| Reset/A proposito di stile 
 
 
 Bryan Magee
 
 
 
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 Questa relazione è apparsa sul numero 60 di Reset
 
 Bryan Magee, intellettuale eclettico (scrittore, critico teatrale e
          musicale, presentatore televisivo, già deputato laburista), ha
          studiato presso le università di Oxford e Yale. Ha insegnato al King’s
          College di Londra ed è stato visiting professor nelle università di
          Yale, Harvard e Berkeley. È inoltre membro del Queen Mary College di
          Londra e del Keble College di Oxford. Nei suoi saggi e nei suoi
          programmi tv ha sempre cercato riaccostare la filosofia all’esperienza
          quotidiana (di qui anche la sua campagna contro l’astrusità di
          certa scrittura filosofica, in favore di uno ‘stile’ improntato
          piuttosto alla chiarezza e all’onestà intellettuale). Il suo più
          libro noto, Confession of a Philosopher (tradotto in italiano con il
          titolo L’arte di stupirsi, Milano, Mondadori, 1998), narra dei sui
          incontri con alcune grandi figure della filosofia del Novecento (su
          tutti, Karl Popper e Bertrand Russell), e di come questi incontri l’abbiano
          aiutato a far luce sul mistero dell'esistenza. In italiano è anche
          apparso, presso Astrolabio, Della cecità, scritto a quattro mani con
          Martin Milligan.
 
 Questa relazione è stata presentata presso il Senate House dell’Università
          di Londra, il 26 novembre 1999. Il testo, intitolato “Style in
          Philosophy”, appare qui per la prima volta in versione integrale
 
 In passato mi capitava più frequentemente di quanto mi succeda ora di
          imbattermi in gente che dava per scontato che la filosofia fosse una
          branca della letteratura. Quando ero più giovane, infatti, incontravo
          spesso persone - intelligenti e colte, ma poco preparate in filosofia
          - che pensavano che un filosofo fosse qualcuno che dava voce ai suoi
          atteggiamenti generali nei confronti delle cose, allo stesso modo in
          cui potrebbe farlo un saggista, o anche un poeta, ma in una maniera
          più sistematica, e forse anche su scala più ampia: meno supponente
          di un saggista, meno emotivo di un poeta, ma anche più rigoroso, e
          forse più imparziale, di entrambi. Per il filosofo, così come per
          gli altri due, la qualità della sua scrittura era una parte
          essenziale della cosa davvero importante. Come il saggista e il poeta
          possedevano un loro proprio stile caratteristico, facilmente
          identificabile, che era parte integrante di quanto volevano esprimere,
          così anche il filosofo. E come non avrebbe ovviamente senso dire di
          qualcuno che era un cattivo scrittore, ma un bravo saggista, un
          cattivo scrittore ma un bravo poeta, così deve per forza non avere
          senso dire di qualcuno che è un cattivo scrittore ma un bravo
          filosofo.
 
 Questo modo di pensare è di certo del tutto sbagliato. Dico “di
          certo” poiché viene confutato dagli esempi forniti da alcuni fra i
          più grandi filosofi. Aristotele viene considerato da quasi ogni
          studente di filosofia uno dei maggiori filosofi di tutti i tempi, e
          molti pensano sia stato addirittura il più grande; tutto ciò che
          rimane delle sue opere, però, sono appunti di lezioni, scritti da lui
          o da un suo allievo. E come ci aspetteremmo da appunti di lezione,
          sono scritti in uno stile pesante, del tutto privo di merito
          letterario. Contengono però ugualmente una filosofia splendida, e
          hanno fatto di Aristotele una delle figure chiave della civiltà
          occidentale per gran parte degli ultimi duemilacinquecento anni. Il
          buon senso comune ha sempre sostenuto che il maggior filosofo dopo i
          Greci sia stato Immanuel Kant, ma non credo che qualcuno abbia mai
          considerato Kant un bravo scrittore, e tantomeno abbia ritenuto che
          avesse un grande stile: a chiunque abbia effettivamente letto le sue
          opere un’idea di questo genere risulterebbe tanto difficile da
          comprendere quanto alcune parti della sua deduzione trascendentale
          delle categorie. Il padre fondatore dell’empirismo moderno e della
          moderna teoria politica liberale, John Locke, è certamente una delle
          figure più importanti e influenti nella storia della filosofia
          occidentale, ma scrive in un modo che i più sembrano ritenere noioso
          e prosaico.
 
 Questi esempi - uno per ognuna delle tre lingue più ricche in
          filosofia - bastano per affermare che la qualità della prosa in cui
          leggiamo una teoria filosofica non è legata necessariamente al suo
          valore in quanto teoria filosofica. La qualità letteraria
          della prosa, se mai ne esiste una, non ha assolutamente alcun legame
          con la filosofia espressa. Certo, non esiste alcuna legge che dice che
          una teoria filosofica non può essere scritta bene, e alcuni filosofi
          sono stati scrittori molto bravi - una mezza dozzina addirittura
          grandi scrittori; ma questo non contribuisce affatto a renderli
          filosofi migliori. Quella di Platone viene ampiamente considerata la
          più raffinata prosa greca giunta fino a noi, ma questo non fa di lui
          un filosofo migliore di Aristotele, e chi lo ritiene tale non lo fa
          certo per il suo stile. In ogni modo, è accaduto che le opere di
          Aristotele pubblicate quando egli era in vita siano state ammirate per
          la loro bellezza nell’intero mondo antico. Cicerone descrisse la
          prosa di Aristotele come un “fiume d’oro”. Ma ora è andato
          tutto perduto, e ci rimangono soltanto degli appunti basati su circa
          un quarto dei suoi scritti. Eppure le filosofia contenuta in questi
          appunti ha avuto un’importanza incalcolabile. Nel mondo di lingua
          tedesca Schopenhauer e Nietzsche sono considerati fra i migliori
          scrittori di prosa - forse i migliori, a parte Goethe; ma questo non
          li rende affatto dei filosofi migliori di Kant.
 
