Reset/A proposito di stile
Bryan Magee
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pensieri
Questa relazione è apparsa sul numero 60 di Reset
Bryan Magee, intellettuale eclettico (scrittore, critico teatrale e
musicale, presentatore televisivo, già deputato laburista), ha
studiato presso le università di Oxford e Yale. Ha insegnato al King’s
College di Londra ed è stato visiting professor nelle università di
Yale, Harvard e Berkeley. È inoltre membro del Queen Mary College di
Londra e del Keble College di Oxford. Nei suoi saggi e nei suoi
programmi tv ha sempre cercato riaccostare la filosofia all’esperienza
quotidiana (di qui anche la sua campagna contro l’astrusità di
certa scrittura filosofica, in favore di uno ‘stile’ improntato
piuttosto alla chiarezza e all’onestà intellettuale). Il suo più
libro noto, Confession of a Philosopher (tradotto in italiano con il
titolo L’arte di stupirsi, Milano, Mondadori, 1998), narra dei sui
incontri con alcune grandi figure della filosofia del Novecento (su
tutti, Karl Popper e Bertrand Russell), e di come questi incontri l’abbiano
aiutato a far luce sul mistero dell'esistenza. In italiano è anche
apparso, presso Astrolabio, Della cecità, scritto a quattro mani con
Martin Milligan.
Questa relazione è stata presentata presso il Senate House dell’Università
di Londra, il 26 novembre 1999. Il testo, intitolato “Style in
Philosophy”, appare qui per la prima volta in versione integrale
In passato mi capitava più frequentemente di quanto mi succeda ora di
imbattermi in gente che dava per scontato che la filosofia fosse una
branca della letteratura. Quando ero più giovane, infatti, incontravo
spesso persone - intelligenti e colte, ma poco preparate in filosofia
- che pensavano che un filosofo fosse qualcuno che dava voce ai suoi
atteggiamenti generali nei confronti delle cose, allo stesso modo in
cui potrebbe farlo un saggista, o anche un poeta, ma in una maniera
più sistematica, e forse anche su scala più ampia: meno supponente
di un saggista, meno emotivo di un poeta, ma anche più rigoroso, e
forse più imparziale, di entrambi. Per il filosofo, così come per
gli altri due, la qualità della sua scrittura era una parte
essenziale della cosa davvero importante. Come il saggista e il poeta
possedevano un loro proprio stile caratteristico, facilmente
identificabile, che era parte integrante di quanto volevano esprimere,
così anche il filosofo. E come non avrebbe ovviamente senso dire di
qualcuno che era un cattivo scrittore, ma un bravo saggista, un
cattivo scrittore ma un bravo poeta, così deve per forza non avere
senso dire di qualcuno che è un cattivo scrittore ma un bravo
filosofo.
Questo modo di pensare è di certo del tutto sbagliato. Dico “di
certo” poiché viene confutato dagli esempi forniti da alcuni fra i
più grandi filosofi. Aristotele viene considerato da quasi ogni
studente di filosofia uno dei maggiori filosofi di tutti i tempi, e
molti pensano sia stato addirittura il più grande; tutto ciò che
rimane delle sue opere, però, sono appunti di lezioni, scritti da lui
o da un suo allievo. E come ci aspetteremmo da appunti di lezione,
sono scritti in uno stile pesante, del tutto privo di merito
letterario. Contengono però ugualmente una filosofia splendida, e
hanno fatto di Aristotele una delle figure chiave della civiltà
occidentale per gran parte degli ultimi duemilacinquecento anni. Il
buon senso comune ha sempre sostenuto che il maggior filosofo dopo i
Greci sia stato Immanuel Kant, ma non credo che qualcuno abbia mai
considerato Kant un bravo scrittore, e tantomeno abbia ritenuto che
avesse un grande stile: a chiunque abbia effettivamente letto le sue
opere un’idea di questo genere risulterebbe tanto difficile da
comprendere quanto alcune parti della sua deduzione trascendentale
delle categorie. Il padre fondatore dell’empirismo moderno e della
moderna teoria politica liberale, John Locke, è certamente una delle
figure più importanti e influenti nella storia della filosofia
occidentale, ma scrive in un modo che i più sembrano ritenere noioso
e prosaico.
Questi esempi - uno per ognuna delle tre lingue più ricche in
filosofia - bastano per affermare che la qualità della prosa in cui
leggiamo una teoria filosofica non è legata necessariamente al suo
valore in quanto teoria filosofica. La qualità letteraria
della prosa, se mai ne esiste una, non ha assolutamente alcun legame
con la filosofia espressa. Certo, non esiste alcuna legge che dice che
una teoria filosofica non può essere scritta bene, e alcuni filosofi
sono stati scrittori molto bravi - una mezza dozzina addirittura
grandi scrittori; ma questo non contribuisce affatto a renderli
filosofi migliori. Quella di Platone viene ampiamente considerata la
più raffinata prosa greca giunta fino a noi, ma questo non fa di lui
un filosofo migliore di Aristotele, e chi lo ritiene tale non lo fa
certo per il suo stile. In ogni modo, è accaduto che le opere di
Aristotele pubblicate quando egli era in vita siano state ammirate per
la loro bellezza nell’intero mondo antico. Cicerone descrisse la
prosa di Aristotele come un “fiume d’oro”. Ma ora è andato
tutto perduto, e ci rimangono soltanto degli appunti basati su circa
un quarto dei suoi scritti. Eppure le filosofia contenuta in questi
appunti ha avuto un’importanza incalcolabile. Nel mondo di lingua
tedesca Schopenhauer e Nietzsche sono considerati fra i migliori
scrittori di prosa - forse i migliori, a parte Goethe; ma questo non
li rende affatto dei filosofi migliori di Kant.
