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Reset/A proposito di stile



Bryan Magee



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Questa relazione è apparsa sul numero 60 di Reset

Bryan Magee, intellettuale eclettico (scrittore, critico teatrale e musicale, presentatore televisivo, già deputato laburista), ha studiato presso le università di Oxford e Yale. Ha insegnato al King’s College di Londra ed è stato visiting professor nelle università di Yale, Harvard e Berkeley. È inoltre membro del Queen Mary College di Londra e del Keble College di Oxford. Nei suoi saggi e nei suoi programmi tv ha sempre cercato riaccostare la filosofia all’esperienza quotidiana (di qui anche la sua campagna contro l’astrusità di certa scrittura filosofica, in favore di uno ‘stile’ improntato piuttosto alla chiarezza e all’onestà intellettuale). Il suo più libro noto, Confession of a Philosopher (tradotto in italiano con il titolo L’arte di stupirsi, Milano, Mondadori, 1998), narra dei sui incontri con alcune grandi figure della filosofia del Novecento (su tutti, Karl Popper e Bertrand Russell), e di come questi incontri l’abbiano aiutato a far luce sul mistero dell'esistenza. In italiano è anche apparso, presso Astrolabio, Della cecità, scritto a quattro mani con Martin Milligan.

Questa relazione è stata presentata presso il Senate House dell’Università di Londra, il 26 novembre 1999. Il testo, intitolato “Style in Philosophy”, appare qui per la prima volta in versione integrale

In passato mi capitava più frequentemente di quanto mi succeda ora di imbattermi in gente che dava per scontato che la filosofia fosse una branca della letteratura. Quando ero più giovane, infatti, incontravo spesso persone - intelligenti e colte, ma poco preparate in filosofia - che pensavano che un filosofo fosse qualcuno che dava voce ai suoi atteggiamenti generali nei confronti delle cose, allo stesso modo in cui potrebbe farlo un saggista, o anche un poeta, ma in una maniera più sistematica, e forse anche su scala più ampia: meno supponente di un saggista, meno emotivo di un poeta, ma anche più rigoroso, e forse più imparziale, di entrambi. Per il filosofo, così come per gli altri due, la qualità della sua scrittura era una parte essenziale della cosa davvero importante. Come il saggista e il poeta possedevano un loro proprio stile caratteristico, facilmente identificabile, che era parte integrante di quanto volevano esprimere, così anche il filosofo. E come non avrebbe ovviamente senso dire di qualcuno che era un cattivo scrittore, ma un bravo saggista, un cattivo scrittore ma un bravo poeta, così deve per forza non avere senso dire di qualcuno che è un cattivo scrittore ma un bravo filosofo.

Questo modo di pensare è di certo del tutto sbagliato. Dico “di certo” poiché viene confutato dagli esempi forniti da alcuni fra i più grandi filosofi. Aristotele viene considerato da quasi ogni studente di filosofia uno dei maggiori filosofi di tutti i tempi, e molti pensano sia stato addirittura il più grande; tutto ciò che rimane delle sue opere, però, sono appunti di lezioni, scritti da lui o da un suo allievo. E come ci aspetteremmo da appunti di lezione, sono scritti in uno stile pesante, del tutto privo di merito letterario. Contengono però ugualmente una filosofia splendida, e hanno fatto di Aristotele una delle figure chiave della civiltà occidentale per gran parte degli ultimi duemilacinquecento anni. Il buon senso comune ha sempre sostenuto che il maggior filosofo dopo i Greci sia stato Immanuel Kant, ma non credo che qualcuno abbia mai considerato Kant un bravo scrittore, e tantomeno abbia ritenuto che avesse un grande stile: a chiunque abbia effettivamente letto le sue opere un’idea di questo genere risulterebbe tanto difficile da comprendere quanto alcune parti della sua deduzione trascendentale delle categorie. Il padre fondatore dell’empirismo moderno e della moderna teoria politica liberale, John Locke, è certamente una delle figure più importanti e influenti nella storia della filosofia occidentale, ma scrive in un modo che i più sembrano ritenere noioso e prosaico.