 Certo, la qualità della prosa fa la differenza per gli studenti e i
          potenziali lettori. Alcuni filosofi sono un piacere a leggersi; oltre
          a quelli che ho ricordato abbiamo, in lingua inglese, anche Berkeley e
          Hume; in lingua francese Descartes, Pascal e Rousseau; Sant’Agostino
          in latino. Tutti costoro rimangono piacevoli da leggere anche in
          traduzione. Il ventesimo secolo ha visto filosofi insigniti, credo
          meritatamente, del premio Nobel per la letteratura - Bertrand Russell,
          Jean-Paul Sartre, Henri Bergson. Certo, a parità di altre condizioni,
          è più attraente studiare o specializzarsi in filosofi come loro che
          in quanti hanno invece uno stile pesante. Ciononostante, questo non fa
          di loro dei filosofi migliori.
 
 Dobbiamo allora dire che lo stile non conta in filosofia? Non posso
          spingermi ad affermare tanto. Credo infatti che tanto la chiarezza
          quanto la capacità di comunicazione rivestano una grande importanza.
          Mi sembra una vera e propria tragedia culturale che le opere di Kant,
          per quanto enorme sia il loro valore e l’influenza da esse
          esercitata, vengano lette da così poche persone a parte gli studenti
          di filosofia e i loro insegnanti. Tali opere mi sembrano costituire la
          strada che conduce alle più alte conquiste della filosofia nel mondo
          moderno - in un modo non molto diverso da quello in cui l’analisi è
          la strada che porta alla matematica di alto livello. Ma è improbabile
          che anche un lettore eccezionalmente intelligente ne ricavi molto, a
          meno che non possieda un bagaglio filosofico davvero molto ampio,
          oppure non riceva, almeno all’inizio, l’aiuto di un insegnante o
          di una guida. Una volta Macaulay, dopo aver ricevuto la prima
          traduzione inglese della Critica della ragion pura, scrisse sul
          proprio diario: “ho provato a leggerla, ma l’ho trovata
          completamente incomprensibile, come se fosse stata scritta in
          sanscrito. Non una parola è riuscita a trasmettermi qualcosa di
          simile a un’idea, a parte una citazione da Persio in latino. Mi
          sembra che dovrebbe essere possibile spiegare una vera teoria
          metafisica in parole che io sia in grado di comprendere. Riesco a
          capire Locke, Berkeley, Hume, Reid e Stewart. Posso capire gli Accademici
          di Cicerone, e gran parte di Platone, e mi sembra quantomeno strano
          che in un libro sugli elementi della metafisica […] io non sia in
          grado di comprendere una sola parola”.
 
 Chiunque abbia studiato la filosofia con serietà comprenderà l’imbarazzo
          di Macaulay. Si spiega così il motivo per cui non potremmo mai
          aspettarci che la filosofia di Kant diventi parte del bagaglio
          culturale di ogni persona colta e intelligente allo stesso modo in
          cui, per esempio, la filosofia di Descartes è parte del bagaglio
          culturale di ogni francese colto. Sebbene il suo valore in quanto
          filosofia e la sua influenza all’interno del mondo filosofico
          accademico non siano modificate dal modo intrattabile in cui è
          scritta, la sua posizione nell’ambito della nostra cultura media e l’influenza
          che essa è quindi in grado di esercitare sulle menti delle persone
          intelligenti in generale viene drasticamente ridotta, e questo è
          tanto sconcertante quanto non necessario.
 
 A proposito di chiarezza e di comprensibilità in filosofia, sembrano
          esserci dei cicli, o delle oscillazioni simili a quelle di un pendolo,
          così come ce ne sono in molti altri ambiti. Dopo un periodo in cui ha
          dominato l’oscurità, o almeno essa è stata accettata
          professionalmente, si ha solitamente una reazione a essa, e una nuova
          generazione di filosofi cercherà coscientemente di scrivere in modo
          più chiaro. In seguito, però, con il passare del tempo, la chiarezza
          passerà di moda, decadendo ancora una volta in oscurità, fino a
          quando non si avrà una nuova reazione. Penso di aver vissuto per gran
          parte di uno di questi cicli nel corso della mia vita adulta. So che
          la Gran Bretagna è una piccola isola, e mi rendo conto che un esempio
          tratto soltanto da questo Paese suonerà campanilistico, ma la
          limitatezza stessa della sua portata ne esalterà il contenuto. Quando
          mi iscrissi all’università, nel 1949, i filosofi che vivevano
          allora in Gran Bretagna, e le cui opere venivano lette da tutti coloro
          che erano davvero interessati a quegli argomenti, erano Bertrand
          Russell, George E. Moore, Ludwig Wittgenstein, Karl Popper, Isaiah
          Berlin, John L. Austin, Gilbert Ryle e Alfred J. Ayer. Tutti, tranne
          Wittgenstein e Austin, scrivevano in un modo che risultava
          interessante per tutte le persone intelligenti disposte a dedicarvisi,
          e gran parte delle loro opere venivano in effetti lette più al di
          fuori del mondo accademico che al suo interno. Russell, in
          particolare, aveva un’enorme influenza sulla pubblica opinione di
          stampo liberale, e nei suoi ultimi anni divenne un’icona per i
          giovani radicali. Lui e Ayer scrissero molti articoli sui giornali e
          divennero famosi per le loro trasmissioni radiofoniche, non soltanto
          per il fatto di rendere noti i loro punti di vista su generiche
          questioni d’attualità in quel momento, comprese tematiche relative
          ai modi di comportamento e alla morale, ma anche, e forse soprattutto,
          per la loro difesa di un certo modo di affrontare le varie tematiche.
          Moore costituì probabilmente la maggiore influenza intellettuale
          singola sul ben noto gruppo di Bloomsbury, che raccoglieva scrittori e
          artisti, e su molti dei loro devoti seguaci. Popper ebbe una grande
          influenza sulle successive generazioni di politici e anche su vari
          scienziati, molti dei quali, nel tempo, hanno vinto il premio Nobel.
 