Certo, la qualità della prosa fa la differenza per gli studenti e i
potenziali lettori. Alcuni filosofi sono un piacere a leggersi; oltre
a quelli che ho ricordato abbiamo, in lingua inglese, anche Berkeley e
Hume; in lingua francese Descartes, Pascal e Rousseau; Sant’Agostino
in latino. Tutti costoro rimangono piacevoli da leggere anche in
traduzione. Il ventesimo secolo ha visto filosofi insigniti, credo
meritatamente, del premio Nobel per la letteratura - Bertrand Russell,
Jean-Paul Sartre, Henri Bergson. Certo, a parità di altre condizioni,
è più attraente studiare o specializzarsi in filosofi come loro che
in quanti hanno invece uno stile pesante. Ciononostante, questo non fa
di loro dei filosofi migliori.
Dobbiamo allora dire che lo stile non conta in filosofia? Non posso
spingermi ad affermare tanto. Credo infatti che tanto la chiarezza
quanto la capacità di comunicazione rivestano una grande importanza.
Mi sembra una vera e propria tragedia culturale che le opere di Kant,
per quanto enorme sia il loro valore e l’influenza da esse
esercitata, vengano lette da così poche persone a parte gli studenti
di filosofia e i loro insegnanti. Tali opere mi sembrano costituire la
strada che conduce alle più alte conquiste della filosofia nel mondo
moderno - in un modo non molto diverso da quello in cui l’analisi è
la strada che porta alla matematica di alto livello. Ma è improbabile
che anche un lettore eccezionalmente intelligente ne ricavi molto, a
meno che non possieda un bagaglio filosofico davvero molto ampio,
oppure non riceva, almeno all’inizio, l’aiuto di un insegnante o
di una guida. Una volta Macaulay, dopo aver ricevuto la prima
traduzione inglese della Critica della ragion pura, scrisse sul
proprio diario: “ho provato a leggerla, ma l’ho trovata
completamente incomprensibile, come se fosse stata scritta in
sanscrito. Non una parola è riuscita a trasmettermi qualcosa di
simile a un’idea, a parte una citazione da Persio in latino. Mi
sembra che dovrebbe essere possibile spiegare una vera teoria
metafisica in parole che io sia in grado di comprendere. Riesco a
capire Locke, Berkeley, Hume, Reid e Stewart. Posso capire gli Accademici
di Cicerone, e gran parte di Platone, e mi sembra quantomeno strano
che in un libro sugli elementi della metafisica […] io non sia in
grado di comprendere una sola parola”.
Chiunque abbia studiato la filosofia con serietà comprenderà l’imbarazzo
di Macaulay. Si spiega così il motivo per cui non potremmo mai
aspettarci che la filosofia di Kant diventi parte del bagaglio
culturale di ogni persona colta e intelligente allo stesso modo in
cui, per esempio, la filosofia di Descartes è parte del bagaglio
culturale di ogni francese colto. Sebbene il suo valore in quanto
filosofia e la sua influenza all’interno del mondo filosofico
accademico non siano modificate dal modo intrattabile in cui è
scritta, la sua posizione nell’ambito della nostra cultura media e l’influenza
che essa è quindi in grado di esercitare sulle menti delle persone
intelligenti in generale viene drasticamente ridotta, e questo è
tanto sconcertante quanto non necessario.
A proposito di chiarezza e di comprensibilità in filosofia, sembrano
esserci dei cicli, o delle oscillazioni simili a quelle di un pendolo,
così come ce ne sono in molti altri ambiti. Dopo un periodo in cui ha
dominato l’oscurità, o almeno essa è stata accettata
professionalmente, si ha solitamente una reazione a essa, e una nuova
generazione di filosofi cercherà coscientemente di scrivere in modo
più chiaro. In seguito, però, con il passare del tempo, la chiarezza
passerà di moda, decadendo ancora una volta in oscurità, fino a
quando non si avrà una nuova reazione. Penso di aver vissuto per gran
parte di uno di questi cicli nel corso della mia vita adulta. So che
la Gran Bretagna è una piccola isola, e mi rendo conto che un esempio
tratto soltanto da questo Paese suonerà campanilistico, ma la
limitatezza stessa della sua portata ne esalterà il contenuto. Quando
mi iscrissi all’università, nel 1949, i filosofi che vivevano
allora in Gran Bretagna, e le cui opere venivano lette da tutti coloro
che erano davvero interessati a quegli argomenti, erano Bertrand
Russell, George E. Moore, Ludwig Wittgenstein, Karl Popper, Isaiah
Berlin, John L. Austin, Gilbert Ryle e Alfred J. Ayer. Tutti, tranne
Wittgenstein e Austin, scrivevano in un modo che risultava
interessante per tutte le persone intelligenti disposte a dedicarvisi,
e gran parte delle loro opere venivano in effetti lette più al di
fuori del mondo accademico che al suo interno. Russell, in
particolare, aveva un’enorme influenza sulla pubblica opinione di
stampo liberale, e nei suoi ultimi anni divenne un’icona per i
giovani radicali. Lui e Ayer scrissero molti articoli sui giornali e
divennero famosi per le loro trasmissioni radiofoniche, non soltanto
per il fatto di rendere noti i loro punti di vista su generiche
questioni d’attualità in quel momento, comprese tematiche relative
ai modi di comportamento e alla morale, ma anche, e forse soprattutto,
per la loro difesa di un certo modo di affrontare le varie tematiche.