Questi esempi - uno per ognuna delle tre lingue più ricche in filosofia - bastano per affermare che la qualità della prosa in cui leggiamo una teoria filosofica non è legata necessariamente al suo valore in quanto teoria filosofica. La qualità letteraria della prosa, se mai ne esiste una, non ha assolutamente alcun legame con la filosofia espressa. Certo, non esiste alcuna legge che dice che una teoria filosofica non può essere scritta bene, e alcuni filosofi sono stati scrittori molto bravi - una mezza dozzina addirittura grandi scrittori; ma questo non contribuisce affatto a renderli filosofi migliori. Quella di Platone viene ampiamente considerata la più raffinata prosa greca giunta fino a noi, ma questo non fa di lui un filosofo migliore di Aristotele, e chi lo ritiene tale non lo fa certo per il suo stile. In ogni modo, è accaduto che le opere di Aristotele pubblicate quando egli era in vita siano state ammirate per la loro bellezza nell’intero mondo antico. Cicerone descrisse la prosa di Aristotele come un “fiume d’oro”. Ma ora è andato tutto perduto, e ci rimangono soltanto degli appunti basati su circa un quarto dei suoi scritti. Eppure le filosofia contenuta in questi appunti ha avuto un’importanza incalcolabile. Nel mondo di lingua tedesca Schopenhauer e Nietzsche sono considerati fra i migliori scrittori di prosa - forse i migliori, a parte Goethe; ma questo non li rende affatto dei filosofi migliori di Kant.

Certo, la qualità della prosa fa la differenza per gli studenti e i potenziali lettori. Alcuni filosofi sono un piacere a leggersi; oltre a quelli che ho ricordato abbiamo, in lingua inglese, anche Berkeley e Hume; in lingua francese Descartes, Pascal e Rousseau; Sant’Agostino in latino. Tutti costoro rimangono piacevoli da leggere anche in traduzione. Il ventesimo secolo ha visto filosofi insigniti, credo meritatamente, del premio Nobel per la letteratura - Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre, Henri Bergson. Certo, a parità di altre condizioni, è più attraente studiare o specializzarsi in filosofi come loro che in quanti hanno invece uno stile pesante. Ciononostante, questo non fa di loro dei filosofi migliori.

Dobbiamo allora dire che lo stile non conta in filosofia? Non posso spingermi ad affermare tanto. Credo infatti che tanto la chiarezza quanto la capacità di comunicazione rivestano una grande importanza. Mi sembra una vera e propria tragedia culturale che le opere di Kant, per quanto enorme sia il loro valore e l’influenza da esse esercitata, vengano lette da così poche persone a parte gli studenti di filosofia e i loro insegnanti. Tali opere mi sembrano costituire la strada che conduce alle più alte conquiste della filosofia nel mondo moderno - in un modo non molto diverso da quello in cui l’analisi è la strada che porta alla matematica di alto livello. Ma è improbabile che anche un lettore eccezionalmente intelligente ne ricavi molto, a meno che non possieda un bagaglio filosofico davvero molto ampio, oppure non riceva, almeno all’inizio, l’aiuto di un insegnante o di una guida. Una volta Macaulay, dopo aver ricevuto la prima traduzione inglese della Critica della ragion pura, scrisse sul proprio diario: “ho provato a leggerla, ma l’ho trovata completamente incomprensibile, come se fosse stata scritta in sanscrito. Non una parola è riuscita a trasmettermi qualcosa di simile a un’idea, a parte una citazione da Persio in latino. Mi sembra che dovrebbe essere possibile spiegare una vera teoria metafisica in parole che io sia in grado di comprendere. Riesco a capire Locke, Berkeley, Hume, Reid e Stewart. Posso capire gli Accademici di Cicerone, e gran parte di Platone, e mi sembra quantomeno strano che in un libro sugli elementi della metafisica […] io non sia in grado di comprendere una sola parola”.