 Oggi i successori di questi filosofi, coloro che occupano le loro
          cattedre o detengono le loro posizioni in ambito accademico, non
          rivestono affatto ruoli così ampi. Nel complesso i loro scritti non
          risultano attraenti, e forse neppure accessibili, per i non-filosofi,
          e non si propongono nemmeno di esserlo - il che vuol dire che, in
          pratica, i loro scritti sono in gran parte rivolti a loro stessi. In
          tutta onestà bisogna tenere presente che l’espansione subita,
          secondo modalità diverse, dall’educazione accademica negli ultimi
          cinquant’anni all’interno del mondo sviluppato, ha dato loro un
          pubblico di professionisti molto più ampio di quello che i loro
          colleghi avevano prima a disposizione. Rimane però il fatto che essi
          non sembrano aspettarsi (e neppure volere) che i loro scritti vengano
          letti se non dai loro colleghi o dai loro studenti. Non solo: quanti
          di noi sono loro colleghi, in grado di leggere e di comprendere quasi
          tutto ciò che essi scrivono, cercherebbero invano se andassero alla
          ricerca, nei loro scritti, delle caratteristiche stilistiche di un
          Platone o di uno Hume, o delle qualità presumibilmente richieste per
          vincere il premio Nobel per la letteratura. La verità è, in effetti
          - e molti dei presenti possono confermare tutto questo in base alla
          loro conoscenza e alla loro esperienza - che molti dei maggiori
          filosofi di oggi vengono fatti oggetto, in privato, delle lamentele
          dei loro stessi colleghi per la sgradevolezza della loro scrittura.
          Stando al dizionario di filosofia di Daniel Dennett, pubblicato in
          modo non ufficiale, ma fatto ampiamente circolare, uno di loro ha dato
          il proprio nome a un modo di scrivere in cui più lo scrittore va
          avanti in una frase, più sembra allontanarsi dalla sua fine.
 
 So per esperienza personale che quando queste sensazioni vengono
          espresse all’interno di circoli professionali, la risposta che quasi
          sempre suscitano è che tali cambiamenti nel modo di scrivere sono
          stati causati dal cambiamento della filosofia stessa - che, negli
          ultimi cinquant’anni, l’analisi concettuale ha raggiunto un’accuratezza
          così alta, e l’analisi logica un tale livello di tecnicismo, che è
          irrealistico, al giorno d’oggi, aspettarsi un pubblico se non di
          specialisti, e che è quindi irrealistico cercare di scrivere per un
          pubblico di non specialisti. Se soltanto quanti sono tecnicamente
          preparati potranno comunque essere in grado di leggere le vostre cose,
          allora risparmierete tempo e fatica a loro e a voi se quando scrivete
          date il loro livello di bagaglio tecnico per scontato.
 
 Non credo sia un argomento valido. Assume infatti un’idea alquanto
          ristretta e indifendibile di quali siano e di quali debbano essere le
          preoccupazioni di chi fa filosofia. Anche se l’accettassimo,
          tuttavia, credo che l’argomento rimanga non valido. Quando ho
          elencato i nomi dei maggiori esponenti della precedente generazione di
          filosofi, soltanto di due fra loro ho ricordato come fossero soliti
          scrivere in un modo che risultava inaccessibile ai non specialisti. Si
          trattava di Austin e di Wittgenstein. Ciononostante, li ritengo,
          ognuno a suo modo, bravi scrittori. Nelle sue analisi concettuali
          Austin riuscì a esprimere distinzioni di rara sottigliezza in una
          prosa sempre molto chiara, e qualche volta anche arguta, che i suoi
          colleghi trovavano un piacere leggere. Era l’impresa stessa, non lo
          stile, che tagliava fuori tutti coloro che non erano specialisti. Per
          quanto riguarda Wittgenstein, sono tentato di chiamarlo un grande
          stilista. Non sono certo di lingua madre tedesca, e questo diminuisce
          in un certo modo il valore del mio giudizio in materia, ma nel Tractatus
          ritrovo alcuni fra i passi più fulgidi e irresistibili di prosa in
          lingua tedesca che abbia mai incontrato. Quelle frasi sconcertanti
          brillano di luce propria nella mente di chi le legge, e molte vi
          rimangono per il resto della vita. In questo caso, la barriera, per i
          non specialisti, è costituita dalla difficoltà di capire che cosa
          molte di esse significhino; ma la prosa in sé stessa è
          incandescente. Le frasi nelle Ricerche filosofiche non hanno la
          stessa fiera intensità, ma si distinguono comunque notevolmente per
          lo stile. Non riesco a capire come le cose di cui si occupano oggi i
          nostri maggiori filosofi siano molto più sottili e sofisticate di
          quelle di Wittgenstein al punto che, a differenza delle sue, se ne
          possa parlare quasi solo in frasi complicate, fittamente ingarbugliate
          e prive di tono.
 