Moore costituì probabilmente la maggiore influenza intellettuale
singola sul ben noto gruppo di Bloomsbury, che raccoglieva scrittori e
artisti, e su molti dei loro devoti seguaci. Popper ebbe una grande
influenza sulle successive generazioni di politici e anche su vari
scienziati, molti dei quali, nel tempo, hanno vinto il premio Nobel.
Oggi i successori di questi filosofi, coloro che occupano le loro
cattedre o detengono le loro posizioni in ambito accademico, non
rivestono affatto ruoli così ampi. Nel complesso i loro scritti non
risultano attraenti, e forse neppure accessibili, per i non-filosofi,
e non si propongono nemmeno di esserlo - il che vuol dire che, in
pratica, i loro scritti sono in gran parte rivolti a loro stessi. In
tutta onestà bisogna tenere presente che l’espansione subita,
secondo modalità diverse, dall’educazione accademica negli ultimi
cinquant’anni all’interno del mondo sviluppato, ha dato loro un
pubblico di professionisti molto più ampio di quello che i loro
colleghi avevano prima a disposizione. Rimane però il fatto che essi
non sembrano aspettarsi (e neppure volere) che i loro scritti vengano
letti se non dai loro colleghi o dai loro studenti. Non solo: quanti
di noi sono loro colleghi, in grado di leggere e di comprendere quasi
tutto ciò che essi scrivono, cercherebbero invano se andassero alla
ricerca, nei loro scritti, delle caratteristiche stilistiche di un
Platone o di uno Hume, o delle qualità presumibilmente richieste per
vincere il premio Nobel per la letteratura. La verità è, in effetti
- e molti dei presenti possono confermare tutto questo in base alla
loro conoscenza e alla loro esperienza - che molti dei maggiori
filosofi di oggi vengono fatti oggetto, in privato, delle lamentele
dei loro stessi colleghi per la sgradevolezza della loro scrittura.
Stando al dizionario di filosofia di Daniel Dennett, pubblicato in
modo non ufficiale, ma fatto ampiamente circolare, uno di loro ha dato
il proprio nome a un modo di scrivere in cui più lo scrittore va
avanti in una frase, più sembra allontanarsi dalla sua fine.
So per esperienza personale che quando queste sensazioni vengono
espresse all’interno di circoli professionali, la risposta che quasi
sempre suscitano è che tali cambiamenti nel modo di scrivere sono
stati causati dal cambiamento della filosofia stessa - che, negli
ultimi cinquant’anni, l’analisi concettuale ha raggiunto un’accuratezza
così alta, e l’analisi logica un tale livello di tecnicismo, che è
irrealistico, al giorno d’oggi, aspettarsi un pubblico se non di
specialisti, e che è quindi irrealistico cercare di scrivere per un
pubblico di non specialisti. Se soltanto quanti sono tecnicamente
preparati potranno comunque essere in grado di leggere le vostre cose,
allora risparmierete tempo e fatica a loro e a voi se quando scrivete
date il loro livello di bagaglio tecnico per scontato.
Non credo sia un argomento valido. Assume infatti un’idea alquanto
ristretta e indifendibile di quali siano e di quali debbano essere le
preoccupazioni di chi fa filosofia. Anche se l’accettassimo,
tuttavia, credo che l’argomento rimanga non valido. Quando ho
elencato i nomi dei maggiori esponenti della precedente generazione di
filosofi, soltanto di due fra loro ho ricordato come fossero soliti
scrivere in un modo che risultava inaccessibile ai non specialisti. Si
trattava di Austin e di Wittgenstein. Ciononostante, li ritengo,
ognuno a suo modo, bravi scrittori. Nelle sue analisi concettuali
Austin riuscì a esprimere distinzioni di rara sottigliezza in una
prosa sempre molto chiara, e qualche volta anche arguta, che i suoi
colleghi trovavano un piacere leggere. Era l’impresa stessa, non lo
stile, che tagliava fuori tutti coloro che non erano specialisti. Per
quanto riguarda Wittgenstein, sono tentato di chiamarlo un grande
stilista. Non sono certo di lingua madre tedesca, e questo diminuisce
in un certo modo il valore del mio giudizio in materia, ma nel Tractatus
ritrovo alcuni fra i passi più fulgidi e irresistibili di prosa in
lingua tedesca che abbia mai incontrato. Quelle frasi sconcertanti
brillano di luce propria nella mente di chi le legge, e molte vi
rimangono per il resto della vita. In questo caso, la barriera, per i
non specialisti, è costituita dalla difficoltà di capire che cosa
molte di esse significhino; ma la prosa in sé stessa è
incandescente. Le frasi nelle Ricerche filosofiche non hanno la
stessa fiera intensità, ma si distinguono comunque notevolmente per
lo stile. Non riesco a capire come le cose di cui si occupano oggi i
nostri maggiori filosofi siano molto più sottili e sofisticate di
quelle di Wittgenstein al punto che, a differenza delle sue, se ne
possa parlare quasi solo in frasi complicate, fittamente ingarbugliate
e prive di tono.