Chiunque abbia studiato la filosofia con serietà comprenderà l’imbarazzo di Macaulay. Si spiega così il motivo per cui non potremmo mai aspettarci che la filosofia di Kant diventi parte del bagaglio culturale di ogni persona colta e intelligente allo stesso modo in cui, per esempio, la filosofia di Descartes è parte del bagaglio culturale di ogni francese colto. Sebbene il suo valore in quanto filosofia e la sua influenza all’interno del mondo filosofico accademico non siano modificate dal modo intrattabile in cui è scritta, la sua posizione nell’ambito della nostra cultura media e l’influenza che essa è quindi in grado di esercitare sulle menti delle persone intelligenti in generale viene drasticamente ridotta, e questo è tanto sconcertante quanto non necessario.

A proposito di chiarezza e di comprensibilità in filosofia, sembrano esserci dei cicli, o delle oscillazioni simili a quelle di un pendolo, così come ce ne sono in molti altri ambiti. Dopo un periodo in cui ha dominato l’oscurità, o almeno essa è stata accettata professionalmente, si ha solitamente una reazione a essa, e una nuova generazione di filosofi cercherà coscientemente di scrivere in modo più chiaro. In seguito, però, con il passare del tempo, la chiarezza passerà di moda, decadendo ancora una volta in oscurità, fino a quando non si avrà una nuova reazione. Penso di aver vissuto per gran parte di uno di questi cicli nel corso della mia vita adulta. So che la Gran Bretagna è una piccola isola, e mi rendo conto che un esempio tratto soltanto da questo Paese suonerà campanilistico, ma la limitatezza stessa della sua portata ne esalterà il contenuto. Quando mi iscrissi all’università, nel 1949, i filosofi che vivevano allora in Gran Bretagna, e le cui opere venivano lette da tutti coloro che erano davvero interessati a quegli argomenti, erano Bertrand Russell, George E. Moore, Ludwig Wittgenstein, Karl Popper, Isaiah Berlin, John L. Austin, Gilbert Ryle e Alfred J. Ayer. Tutti, tranne Wittgenstein e Austin, scrivevano in un modo che risultava interessante per tutte le persone intelligenti disposte a dedicarvisi, e gran parte delle loro opere venivano in effetti lette più al di fuori del mondo accademico che al suo interno. Russell, in particolare, aveva un’enorme influenza sulla pubblica opinione di stampo liberale, e nei suoi ultimi anni divenne un’icona per i giovani radicali. Lui e Ayer scrissero molti articoli sui giornali e divennero famosi per le loro trasmissioni radiofoniche, non soltanto per il fatto di rendere noti i loro punti di vista su generiche questioni d’attualità in quel momento, comprese tematiche relative ai modi di comportamento e alla morale, ma anche, e forse soprattutto, per la loro difesa di un certo modo di affrontare le varie tematiche. Moore costituì probabilmente la maggiore influenza intellettuale singola sul ben noto gruppo di Bloomsbury, che raccoglieva scrittori e artisti, e su molti dei loro devoti seguaci. Popper ebbe una grande influenza sulle successive generazioni di politici e anche su vari scienziati, molti dei quali, nel tempo, hanno vinto il premio Nobel.

Oggi i successori di questi filosofi, coloro che occupano le loro cattedre o detengono le loro posizioni in ambito accademico, non rivestono affatto ruoli così ampi. Nel complesso i loro scritti non risultano attraenti, e forse neppure accessibili, per i non-filosofi, e non si propongono nemmeno di esserlo - il che vuol dire che, in pratica, i loro scritti sono in gran parte rivolti a loro stessi. In tutta onestà bisogna tenere presente che l’espansione subita, secondo modalità diverse, dall’educazione accademica negli ultimi cinquant’anni all’interno del mondo sviluppato, ha dato loro un pubblico di professionisti molto più ampio di quello che i loro colleghi avevano prima a disposizione. Rimane però il fatto che essi non sembrano aspettarsi (e neppure volere) che i loro scritti vengano letti se non dai loro colleghi o dai loro studenti. Non solo: quanti di noi sono loro colleghi, in grado di leggere e di comprendere quasi tutto ciò che essi scrivono, cercherebbero invano se andassero alla ricerca, nei loro scritti, delle caratteristiche stilistiche di un Platone o di uno Hume, o delle qualità presumibilmente richieste per vincere il premio Nobel per la letteratura. La verità è, in effetti - e molti dei presenti possono confermare tutto questo in base alla loro conoscenza e alla loro esperienza - che molti dei maggiori filosofi di oggi vengono fatti oggetto, in privato, delle lamentele dei loro stessi colleghi per la sgradevolezza della loro scrittura. Stando al dizionario di filosofia di Daniel Dennett, pubblicato in modo non ufficiale, ma fatto ampiamente circolare, uno di loro ha dato il proprio nome a un modo di scrivere in cui più lo scrittore va avanti in una frase, più sembra allontanarsi dalla sua fine.