 Quando in effetti guardiamo indietro alla storia della filosofia,
          troviamo che durante i periodi ciclici di inaccessibilità viene
          sempre avanzata la stessa risposta difensiva. Nella prima metà del
          diciannovesimo secolo, la filosofia era in voga nei Paesi di lingua
          tedesca più che altrove; la dominavano pensatori come Fichte e
          Schelling, e più tardi, in modo del tutto opprimente, Hegel. Ognuno
          di loro rimane, a tutt’oggi, un sinonimo di oscurità. Ai loro tempi
          la risposta del tutto abituale in difesa di tale oscurità era che i
          loro lavori erano meravigliosamente profondi: essi conducevano
          nientemeno che al disvelamento dei segreti dell’universo; era dunque
          impossibile che i loro scritti fossero diretti e chiari: al contrario,
          era necessario che il lettore si trovasse di fronte a difficoltà
          quasi del tutto impenetrabili. Aspettarsi qualcosa di meno era da
          ingenui, da filistei intellettuali. Intere generazioni di filosofi
          professionisti contemporanei (quasi tutti ora dimenticati) scrissero
          in modo simile, e offrirono la stessa giustificazione. Abbiamo brevi
          sprazzi di queste figure ormai dimenticate all’interno di contesti
          non filosofici; se ne trova uno nell’autobiografia di Richard
          Wagner. Egli aveva studiato a Dresda e a Leipzig negli anni Venti e
          Trenta dell’Ottocento, e ricordando i giorni passati da studente,
          scrive: “frequentavo le lezioni di estetica di uno dei professori
          più giovani, un uomo chiamato Weiss […] che avevo conosciuto a casa
          di mio zio Adolf […] In quell’occasione avevo assistito a una
          conversazione fra loro due a proposito di filosofia e di filosofi che
          mi aveva profondamente impressionato. Ricordo che Weiss […]
          giustificava la molto criticata mancanza di chiarezza nel suo stile
          espositivo sostenendo che i problemi più profondi dello spirito umano
          non potevano essere risolti per il beneficio delle masse. Questa
          massima mi sembrava del tutto plausibile, e la presi come principio
          guida per tutto ciò che scrivevo. Ricordo come mio fratello maggiore
          Albert si fosse particolarmente irritato per lo stile di una lettera
          che una volta gli avevo scritto su incarico di mia madre, e mi avesse
          espresso il timore che io stessi perdendo il senno”. Un altro dei
          miei passi preferiti, che coinvolge ancora una volta Wagner, è tratto
          non dalla sua autobiografia, ma da quella del pittore Friedrich Pecht.
          Scrivendo dei giorni passati insieme a Wagner a Dresda, negli anni
          Quaranta, dice: “Un giorno, quando passai a fargli visita, lo trovai
          che bruciava di passione per la Fenomenologia di Hegel, che
          stava studiando proprio in quel momento; mi disse, con la sua consueta
          stravaganza, che si trattava del miglior libro mai pubblicato. Per
          dimostrarmelo mi lesse un passaggio che lo aveva particolarmente
          colpito. Dato che non riuscivo del tutto a seguirlo, gli chiesi di
          rileggerlo, e dopo che lo ebbe fatto nessuno di noi riusciva a
          capirlo. Me lo lesse una terza volta, e una quarta, fino a quando,
          alla fine, ci guardammo l’un l’altro e scoppiammo a ridere”.
 
 Avrete forse notato come Wagner abbia usato parole come “molto
          criticata” in riferimento allo stile di un filosofo ora sconosciuto,
          il professor Weiss; e alla fine, come sappiamo, si ebbe una reazione
          anche da parte dei filosofi nei confronti di questo modo di scrivere
          di filosofia. Schopenhauer fu particolarmente caustico a tale
          proposito. I suoi libri contengono molti passaggi con ingiurie smodate
          nei confronti di Fichte, di Schelling e di Hegel per il crimine da
          loro commesso. Dei filosofi di professione più ordinari del tempo,
          quali Weiss, Schopenhauer scriveva: “Per nascondere la brama di idee
          concrete, molti si costruiscono da soli un imponente apparato di
          parole composte, di arabeschi di locuzioni intricate, di periodi
          lunghissimi, di nuove e sconosciute espressioni, che nel complesso
          formano un gergo estremamente difficile, che dà l’impressione di
          essere molto colto. Eppure con tutto questo essi non dicono
          assolutamente nulla; non ne ricaviamo alcuna idea nuova, né la nostra
          intuizione ne risulta aumentata”. Egli non poteva trovare nulla
          nella natura della filosofia, o nelle caratteristiche della lingua
          tedesca, per giustificare una scrittura di tal genere, e in assenza di
          un qualunque modello accettabile per scrivere la filosofia in tedesco,
          si dispose a scrivere nel modo in cui Hume aveva scritto di filosofia
          in inglese. Dopo i grandi Idealisti tedeschi tutti i maggiori filosofi
          della metà e del tardo diciannovesimo secolo - Kierkegaard,
          Schopenhauer, Marx (se lo si considera almeno in parte un filosofo) e
          Nietzsche - scrivevano rifiutando consapevolmente, in una certa misura
          e in modi diversi, lo stile di Hegel, e furono tutti scrittori
          straordinari. Non riesco a pensare come qualcuno che conosca davvero
          gli scritti di Kiekegaard e di Schopenhauer possa affermare, in nessun
          modo, che la loro chiarezza e l’eccellenza del loro stile ne
          impedisca la profondità, la sottigliezza o la raffinatezza (sebbene
          io veda molto bene come tali accuse possano forse essere rivolte a
          Marx e a Nietzsche).
 