Quando in effetti guardiamo indietro alla storia della filosofia,
troviamo che durante i periodi ciclici di inaccessibilità viene
sempre avanzata la stessa risposta difensiva. Nella prima metà del
diciannovesimo secolo, la filosofia era in voga nei Paesi di lingua
tedesca più che altrove; la dominavano pensatori come Fichte e
Schelling, e più tardi, in modo del tutto opprimente, Hegel. Ognuno
di loro rimane, a tutt’oggi, un sinonimo di oscurità. Ai loro tempi
la risposta del tutto abituale in difesa di tale oscurità era che i
loro lavori erano meravigliosamente profondi: essi conducevano
nientemeno che al disvelamento dei segreti dell’universo; era dunque
impossibile che i loro scritti fossero diretti e chiari: al contrario,
era necessario che il lettore si trovasse di fronte a difficoltà
quasi del tutto impenetrabili. Aspettarsi qualcosa di meno era da
ingenui, da filistei intellettuali. Intere generazioni di filosofi
professionisti contemporanei (quasi tutti ora dimenticati) scrissero
in modo simile, e offrirono la stessa giustificazione. Abbiamo brevi
sprazzi di queste figure ormai dimenticate all’interno di contesti
non filosofici; se ne trova uno nell’autobiografia di Richard
Wagner. Egli aveva studiato a Dresda e a Leipzig negli anni Venti e
Trenta dell’Ottocento, e ricordando i giorni passati da studente,
scrive: “frequentavo le lezioni di estetica di uno dei professori
più giovani, un uomo chiamato Weiss […] che avevo conosciuto a casa
di mio zio Adolf […] In quell’occasione avevo assistito a una
conversazione fra loro due a proposito di filosofia e di filosofi che
mi aveva profondamente impressionato. Ricordo che Weiss […]
giustificava la molto criticata mancanza di chiarezza nel suo stile
espositivo sostenendo che i problemi più profondi dello spirito umano
non potevano essere risolti per il beneficio delle masse. Questa
massima mi sembrava del tutto plausibile, e la presi come principio
guida per tutto ciò che scrivevo. Ricordo come mio fratello maggiore
Albert si fosse particolarmente irritato per lo stile di una lettera
che una volta gli avevo scritto su incarico di mia madre, e mi avesse
espresso il timore che io stessi perdendo il senno”. Un altro dei
miei passi preferiti, che coinvolge ancora una volta Wagner, è tratto
non dalla sua autobiografia, ma da quella del pittore Friedrich Pecht.
Scrivendo dei giorni passati insieme a Wagner a Dresda, negli anni
Quaranta, dice: “Un giorno, quando passai a fargli visita, lo trovai
che bruciava di passione per la Fenomenologia di Hegel, che
stava studiando proprio in quel momento; mi disse, con la sua consueta
stravaganza, che si trattava del miglior libro mai pubblicato. Per
dimostrarmelo mi lesse un passaggio che lo aveva particolarmente
colpito. Dato che non riuscivo del tutto a seguirlo, gli chiesi di
rileggerlo, e dopo che lo ebbe fatto nessuno di noi riusciva a
capirlo. Me lo lesse una terza volta, e una quarta, fino a quando,
alla fine, ci guardammo l’un l’altro e scoppiammo a ridere”.
Avrete forse notato come Wagner abbia usato parole come “molto
criticata” in riferimento allo stile di un filosofo ora sconosciuto,
il professor Weiss; e alla fine, come sappiamo, si ebbe una reazione
anche da parte dei filosofi nei confronti di questo modo di scrivere
di filosofia. Schopenhauer fu particolarmente caustico a tale
proposito. I suoi libri contengono molti passaggi con ingiurie smodate
nei confronti di Fichte, di Schelling e di Hegel per il crimine da
loro commesso. Dei filosofi di professione più ordinari del tempo,
quali Weiss, Schopenhauer scriveva: “Per nascondere la brama di idee
concrete, molti si costruiscono da soli un imponente apparato di
parole composte, di arabeschi di locuzioni intricate, di periodi
lunghissimi, di nuove e sconosciute espressioni, che nel complesso
formano un gergo estremamente difficile, che dà l’impressione di
essere molto colto. Eppure con tutto questo essi non dicono
assolutamente nulla; non ne ricaviamo alcuna idea nuova, né la nostra
intuizione ne risulta aumentata”. Egli non poteva trovare nulla
nella natura della filosofia, o nelle caratteristiche della lingua
tedesca, per giustificare una scrittura di tal genere, e in assenza di
un qualunque modello accettabile per scrivere la filosofia in tedesco,
si dispose a scrivere nel modo in cui Hume aveva scritto di filosofia
in inglese. Dopo i grandi Idealisti tedeschi tutti i maggiori filosofi
della metà e del tardo diciannovesimo secolo - Kierkegaard,
Schopenhauer, Marx (se lo si considera almeno in parte un filosofo) e
Nietzsche - scrivevano rifiutando consapevolmente, in una certa misura
e in modi diversi, lo stile di Hegel, e furono tutti scrittori
straordinari. Non riesco a pensare come qualcuno che conosca davvero
gli scritti di Kiekegaard e di Schopenhauer possa affermare, in nessun
modo, che la loro chiarezza e l’eccellenza del loro stile ne
impedisca la profondità, la sottigliezza o la raffinatezza (sebbene
io veda molto bene come tali accuse possano forse essere rivolte a
Marx e a Nietzsche).