So per esperienza personale che quando queste sensazioni vengono espresse all’interno di circoli professionali, la risposta che quasi sempre suscitano è che tali cambiamenti nel modo di scrivere sono stati causati dal cambiamento della filosofia stessa - che, negli ultimi cinquant’anni, l’analisi concettuale ha raggiunto un’accuratezza così alta, e l’analisi logica un tale livello di tecnicismo, che è irrealistico, al giorno d’oggi, aspettarsi un pubblico se non di specialisti, e che è quindi irrealistico cercare di scrivere per un pubblico di non specialisti. Se soltanto quanti sono tecnicamente preparati potranno comunque essere in grado di leggere le vostre cose, allora risparmierete tempo e fatica a loro e a voi se quando scrivete date il loro livello di bagaglio tecnico per scontato.

Non credo sia un argomento valido. Assume infatti un’idea alquanto ristretta e indifendibile di quali siano e di quali debbano essere le preoccupazioni di chi fa filosofia. Anche se l’accettassimo, tuttavia, credo che l’argomento rimanga non valido. Quando ho elencato i nomi dei maggiori esponenti della precedente generazione di filosofi, soltanto di due fra loro ho ricordato come fossero soliti scrivere in un modo che risultava inaccessibile ai non specialisti. Si trattava di Austin e di Wittgenstein. Ciononostante, li ritengo, ognuno a suo modo, bravi scrittori. Nelle sue analisi concettuali Austin riuscì a esprimere distinzioni di rara sottigliezza in una prosa sempre molto chiara, e qualche volta anche arguta, che i suoi colleghi trovavano un piacere leggere. Era l’impresa stessa, non lo stile, che tagliava fuori tutti coloro che non erano specialisti. Per quanto riguarda Wittgenstein, sono tentato di chiamarlo un grande stilista. Non sono certo di lingua madre tedesca, e questo diminuisce in un certo modo il valore del mio giudizio in materia, ma nel Tractatus ritrovo alcuni fra i passi più fulgidi e irresistibili di prosa in lingua tedesca che abbia mai incontrato. Quelle frasi sconcertanti brillano di luce propria nella mente di chi le legge, e molte vi rimangono per il resto della vita. In questo caso, la barriera, per i non specialisti, è costituita dalla difficoltà di capire che cosa molte di esse significhino; ma la prosa in sé stessa è incandescente. Le frasi nelle Ricerche filosofiche non hanno la stessa fiera intensità, ma si distinguono comunque notevolmente per lo stile. Non riesco a capire come le cose di cui si occupano oggi i nostri maggiori filosofi siano molto più sottili e sofisticate di quelle di Wittgenstein al punto che, a differenza delle sue, se ne possa parlare quasi solo in frasi complicate, fittamente ingarbugliate e prive di tono.