 In un ambito più ristretto, in Gran Bretagna, si ebbe un ciclo non
          molto diverso da questo fra la fine del diciannovesimo e l’inizio
          del ventesimo secolo. C’era stato un lungo periodo in cui l’ortodossia
          dominante fra i filosofi era una forma di neo-hegelismo. Alcuni nomi
          associati a questo movimento sono quelli di Green, Bosanquet,
          McTaggart e Bradley. Il loro modo di scrivere consisteva, in generale,
          nel tenersi in rapporto stretto con Hegel. Bertrand Russell e George
          E. Moore vennero educati in questa tradizione. Si tende oggi a
          dimenticare che il primo scritto indipendente di Russell fu una
          dissertazione in stile neo-hegeliano sui fondamenti della geometria -
          un lavoro che egli in seguito ripudiò. Col passare del tempo lui e
          Moore si ribellarono chiaramente contro il loro stesso retaggio: può
          forse sorprendere sapere che fu Moore a guidare la “rivolta”, e
          Russell lo seguì. Una parte essenziale del programma rivoluzionario
          proclamato da questi giovani ribelli consisteva nella necessità di
          chiarezza nella scrittura filosofica. Si trattava di un requisito che
          si sforzarono ammirevolmente di acquisire (Russell, in particolare,
          divenne uno scrittore eccellente), ed ebbero successo nel persuadere
          un’intera generazione di filosofi a seguirli. Come ha detto Stuart
          Hampshire, parlando dello stile di Russell: “è una questione di non
          offuscare, di non lasciare alcun margine di incertezza; del dovere di
          essere chiari, così che gli errori possano risultare evidenti; di non
          essere mai pomposi o sfuggenti. È una questione di non rabberciare in
          qualche modo i risultati, di non usare mai la retorica per coprire
          eventuali buchi, di non usare mai un’espressione che a seconda della
          convenienza del momento oscilli, per così dire, fra due o tre
          posizioni, lasciando non chiara quella cui ci si sta riferendo”.
          Karl Popper una volta mi disse che quando si trovò a dover scrivere
          di filosofia in inglese, che non era la sua lingua madre, prese
          Russell come modello, allo stesso modo in cui Schopenhauer aveva
          adottato Hume come suo; e mi disse qualcosa, a questo proposito, che
          non ho mai dimenticato: “non è soltanto una questione di chiarezza,
          ma di etica professionale”.
 
 A mio parere Schopenhauer è uno fra i più penetranti diagnostici
          delle ragioni di fondo della scarsa chiarezza della scrittura
          filosofica. Egli l’ha fatta risalire all’unione di due sviluppi
          altrimenti separati. Il primo è costituito dalla
          professionalizzazione della filosofia. Ora diamo la cosa per scontata,
          e può stupirci, ma per centinaia di anni dopo la fine del Medioevo
          nessun grande filosofo era un accademico. Durante questo periodo le
          università ben consolidate hanno continuato a insegnare filosofia, ma
          tutti i grandi filosofi erano al di fuori del mondo accademico: Hobbes,
          Descartes, Spinoza, Leibniz, Locke, Berkeley, Hume, Rousseau - nessuno
          di loro era un accademico né insegnava filosofia. Come ha detto
          Schopenhauer: “Pochissimi filosofi sono mai stati professori si
          filosofia, e un numero relativamente piccolo di professori di
          filosofia sono mai stati filosofi”. Vennero offerte cattedre sia a
          Spinoza sia a Leibniz, ma entrambi rifiutarono. Hume era candidato per
          due cattedre, ma non ne ottenne neppure una. Il primo
          incontestabilmente grande filosofo dopo il Medioevo a essere un
          professore universitario fu Kant - e, come ha sottolineato
          Schopenhauer, non tenne mai lezioni sulla propria filosofia. Kant e i
          famosi Idealisti erano professori, ma dopo di loro i maggiori filosofi
          della metà e del tardo diciannovesimo secolo, quelli che ho elencato
          poco fa in un altro contesto - lo stesso Schopenhauer, ma anche
          Kierkegaard, Marx e Nietzsche - non erano accademici, e non lo era
          neppure il più grande filosofo inglese del diciannovesimo secolo,
          John Stuart Mill. Il ventesimo secolo è stato il primo secolo dopo il
          Medioevo nel quale quasi tutti i maggiori filosofi sono stati
          professori universitari. La professionalizzazione della filosofia è
          dunque tanto recente quanto debole, se paragonata alla sua storia.
 
 In prossimità dell’inizio di questo processo di
          professionalizzazione, Schopenhauer intuì che era destinato ad avere
          alcune conseguenze indesiderabili. Non ci si deve aspettare che ci
          sarà più di un piccolo gruppetto di pensatori davvero originali in
          ogni dato periodo - o in ogni dato secolo, si sarebbe tentati di dire
          - come potrebbero allora raggiungere la fama tutti gli altri membri
          della professione? In quanto accademici di carriera, per il proprio
          sostentamento essi dipendono dagli stipendi e dalle pensioni che
          ricevono dalle loro università, e il livello di questi dipende, a sua
          volta, dalla posizione che essi occupano. Molti di loro hanno moglie e
          figli da mantenere. In ogni caso, come capita normalmente alle persone
          ambiziose in una qualunque professione, vogliono fare strada,
          raggiungere il riconoscimento dei colleghi, ottenere posizioni di
          rilievo e titoli prestigiosi. Ma se tutto questo deve succedere,
          allora le persone interessate devono dare una certa impressione di
          sé. Lasciare un segno diventa dunque essenziale per le loro carriere.
          Quando scrivono in vista della pubblicazione la loro principale
          preoccupazione diventa quella di lasciare un segno, di persuadere i
          colleghi delle proprie capacità professionali. Dato però che è
          nella natura delle cose che soltanto pochi siano pensatori creativi e
          davvero significativi, come è possibile tutto questo?
 