In un ambito più ristretto, in Gran Bretagna, si ebbe un ciclo non
molto diverso da questo fra la fine del diciannovesimo e l’inizio
del ventesimo secolo. C’era stato un lungo periodo in cui l’ortodossia
dominante fra i filosofi era una forma di neo-hegelismo. Alcuni nomi
associati a questo movimento sono quelli di Green, Bosanquet,
McTaggart e Bradley. Il loro modo di scrivere consisteva, in generale,
nel tenersi in rapporto stretto con Hegel. Bertrand Russell e George
E. Moore vennero educati in questa tradizione. Si tende oggi a
dimenticare che il primo scritto indipendente di Russell fu una
dissertazione in stile neo-hegeliano sui fondamenti della geometria -
un lavoro che egli in seguito ripudiò. Col passare del tempo lui e
Moore si ribellarono chiaramente contro il loro stesso retaggio: può
forse sorprendere sapere che fu Moore a guidare la “rivolta”, e
Russell lo seguì. Una parte essenziale del programma rivoluzionario
proclamato da questi giovani ribelli consisteva nella necessità di
chiarezza nella scrittura filosofica. Si trattava di un requisito che
si sforzarono ammirevolmente di acquisire (Russell, in particolare,
divenne uno scrittore eccellente), ed ebbero successo nel persuadere
un’intera generazione di filosofi a seguirli. Come ha detto Stuart
Hampshire, parlando dello stile di Russell: “è una questione di non
offuscare, di non lasciare alcun margine di incertezza; del dovere di
essere chiari, così che gli errori possano risultare evidenti; di non
essere mai pomposi o sfuggenti. È una questione di non rabberciare in
qualche modo i risultati, di non usare mai la retorica per coprire
eventuali buchi, di non usare mai un’espressione che a seconda della
convenienza del momento oscilli, per così dire, fra due o tre
posizioni, lasciando non chiara quella cui ci si sta riferendo”.
Karl Popper una volta mi disse che quando si trovò a dover scrivere
di filosofia in inglese, che non era la sua lingua madre, prese
Russell come modello, allo stesso modo in cui Schopenhauer aveva
adottato Hume come suo; e mi disse qualcosa, a questo proposito, che
non ho mai dimenticato: “non è soltanto una questione di chiarezza,
ma di etica professionale”.
A mio parere Schopenhauer è uno fra i più penetranti diagnostici
delle ragioni di fondo della scarsa chiarezza della scrittura
filosofica. Egli l’ha fatta risalire all’unione di due sviluppi
altrimenti separati. Il primo è costituito dalla
professionalizzazione della filosofia. Ora diamo la cosa per scontata,
e può stupirci, ma per centinaia di anni dopo la fine del Medioevo
nessun grande filosofo era un accademico. Durante questo periodo le
università ben consolidate hanno continuato a insegnare filosofia, ma
tutti i grandi filosofi erano al di fuori del mondo accademico: Hobbes,
Descartes, Spinoza, Leibniz, Locke, Berkeley, Hume, Rousseau - nessuno
di loro era un accademico né insegnava filosofia. Come ha detto
Schopenhauer: “Pochissimi filosofi sono mai stati professori si
filosofia, e un numero relativamente piccolo di professori di
filosofia sono mai stati filosofi”. Vennero offerte cattedre sia a
Spinoza sia a Leibniz, ma entrambi rifiutarono. Hume era candidato per
due cattedre, ma non ne ottenne neppure una. Il primo
incontestabilmente grande filosofo dopo il Medioevo a essere un
professore universitario fu Kant - e, come ha sottolineato
Schopenhauer, non tenne mai lezioni sulla propria filosofia. Kant e i
famosi Idealisti erano professori, ma dopo di loro i maggiori filosofi
della metà e del tardo diciannovesimo secolo, quelli che ho elencato
poco fa in un altro contesto - lo stesso Schopenhauer, ma anche
Kierkegaard, Marx e Nietzsche - non erano accademici, e non lo era
neppure il più grande filosofo inglese del diciannovesimo secolo,
John Stuart Mill. Il ventesimo secolo è stato il primo secolo dopo il
Medioevo nel quale quasi tutti i maggiori filosofi sono stati
professori universitari. La professionalizzazione della filosofia è
dunque tanto recente quanto debole, se paragonata alla sua storia.
In prossimità dell’inizio di questo processo di
professionalizzazione, Schopenhauer intuì che era destinato ad avere
alcune conseguenze indesiderabili. Non ci si deve aspettare che ci
sarà più di un piccolo gruppetto di pensatori davvero originali in
ogni dato periodo - o in ogni dato secolo, si sarebbe tentati di dire
- come potrebbero allora raggiungere la fama tutti gli altri membri
della professione? In quanto accademici di carriera, per il proprio
sostentamento essi dipendono dagli stipendi e dalle pensioni che
ricevono dalle loro università, e il livello di questi dipende, a sua
volta, dalla posizione che essi occupano. Molti di loro hanno moglie e
figli da mantenere. In ogni caso, come capita normalmente alle persone
ambiziose in una qualunque professione, vogliono fare strada,
raggiungere il riconoscimento dei colleghi, ottenere posizioni di
rilievo e titoli prestigiosi. Ma se tutto questo deve succedere,
allora le persone interessate devono dare una certa impressione di
sé. Lasciare un segno diventa dunque essenziale per le loro carriere.
Quando scrivono in vista della pubblicazione la loro principale
preoccupazione diventa quella di lasciare un segno, di persuadere i
colleghi delle proprie capacità professionali. Dato però che è
nella natura delle cose che soltanto pochi siano pensatori creativi e
davvero significativi, come è possibile tutto questo?
È a questo punto che entra in gioco il secondo dei due sviluppi
convergenti messi in evidenza da Schopenhauer. Ci sta di fronte l’esempio
di Kant, sicuramente un grande filosofo: Schopenhauer tendeva a
considerarlo il più grande filosofo mai esistito, con la sola
possibile eccezione di Platone. Ma la sua filosofia è così difficile
da capire che quasi nessuno può comprenderla alla prima lettura.
