concetti
filosofici come per quelli scientifici. Da noi la divulgazione è
sempre stata ritenuta un'attività di serie B, mentre io la ritengo
un'impresa meritoria che richiede un appassionato spreco di risorse
intellettuali. Parlare di filosofia in modo accessibile prevede
l'attribuzione di importanza all'impresa, quella di rispondere a una
domanda che altrimenti resterebbe disattesa. L'idea è quella di
rivolgere a un pubblico per il quale non si presume la padronanza
tecnica della tradizione filosofica una serie di informazioni,
nozioni, teorie e dottrine, presupponendo il meno possibile ed
esplicitando tutte le definizioni dei termini per chi non sa che cosa
significhino.
Credo che la mancanaza di una nostra cultura della divulgazione
dipenda dal fatto che coloro che sono addetti alla produzione di
discorsi filosofici o scientifici ritengono che i loro interlocutori
siano esclusivamente le comunità di riferimento, e che in qualche
modo sottoporsi all'esercizio della divulgazione voglia dire
abbassarsi di livello. Invece chi dà grande importanza alla filosofia
dovrebbe ritenere che una delle imprese più preziose sia quella di
far si che altri ne possano condividere.
E' buffo: laddove c'è maggiore tradizione di divulgazione filosofica
c'è anche una maggiore istituzionalizzazione della ricerca
filosofica, cioé esiste una comunità filosofica con una forte
identità collettiva. La filosofia diventa allora un sapere l'accesso
al quale richiede più atteggiamenti di convergenza. Se penso che il
mio sapere sia stato guadagnato attraverso tecniche di esplorazione e
di ricerca interne al mio sapere e alla mia cerchia stretta, allora
sottopormi all'esercizio di comunicarlo a un'altra cerchia non mi
toglie nulla, anzi, aggiunge valore.
Se sapere è potere, forse la difficoltà a divulgare è anche una
resistenza a estendere il proprio potere ad altri.
Potere di fare che cosa, però? Il divulgatore fa sì che le persone
che accedono a quanto sarebbe stato loro escluso possano maturare modi
di vedere le cose che confermano o chiedono cambiamenti ai loro modi
ordinari. Il che non è poco, perché vuol dire lavorare sulle
preferenze delle persone.
In questo sforzo divulgativo, non si rischia di sconfinare nel
manuale how-to?
Certo, un manuale che cerca di rispondere alla domanda: che fare per
essere felici? E' l'estensione divulgativa della filosofia come forma
di predica travestita, mentre io penso che l'impegno per la
divulgazione filosofica vada preso sul serio, perché è un impegno a
comunicare ad altri uditori gli esiti di un lavoro analitico. A
predicare ci pensano i preti, noi filosofi dobbiamo comunicare
argomenti.

L'insegnamento della filosofia a livello liceale è ancora utile?
Nell'ambito della riforma dei cicli, è allo studio l'ipotesi che
l'insegnamento della filosofia venga introdotto nell'ultimo biennio
della scuola dell'obbligo. Ma non avrebbe senso insegnare filosofia a
ragazzini di 14-15 anni nei termini più tradizionali della storia del
pensiero. Sarebbe meglio addestrarli a maturare la capacità di
riconoscere e padroneggiare vari modi di risolvere i problemi.
La grande difficoltà non è tanto quello di passare da un
insegnamento di tipo tradizionalmente storico a un insegnamento
per problemi, ma quello di educare gli educatori. Chi deve insegnare
a ragazzi così giovani, senza lo scopo di formare degli esperti
di storia della filosofia, deve partire dall'identificazione di
questioni che non presuppongano la conoscenza di tecniche argomentative
o di dottrine, e deve rendere immediatamente riconoscibile il problema
non dal punto di vista filosofico ma dal punto di vista dello studente.
Dopodiché potrà mostrare allo studente come il repertorio degli
esempi filosofici di trattare quel problema può costituire per lui
un arricchimento.
Quindi essenziale è trovare una via di accesso alla sua
comprensione del problema.
Senza però essere ossessionati dalla tecnopedagogistica, in cui si
entra in classe, si fa vedere un film e poi si fa il dibattito: come
diceva Moretti, il dibattito no! Un insegnante deve diventare il
regista di una messainscena che serva a far capire e a far sentire -
perché nell'insegnare ai ragazzi di 14 anni bisogna giocare su due
registri, quello caldo degli stati del sentire, e poi quello freddo
della ragione, perchè i ragazzi possano giudicare ciò che hanno
visto.
Dunque il cinema può costituire una buona via di accesso alla
filosofia.
Il cinema è l'arte del Ventesimo secolo, e per l'insegnamento della
filosofia è cruciale come lo sono state, o possono esserlo, la
letteratura, la poesia e il melodramma: perché esemplificano vite
possibili, anche emotivamente. La capacità attrattiva, soprattutto
per dei giovani, di questi esempi sta nel fatto che nell'esperienza
del cinema, della letteratura, della poesia o del melodramma si
allarga il ventaglio delle vite possibili, si può pensare se stessi o
ritrovarsi in altre vite. Bisogna che le persone riconoscano che là
dentro ci sono i dilemmi che hanno provato o potranno provare,
dopodichè si può esaminare la questione soggiacente, dal punto di
vista astratto, a un determinato dilemma morale. Ma io sono per una
dieta non monotona: lo spunto per una riflessione filosofica può
essere la scena di un film, ma anche un articolo di giornale, e
persino un mal di testa.
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