 È a questo punto che entra in gioco il secondo dei due sviluppi
          convergenti messi in evidenza da Schopenhauer. Ci sta di fronte l’esempio
          di Kant, sicuramente un grande filosofo: Schopenhauer tendeva a
          considerarlo il più grande filosofo mai esistito, con la sola
          possibile eccezione di Platone. Ma la sua filosofia è così difficile
          da capire che quasi nessuno può comprenderla alla prima lettura.
          Questo ha condizionato il pubblico intelligente di lingua tedesca a
          lui contemporaneo e del periodo immediatamente successivo, facendogli
          accettare il fatto che per la prima volta un’opera filosofica che
          risultasse incomprensibile per loro fosse ciononostante genuinamente
          profonda e costituisse in effetti l’opera di un genio, e che se non
          riuscivano a capirla non era colpa dell’autore, ma loro: il libro
          era più profondo di quanto loro non fossero in grado di comprendere,
          e la loro incapacità di comprenderlo era una misura della sua
          profondità. Questa nuova situazione offrì una doppia opportunità a
          un accademico senza scrupoli, desideroso di essere considerato un
          genio: poteva scrivere in un maniera pseudo-kantiana che, se
          sufficientemente incomprensibile, sarebbe stata accettata come
          profonda proprio per quella ragione, mentre la sua oscurità,
          attentamente curata, avrebbe nascosto ai lettori il fatto che non
          veniva detto granché. La prima persona ad approfittare di questa
          possibilità, stando a Schopenhauer, fu Fichte, che scrisse un’opera
          filosofica - la sua opera prima - intitolata Ricerca di una critica
          di ogni rivelazione, e la pubblicò anonima presso lo stesso
          editore di Kant nel 1792. A causa dello stile, dell’argomento, del
          titolo, della data, dell’editore, e dell’anonimato del suo autore,
          si credette che essa costituisse la quarta Critica di Kant, e
          venne acclamata di conseguenza. Quando si seppe che era opera di
          Fichte, egli divenne improvvisamente famoso - e ottenne la cattedra di
          filosofia all’Università di Jena. Questo fatto mostrò la strada
          per le successive generazioni di sedicenti accademici: un metodo per
          conquistare cattedra e approvazione è scrivere con un grado di
          oscurità che convinca il lettore della profondità di ciò che viene
          trattato, nascondendogli, al contempo, la sua vacuità. Schopenhauer
          descrisse così lo sviluppo appena iniziato: “Fichte fu il primo a
          cogliere e a utilizzare questo privilegio; Schelling perlomeno lo
          eguagliò, e una schiera di affamati imbrattacarte senza intelletto e
          onestà presto li superarono entrambi. Ma la più grande sfrontatezza
          nel preparare pure frasi prive di senso, nel mettere insieme, in
          qualche modo, trame di parole assurde ed esasperanti, quali se ne
          erano sentite soltanto nei manicomi, apparve alla fine in Hegel”.
 
 Ritengo che l’analisi che Schopenhauer fa di Fichte, di Schelling e
          di Hegel sia piuttosto corretta, ma penso sia incompleta. Quei
          filosofi stavano certamente facendo quello che Schopenhauer disse che
          stavano facendo: scrivere in un modo oracolare, incantatorio, pensato
          per ammaliare i lettori e portarli a confondere il semplice con il
          complicato, e anche il più evidente dei luoghi comuni per qualcosa di
          così profondo da fare storia. A mio giudizio, però, si trattava di
          filosofi di valore, che avevano qualcosa da dire ma che lo dicevano in
          un modo assolutamente disonesto. Erano gli altri membri della
          professione - tutte quelle schiere e schiere di loro contemporanei i
          cui nomi sono stati ora dimenticati - che scrivevano allo stesso modo
          ma non avevano nulla da dire, che meritano più di tutti i giudizi
          taglienti di Schopenhauer che ho citato prima.
 
 Non dovremmo mai cadere nella trappola di supporre che per il fatto
          che qualcuno fa ricorso ai trucchi del ciarlatano non possa avere un
          talento genuino, anche senza essere un genio. Ci sono vari aspetti
          della vita in cui non è raro che le due cose si presentino insieme:
          nella recitazione, nella direzione d’orchestra, e forse nelle arti
          in genere; nella leadership politica - e in effetti in tutte le
          figure trainanti dei vari aspetti della vita; certo non parlo di tutti
          i casi, ma qualche volta succede. Guardo a Fichte, a Schelling e a
          Hegel come a persone di questo tipo. E in effetti Fichte, a un certo
          punto della sua carriera, scoprì il gioco. Perse il suo lavoro all’Università
          di Jena e credette di dover guadagnare per sopravvivere, scrivendo per
          un pubblico non accademico per tutto il resto della sua vita; scrisse
          allora un libro teso a far conoscere al pubblico le idee centrali
          della sua filosofia. Il libro, pubblicato nel 1800, è intitolato Die
          Bestimmung des Menschen, tradotto in italiano come La missione
          dell’uomo. È un libro succoso, scritto in un modo completamente
          diverso da quello dei suoi primi lavori: invero, è scritto
          superbamente, in una prosa chiara e semplicemente profonda. Penso sia
          un grande libro, sufficiente, da solo, a porre Fichte fra i maggiori
          filosofi, e di grande merito letterario. Era dunque in grado di
          scrivere così, se avesse voluto. Sembrava che tutto dipendesse da
          quelli che dovevano essere i suoi lettori e da quello che sperava,
          così facendo, di ottenere.
 