Questo ha condizionato il pubblico intelligente di lingua tedesca a
lui contemporaneo e del periodo immediatamente successivo, facendogli
accettare il fatto che per la prima volta un’opera filosofica che
risultasse incomprensibile per loro fosse ciononostante genuinamente
profonda e costituisse in effetti l’opera di un genio, e che se non
riuscivano a capirla non era colpa dell’autore, ma loro: il libro
era più profondo di quanto loro non fossero in grado di comprendere,
e la loro incapacità di comprenderlo era una misura della sua
profondità. Questa nuova situazione offrì una doppia opportunità a
un accademico senza scrupoli, desideroso di essere considerato un
genio: poteva scrivere in un maniera pseudo-kantiana che, se
sufficientemente incomprensibile, sarebbe stata accettata come
profonda proprio per quella ragione, mentre la sua oscurità,
attentamente curata, avrebbe nascosto ai lettori il fatto che non
veniva detto granché. La prima persona ad approfittare di questa
possibilità, stando a Schopenhauer, fu Fichte, che scrisse un’opera
filosofica - la sua opera prima - intitolata Ricerca di una critica
di ogni rivelazione, e la pubblicò anonima presso lo stesso
editore di Kant nel 1792. A causa dello stile, dell’argomento, del
titolo, della data, dell’editore, e dell’anonimato del suo autore,
si credette che essa costituisse la quarta Critica di Kant, e
venne acclamata di conseguenza. Quando si seppe che era opera di
Fichte, egli divenne improvvisamente famoso - e ottenne la cattedra di
filosofia all’Università di Jena. Questo fatto mostrò la strada
per le successive generazioni di sedicenti accademici: un metodo per
conquistare cattedra e approvazione è scrivere con un grado di
oscurità che convinca il lettore della profondità di ciò che viene
trattato, nascondendogli, al contempo, la sua vacuità. Schopenhauer
descrisse così lo sviluppo appena iniziato: “Fichte fu il primo a
cogliere e a utilizzare questo privilegio; Schelling perlomeno lo
eguagliò, e una schiera di affamati imbrattacarte senza intelletto e
onestà presto li superarono entrambi. Ma la più grande sfrontatezza
nel preparare pure frasi prive di senso, nel mettere insieme, in
qualche modo, trame di parole assurde ed esasperanti, quali se ne
erano sentite soltanto nei manicomi, apparve alla fine in Hegel”.
Ritengo che l’analisi che Schopenhauer fa di Fichte, di Schelling e
di Hegel sia piuttosto corretta, ma penso sia incompleta. Quei
filosofi stavano certamente facendo quello che Schopenhauer disse che
stavano facendo: scrivere in un modo oracolare, incantatorio, pensato
per ammaliare i lettori e portarli a confondere il semplice con il
complicato, e anche il più evidente dei luoghi comuni per qualcosa di
così profondo da fare storia. A mio giudizio, però, si trattava di
filosofi di valore, che avevano qualcosa da dire ma che lo dicevano in
un modo assolutamente disonesto. Erano gli altri membri della
professione - tutte quelle schiere e schiere di loro contemporanei i
cui nomi sono stati ora dimenticati - che scrivevano allo stesso modo
ma non avevano nulla da dire, che meritano più di tutti i giudizi
taglienti di Schopenhauer che ho citato prima.
Non dovremmo mai cadere nella trappola di supporre che per il fatto
che qualcuno fa ricorso ai trucchi del ciarlatano non possa avere un
talento genuino, anche senza essere un genio. Ci sono vari aspetti
della vita in cui non è raro che le due cose si presentino insieme:
nella recitazione, nella direzione d’orchestra, e forse nelle arti
in genere; nella leadership politica - e in effetti in tutte le
figure trainanti dei vari aspetti della vita; certo non parlo di tutti
i casi, ma qualche volta succede. Guardo a Fichte, a Schelling e a
Hegel come a persone di questo tipo. E in effetti Fichte, a un certo
punto della sua carriera, scoprì il gioco. Perse il suo lavoro all’Università
di Jena e credette di dover guadagnare per sopravvivere, scrivendo per
un pubblico non accademico per tutto il resto della sua vita; scrisse
allora un libro teso a far conoscere al pubblico le idee centrali
della sua filosofia. Il libro, pubblicato nel 1800, è intitolato Die
Bestimmung des Menschen, tradotto in italiano come La missione
dell’uomo. È un libro succoso, scritto in un modo completamente
diverso da quello dei suoi primi lavori: invero, è scritto
superbamente, in una prosa chiara e semplicemente profonda. Penso sia
un grande libro, sufficiente, da solo, a porre Fichte fra i maggiori
filosofi, e di grande merito letterario. Era dunque in grado di
scrivere così, se avesse voluto. Sembrava che tutto dipendesse da
quelli che dovevano essere i suoi lettori e da quello che sperava,
così facendo, di ottenere.
Il modello di Fichte ci aiuta a comprendere uno dei principali
sviluppi della vita accademica occidentale nel ventesimo secolo - dopo
la seconda guerra mondiale, in effetti. Il settore dell’educazione
superiore si è moltiplicato molte volte in dimensioni, e questo ha
reso l’insegnamento superiore una delle professioni di maggiore
rilievo, i cui esponenti contano circa centomila unità. Ogni
insegnamento accademico ha dato vita a una professione numerosa, quasi
tutti i membri della quale sono ansiosi di fare carriera, ma quasi
ognuno di loro - a differenza di Fichte - non ha un talento
significativo. Sarebbe un errore aspettarsi che tutti i professori
universitari di filosofia siano anche buoni filosofi, allo stesso modo
in cui sarebbe sbagliato aspettarsi che tutti i professori di
letteratura siano buoni poeti, romanzieri o drammaturghi. Certo, in
ognuno di questi casi alcuni lo sono, ma sarebbe scorretto aspettarsi
che lo siano anche tutti gli altri. Ma in questi tempi di “pubblica
o muori”, come potrebbero fare carriera tutti costoro? Hanno solo
una gamma limitata di possibilità. Possono scrivere sul lavoro degli
altri, ed è la strada percorsa dai più. Se intendono produrre opere
originali, possono scegliere un’area rimasta trascurata, così che
quasi tutto quello che diranno costituirà un contributo. Oppure
possono rimanere su un terreno familiare ed evidenziare delle
distinzioni non ancora viste fino a quel momento, per poi continuare a
scrivere su tale argomento, da loro recentemente scoperto: tutto
questo si traduce in scritti sempre più numerosi su argomenti sempre
più scarsi, in una crescita in proporzione geometrica senza alcuna
fine logica, e che crea gran parte di quella sempre crescente
specializzazione che conosciamo tutti così bene. Tutte queste opzioni
vengono perseguite non tanto per il loro valore in sé, ma per
far fare carriera a chi scrive di tali argomenti. In questo momento,
mentre vi parlo, vengono scritti libri e articoli nella speranza che
aiutino ad assicurare un avanzamento in carriera, o che almeno
accrescano la fama dei loro autori. Gli argomenti vengono scelti
perché sono di moda, o per compiacere particolari professori o
dipartimenti. I progetti di ricerca vengono formulati in modo tale da
attrarre i finanziamenti. In ogni caso, l’obiettivo è quello di
fare un’impressione favorevole a qualcuno, allo scopo di ottenere un
avanzamento professionale. Questo desiderio di fare buona impressione
è diventato la rovina del modo accademico di scrivere, e costituisce
l’elemento principale di corruzione dello stile.
Il mezzo cui uno scrittore ricorre per impressionare il lettore
dipende almeno in parte dall’argomento. Gli storici, per esempio,
ogni tanto vogliono dare l’impressione di conoscere un sacco di cose
e di avere un’ottima padronanza dei dettagli, così possono essere
tentati di scrivere in modo da mostrare tutto ciò. D’altra parte
gli studenti di letteratura vogliono ancor più spesso dare l’impressione
che le loro risposte agli esami scritti siano sottili e raffinate,
facendo credere che loro vedono cose che gli altri non vedono, e
saranno quindi tentati di scrivere in modo tale da dimostrare tutto
ciò. La chiave per lo stile è data dalla motivazione. Per quale
ragione si scrive? Qualunque sia, essa determinerà non soltanto il
modo in cui si scriverà, ma anche l’argomento di cui si scriverà.
Troppo spesso, temo, i filosofi vogliono dare l’impressione di
essere eccezionalmente intelligenti, e scrivono in modo tale da fare
sfoggio della loro intelligenza: la sottigliezza delle distinzioni che
essi sono così bravi da tracciare, la complessità delle
argomentazioni che sono capaci di usare nel modo migliore, la
penetrazione delle analisi che sanno così bene elaborare. Come ci ha
ricordato Schopenhauer, però, la motivazione si rivela sempre. È un
fatto piuttosto misterioso, ma ciononostante un fatto, che le
motivazioni di uno scrittore fanno sempre capolino fra le sue righe,
anche quando egli tenta abilmente di nasconderle. Somerset Maugham -
che, nonostante i suoi limiti come scrittore, sapeva fare molto bene
il proprio mestiere, ed era consapevole di essere molto abile - ha
espresso tutto questo in modo molto vivido, dicendo che uno scrittore
non può decidere l’impressione che di sé stesso dà ai suoi
lettori più di quanto non possa saltare sulla propria ombra. Ci sono
poi pochi dubbi sul fatto che alcune delle motivazioni per le quali
ognuno di noi scrive sono inconsce. Il risultato di tutto questo è
che, lo vogliamo o meno, il nostro stile rivela i nostri valori.
Ci sono oggi molti filosofi di professione di cui posso dire, con una
certa sicurezza, che non saranno mai in grado di scrivere in modo
chiaro. Sono incapaci di farlo poiché hanno paura della chiarezza.
Hanno paura che se scrivono chiaramente la gente penserà che quello
che dicono è ovvio. E vogliono dare l’impressione di essere maestri
di cose difficili. Sono ansiosi che tutto ciò che scrivono venga
visto nella sua piena difficoltà, così che sia chiaro quanto loro
sono bravi a padroneggiare tutto ciò. Quando ho realizzato le mie tre
serie di trasmissioni sulla filosofia, due per la televisione e una
per la radio, ho scoperto che soltanto alcuni filosofi professionisti
- soprattutto gli esponenti di maggiore rilievo quali Quine, Chomsky,
Popper, Berlin e Ayer - erano disposti a rivolgersi a un pubblico
generico in una maniera semplice e diretta. La maggior parte degli
altri era spaventata all’idea che se lo avesse fatto avrebbe perso
la propria reputazione di fronte ai colleghi. Per loro restava sempre
importante il fatto che ciò che facevano in quanto professionisti
risultasse difficile, e questo era sicuramente l’esatto contrario di
ciò che io chiedevo loro in quelle occasioni, in particolare perché
sapevo che una difficoltà di quel tipo era del tutto inutile.
È essenziale distinguere fra difficoltà e mancanza di chiarezza.
Filosofi come Platone, Hume e Schopenhauer costituiscono un esempio di
come sia possibile scrivere in modo chiaro di problemi della massima
difficoltà e profondità. Tale chiarezza, agli occhi del lettore
intelligente, non fa sì che i problemi appaiano semplici e facili da
risolvere: al contrario, essa fa sì che le difficoltà siano
completamente comprensibili. Supporre che se un problema è
tortuosamente difficile esso deve venire necessariamente affrontato
con una prosa “tortuosa” è commettere un errore logico - un
errore che il Dr Johnson ha parodiato con la battuta: “Chi conduce
dei buoi grassi deve essere anch’egli grasso”.