 Il modello di Fichte ci aiuta a comprendere uno dei principali
          sviluppi della vita accademica occidentale nel ventesimo secolo - dopo
          la seconda guerra mondiale, in effetti. Il settore dell’educazione
          superiore si è moltiplicato molte volte in dimensioni, e questo ha
          reso l’insegnamento superiore una delle professioni di maggiore
          rilievo, i cui esponenti contano circa centomila unità. Ogni
          insegnamento accademico ha dato vita a una professione numerosa, quasi
          tutti i membri della quale sono ansiosi di fare carriera, ma quasi
          ognuno di loro - a differenza di Fichte - non ha un talento
          significativo. Sarebbe un errore aspettarsi che tutti i professori
          universitari di filosofia siano anche buoni filosofi, allo stesso modo
          in cui sarebbe sbagliato aspettarsi che tutti i professori di
          letteratura siano buoni poeti, romanzieri o drammaturghi. Certo, in
          ognuno di questi casi alcuni lo sono, ma sarebbe scorretto aspettarsi
          che lo siano anche tutti gli altri. Ma in questi tempi di “pubblica
          o muori”, come potrebbero fare carriera tutti costoro? Hanno solo
          una gamma limitata di possibilità. Possono scrivere sul lavoro degli
          altri, ed è la strada percorsa dai più. Se intendono produrre opere
          originali, possono scegliere un’area rimasta trascurata, così che
          quasi tutto quello che diranno costituirà un contributo. Oppure
          possono rimanere su un terreno familiare ed evidenziare delle
          distinzioni non ancora viste fino a quel momento, per poi continuare a
          scrivere su tale argomento, da loro recentemente scoperto: tutto
          questo si traduce in scritti sempre più numerosi su argomenti sempre
          più scarsi, in una crescita in proporzione geometrica senza alcuna
          fine logica, e che crea gran parte di quella sempre crescente
          specializzazione che conosciamo tutti così bene. Tutte queste opzioni
          vengono perseguite non tanto per il loro valore in sé, ma per
          far fare carriera a chi scrive di tali argomenti. In questo momento,
          mentre vi parlo, vengono scritti libri e articoli nella speranza che
          aiutino ad assicurare un avanzamento in carriera, o che almeno
          accrescano la fama dei loro autori. Gli argomenti vengono scelti
          perché sono di moda, o per compiacere particolari professori o
          dipartimenti. I progetti di ricerca vengono formulati in modo tale da
          attrarre i finanziamenti. In ogni caso, l’obiettivo è quello di
          fare un’impressione favorevole a qualcuno, allo scopo di ottenere un
          avanzamento professionale. Questo desiderio di fare buona impressione
          è diventato la rovina del modo accademico di scrivere, e costituisce
          l’elemento principale di corruzione dello stile.
 
 Il mezzo cui uno scrittore ricorre per impressionare il lettore
          dipende almeno in parte dall’argomento. Gli storici, per esempio,
          ogni tanto vogliono dare l’impressione di conoscere un sacco di cose
          e di avere un’ottima padronanza dei dettagli, così possono essere
          tentati di scrivere in modo da mostrare tutto ciò. D’altra parte
          gli studenti di letteratura vogliono ancor più spesso dare l’impressione
          che le loro risposte agli esami scritti siano sottili e raffinate,
          facendo credere che loro vedono cose che gli altri non vedono, e
          saranno quindi tentati di scrivere in modo tale da dimostrare tutto
          ciò. La chiave per lo stile è data dalla motivazione. Per quale
          ragione si scrive? Qualunque sia, essa determinerà non soltanto il
          modo in cui si scriverà, ma anche l’argomento di cui si scriverà.
          Troppo spesso, temo, i filosofi vogliono dare l’impressione di
          essere eccezionalmente intelligenti, e scrivono in modo tale da fare
          sfoggio della loro intelligenza: la sottigliezza delle distinzioni che
          essi sono così bravi da tracciare, la complessità delle
          argomentazioni che sono capaci di usare nel modo migliore, la
          penetrazione delle analisi che sanno così bene elaborare. Come ci ha
          ricordato Schopenhauer, però, la motivazione si rivela sempre. È un
          fatto piuttosto misterioso, ma ciononostante un fatto, che le
          motivazioni di uno scrittore fanno sempre capolino fra le sue righe,
          anche quando egli tenta abilmente di nasconderle. Somerset Maugham -
          che, nonostante i suoi limiti come scrittore, sapeva fare molto bene
          il proprio mestiere, ed era consapevole di essere molto abile - ha
          espresso tutto questo in modo molto vivido, dicendo che uno scrittore
          non può decidere l’impressione che di sé stesso dà ai suoi
          lettori più di quanto non possa saltare sulla propria ombra. Ci sono
          poi pochi dubbi sul fatto che alcune delle motivazioni per le quali
          ognuno di noi scrive sono inconsce. Il risultato di tutto questo è
          che, lo vogliamo o meno, il nostro stile rivela i nostri valori.
 
 Ci sono oggi molti filosofi di professione di cui posso dire, con una
          certa sicurezza, che non saranno mai in grado di scrivere in modo
          chiaro. Sono incapaci di farlo poiché hanno paura della chiarezza.
          Hanno paura che se scrivono chiaramente la gente penserà che quello
          che dicono è ovvio. E vogliono dare l’impressione di essere maestri
          di cose difficili. Sono ansiosi che tutto ciò che scrivono venga
          visto nella sua piena difficoltà, così che sia chiaro quanto loro
          sono bravi a padroneggiare tutto ciò. Quando ho realizzato le mie tre
          serie di trasmissioni sulla filosofia, due per la televisione e una
          per la radio, ho scoperto che soltanto alcuni filosofi professionisti
          - soprattutto gli esponenti di maggiore rilievo quali Quine, Chomsky,
          Popper, Berlin e Ayer - erano disposti a rivolgersi a un pubblico
          generico in una maniera semplice e diretta. La maggior parte degli
          altri era spaventata all’idea che se lo avesse fatto avrebbe perso
          la propria reputazione di fronte ai colleghi. Per loro restava sempre
          importante il fatto che ciò che facevano in quanto professionisti
          risultasse difficile, e questo era sicuramente l’esatto contrario di
          ciò che io chiedevo loro in quelle occasioni, in particolare perché
          sapevo che una difficoltà di quel tipo era del tutto inutile.
 
 È essenziale distinguere fra difficoltà e mancanza di chiarezza.
          Filosofi come Platone, Hume e Schopenhauer costituiscono un esempio di
          come sia possibile scrivere in modo chiaro di problemi della massima
          difficoltà e profondità. Tale chiarezza, agli occhi del lettore
          intelligente, non fa sì che i problemi appaiano semplici e facili da
          risolvere: al contrario, essa fa sì che le difficoltà siano
          completamente comprensibili. Supporre che se un problema è
          tortuosamente difficile esso deve venire necessariamente affrontato
          con una prosa “tortuosa” è commettere un errore logico - un
          errore che il Dr Johnson ha parodiato con la battuta: “Chi conduce
          dei buoi grassi deve essere anch’egli grasso”.
 