Certo, una prosa potrebbe essere poco chiara per motivi diversi da
quelli cui ho accennato. Uno, piuttosto comune, è che lo stesso
scrittore potrebbe essere confuso. Un altro è che è stato pigro e
che non ha pensato a sufficienza ai problemi che lo affliggevano prima
di mettersi a scrivere. Un altro ancora è che, per impazienza, egli
ha dato alle stampe quella che avrebbe dovuto considerare la sua
penultima bozza - Hume, nella sua autobiografia, dice che si tratta di
un errore piuttosto comune, un errore nel quale egli stesso pensa di
essere incorso. Si tratta, in effetti, dell’errore commesso da Kant
con le sue tre Critiche, in questo caso perché temeva di
morire prima di completarle - una paura fondata, in un periodo in cui
solo pochissime persone superavano i sessant’anni. Il punto è,
però, che nessuna di queste scuse giustifica un’approvazione di
questo comportamento. Sono tutte scuse deplorevoli. Il fatto che
qualcosa è poco chiaro non dovrebbe mai, mai e poi mai aumentare il
nostro rispetto nei suoi confronti. Possiamo rispettarlo comunque,
nonostante la sua scarsa chiarezza, ma l’oscurità è sempre
qualcosa di negativo, mai di positivo.
Si trova un buono stile, credo, soltanto in quei casi - ma non
necessariamente in tutti, come dimostra il caso di Kant - in cui chi
scrive è interessato soprattutto al suo argomento, non a sé stesso e
a ciò che altri penseranno di lui. Soltanto allora tutto ciò che
riguarda il suo modo di scrivere sarà subordinato al problema che sta
affrontando. Lo stile riguarda dunque l’onestà dell’intento: chi
ha un buono stile in filosofia è sempre qualcuno che si dedica
completamente a ciò di cui scrive, dimenticandosi di sé. Il fatto
stesso che egli stia scrivendo qualcosa indica la sua volontà di
comunicare con altri per ragioni relative al suo argomento, non per
ragioni sue personali. La sua prosa non verrà intralciata da tutti
quei segni e da quegli indicatori il cui vero scopo è indicare
qualcosa relativo a sé stesso: sarà determinato anche a eliminare
tutto ciò che è relativo a sé stesso e che costituisce un ostacolo
al pensiero, alla soluzione dei problemi e alla comunicazione. Il suo
scopo sarà massimizzare la chiarezza nella formulazione dei problemi
e nella comunicazione di tutto ciò che è legato alle sue idee. Se si
sbaglia, vorrà essere il primo a rendersene conto, e scriverà quindi
in modo tale da facilitare la scoperta dell’errore. Gilbert Ryle, un
vero stilista tra i filosofi contemporanei, ha detto: “Penso che le
argomentazioni di un filosofo, quando sono condotte ricorrendo a
termini tecnici, tendano a eludere il lettore. È molto più facile
prendere in castagna un filosofo, compreso sé stesso, se egli non sta
ricorrendo a termini tecnici sconosciuti al lettore; la cosa più
importante a proposito delle argomentazioni filosofiche è che
dovrebbe essere il più facile possibile per gli altri (e in
particolare per lui stesso) cogliere in castagna l’autore, se è
possibile farlo”.
Lo stile è dunque un prodotto collaterale, un prodotto collaterale
delle nostre motivazioni. Siamo stati giustamente messi in guardia dal
fatto che non è possibile nascondere le nostre motivazioni. Non
soltanto risulterà chiaro se ciò che vogliamo è che la gente ci
ritenga brillanti; risulterà chiaro anche che vogliamo essere
ritenuti colti, o che desideriamo la fama, che vogliamo piacere,
oppure dare l’impressione di essere ragionevoli e affidabili, essere
considerati straordinari, o divertenti, o essere ritenuti grandi
filosofi. Queste motivazioni - e ce ne sono infinite altre - sono
tutte diverse fra loro, ma non sono affatto mutuamente esclusive.
Anzi: l’equilibrio che esse raggiungeranno in ognuno di noi andrà a
costituire il nostro stile; o, se non lo costituirà completamente,
avrà un grande peso nel dargli una forma e nel caratterizzarne i
dettagli. Non ha dunque senso disporci a raggiungere un buono stile
come se questo fosse un fine in sé stesso. Quando lo facciamo, i
risultati sono sempre sconcertanti, in parte perché si tratta ancora
di un altro modo di essere più preoccupati di quello che gli altri
pensano di noi piuttosto che di ciò di cui stiamo scrivendo. Matthew
Arnold, uno dei pochi critici letterari davvero grandi prodotti dalla
nostra cultura, ha detto: “La gente pensa che io possa insegnare
loro a scrivere con stile. Che razza d’idea! Cerca di avere qualcosa
da dire e dillo nel modo più chiaro possibile. Questo è l’unico
segreto dello stile”. Sono d’accordo con queste parole dal
profondo del cuore. Riassumono tutto ciò che mi sta più a cuore
raccomandare - sia a proposito di ciò che tutti noi per primi
dovremmo cercare di fare, sia a proposito di ciò che dovremmo
apprezzare di più negli altri. Scrivi solo se hai qualcosa da dire.
Dedica quindi tutte le tue capacità a rendere più chiaro possibile
ciò che scrivi. E abbi sempre l’onestà intellettuale e il coraggio
di qualificare, se non di nascondere del tutto, la tua ammirazione per
i lavori di chiunque che, per quanto intelligente, si comporti
altrimenti.
(Traduzione di Stefano Gattei)
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