 Certo, una prosa potrebbe essere poco chiara per motivi diversi da
          quelli cui ho accennato. Uno, piuttosto comune, è che lo stesso
          scrittore potrebbe essere confuso. Un altro è che è stato pigro e
          che non ha pensato a sufficienza ai problemi che lo affliggevano prima
          di mettersi a scrivere. Un altro ancora è che, per impazienza, egli
          ha dato alle stampe quella che avrebbe dovuto considerare la sua
          penultima bozza - Hume, nella sua autobiografia, dice che si tratta di
          un errore piuttosto comune, un errore nel quale egli stesso pensa di
          essere incorso. Si tratta, in effetti, dell’errore commesso da Kant
          con le sue tre Critiche, in questo caso perché temeva di
          morire prima di completarle - una paura fondata, in un periodo in cui
          solo pochissime persone superavano i sessant’anni. Il punto è,
          però, che nessuna di queste scuse giustifica un’approvazione di
          questo comportamento. Sono tutte scuse deplorevoli. Il fatto che
          qualcosa è poco chiaro non dovrebbe mai, mai e poi mai aumentare il
          nostro rispetto nei suoi confronti. Possiamo rispettarlo comunque,
          nonostante la sua scarsa chiarezza, ma l’oscurità è sempre
          qualcosa di negativo, mai di positivo.
 
 Si trova un buono stile, credo, soltanto in quei casi - ma non
          necessariamente in tutti, come dimostra il caso di Kant - in cui chi
          scrive è interessato soprattutto al suo argomento, non a sé stesso e
          a ciò che altri penseranno di lui. Soltanto allora tutto ciò che
          riguarda il suo modo di scrivere sarà subordinato al problema che sta
          affrontando. Lo stile riguarda dunque l’onestà dell’intento: chi
          ha un buono stile in filosofia è sempre qualcuno che si dedica
          completamente a ciò di cui scrive, dimenticandosi di sé. Il fatto
          stesso che egli stia scrivendo qualcosa indica la sua volontà di
          comunicare con altri per ragioni relative al suo argomento, non per
          ragioni sue personali. La sua prosa non verrà intralciata da tutti
          quei segni e da quegli indicatori il cui vero scopo è indicare
          qualcosa relativo a sé stesso: sarà determinato anche a eliminare
          tutto ciò che è relativo a sé stesso e che costituisce un ostacolo
          al pensiero, alla soluzione dei problemi e alla comunicazione. Il suo
          scopo sarà massimizzare la chiarezza nella formulazione dei problemi
          e nella comunicazione di tutto ciò che è legato alle sue idee. Se si
          sbaglia, vorrà essere il primo a rendersene conto, e scriverà quindi
          in modo tale da facilitare la scoperta dell’errore. Gilbert Ryle, un
          vero stilista tra i filosofi contemporanei, ha detto: “Penso che le
          argomentazioni di un filosofo, quando sono condotte ricorrendo a
          termini tecnici, tendano a eludere il lettore. È molto più facile
          prendere in castagna un filosofo, compreso sé stesso, se egli non sta
          ricorrendo a termini tecnici sconosciuti al lettore; la cosa più
          importante a proposito delle argomentazioni filosofiche è che
          dovrebbe essere il più facile possibile per gli altri (e in
          particolare per lui stesso) cogliere in castagna l’autore, se è
          possibile farlo”.
 
 Lo stile è dunque un prodotto collaterale, un prodotto collaterale
          delle nostre motivazioni. Siamo stati giustamente messi in guardia dal
          fatto che non è possibile nascondere le nostre motivazioni. Non
          soltanto risulterà chiaro se ciò che vogliamo è che la gente ci
          ritenga brillanti; risulterà chiaro anche che vogliamo essere
          ritenuti colti, o che desideriamo la fama, che vogliamo piacere,
          oppure dare l’impressione di essere ragionevoli e affidabili, essere
          considerati straordinari, o divertenti, o essere ritenuti grandi
          filosofi. Queste motivazioni - e ce ne sono infinite altre - sono
          tutte diverse fra loro, ma non sono affatto mutuamente esclusive.
          Anzi: l’equilibrio che esse raggiungeranno in ognuno di noi andrà a
          costituire il nostro stile; o, se non lo costituirà completamente,
          avrà un grande peso nel dargli una forma e nel caratterizzarne i
          dettagli. Non ha dunque senso disporci a raggiungere un buono stile
          come se questo fosse un fine in sé stesso. Quando lo facciamo, i
          risultati sono sempre sconcertanti, in parte perché si tratta ancora
          di un altro modo di essere più preoccupati di quello che gli altri
          pensano di noi piuttosto che di ciò di cui stiamo scrivendo. Matthew
          Arnold, uno dei pochi critici letterari davvero grandi prodotti dalla
          nostra cultura, ha detto: “La gente pensa che io possa insegnare
          loro a scrivere con stile. Che razza d’idea! Cerca di avere qualcosa
          da dire e dillo nel modo più chiaro possibile. Questo è l’unico
          segreto dello stile”. Sono d’accordo con queste parole dal
          profondo del cuore. Riassumono tutto ciò che mi sta più a cuore
          raccomandare - sia a proposito di ciò che tutti noi per primi
          dovremmo cercare di fare, sia a proposito di ciò che dovremmo
          apprezzare di più negli altri. Scrivi solo se hai qualcosa da dire.
          Dedica quindi tutte le tue capacità a rendere più chiaro possibile
          ciò che scrivi. E abbi sempre l’onestà intellettuale e il coraggio
          di qualificare, se non di nascondere del tutto, la tua ammirazione per
          i lavori di chiunque che, per quanto intelligente, si comporti
          altrimenti.
 
 (Traduzione di Stefano Gattei)
 
 
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