Quando in effetti guardiamo indietro alla storia della filosofia, troviamo che durante i periodi ciclici di inaccessibilità viene sempre avanzata la stessa risposta difensiva. Nella prima metà del diciannovesimo secolo, la filosofia era in voga nei Paesi di lingua tedesca più che altrove; la dominavano pensatori come Fichte e Schelling, e più tardi, in modo del tutto opprimente, Hegel. Ognuno di loro rimane, a tutt’oggi, un sinonimo di oscurità. Ai loro tempi la risposta del tutto abituale in difesa di tale oscurità era che i loro lavori erano meravigliosamente profondi: essi conducevano nientemeno che al disvelamento dei segreti dell’universo; era dunque impossibile che i loro scritti fossero diretti e chiari: al contrario, era necessario che il lettore si trovasse di fronte a difficoltà quasi del tutto impenetrabili. Aspettarsi qualcosa di meno era da ingenui, da filistei intellettuali. Intere generazioni di filosofi professionisti contemporanei (quasi tutti ora dimenticati) scrissero in modo simile, e offrirono la stessa giustificazione. Abbiamo brevi sprazzi di queste figure ormai dimenticate all’interno di contesti non filosofici; se ne trova uno nell’autobiografia di Richard Wagner. Egli aveva studiato a Dresda e a Leipzig negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, e ricordando i giorni passati da studente, scrive: “frequentavo le lezioni di estetica di uno dei professori più giovani, un uomo chiamato Weiss […] che avevo conosciuto a casa di mio zio Adolf […] In quell’occasione avevo assistito a una conversazione fra loro due a proposito di filosofia e di filosofi che mi aveva profondamente impressionato. Ricordo che Weiss […] giustificava la molto criticata mancanza di chiarezza nel suo stile espositivo sostenendo che i problemi più profondi dello spirito umano non potevano essere risolti per il beneficio delle masse. Questa massima mi sembrava del tutto plausibile, e la presi come principio guida per tutto ciò che scrivevo. Ricordo come mio fratello maggiore Albert si fosse particolarmente irritato per lo stile di una lettera che una volta gli avevo scritto su incarico di mia madre, e mi avesse espresso il timore che io stessi perdendo il senno”. Un altro dei miei passi preferiti, che coinvolge ancora una volta Wagner, è tratto non dalla sua autobiografia, ma da quella del pittore Friedrich Pecht. Scrivendo dei giorni passati insieme a Wagner a Dresda, negli anni Quaranta, dice: “Un giorno, quando passai a fargli visita, lo trovai che bruciava di passione per la Fenomenologia di Hegel, che stava studiando proprio in quel momento; mi disse, con la sua consueta stravaganza, che si trattava del miglior libro mai pubblicato. Per dimostrarmelo mi lesse un passaggio che lo aveva particolarmente colpito. Dato che non riuscivo del tutto a seguirlo, gli chiesi di rileggerlo, e dopo che lo ebbe fatto nessuno di noi riusciva a capirlo. Me lo lesse una terza volta, e una quarta, fino a quando, alla fine, ci guardammo l’un l’altro e scoppiammo a ridere”.

Avrete forse notato come Wagner abbia usato parole come “molto criticata” in riferimento allo stile di un filosofo ora sconosciuto, il professor Weiss; e alla fine, come sappiamo, si ebbe una reazione anche da parte dei filosofi nei confronti di questo modo di scrivere di filosofia. Schopenhauer fu particolarmente caustico a tale proposito. I suoi libri contengono molti passaggi con ingiurie smodate nei confronti di Fichte, di Schelling e di Hegel per il crimine da loro commesso. Dei filosofi di professione più ordinari del tempo, quali Weiss, Schopenhauer scriveva: “Per nascondere la brama di idee concrete, molti si costruiscono da soli un imponente apparato di parole composte, di arabeschi di locuzioni intricate, di periodi lunghissimi, di nuove e sconosciute espressioni, che nel complesso formano un gergo estremamente difficile, che dà l’impressione di essere molto colto. Eppure con tutto questo essi non dicono assolutamente nulla; non ne ricaviamo alcuna idea nuova, né la nostra intuizione ne risulta aumentata”. Egli non poteva trovare nulla nella natura della filosofia, o nelle caratteristiche della lingua tedesca, per giustificare una scrittura di tal genere, e in assenza di un qualunque modello accettabile per scrivere la filosofia in tedesco, si dispose a scrivere nel modo in cui Hume aveva scritto di filosofia in inglese. Dopo i grandi Idealisti tedeschi tutti i maggiori filosofi della metà e del tardo diciannovesimo secolo - Kierkegaard, Schopenhauer, Marx (se lo si considera almeno in parte un filosofo) e Nietzsche - scrivevano rifiutando consapevolmente, in una certa misura e in modi diversi, lo stile di Hegel, e furono tutti scrittori straordinari. Non riesco a pensare come qualcuno che conosca davvero gli scritti di Kiekegaard e di Schopenhauer possa affermare, in nessun modo, che la loro chiarezza e l’eccellenza del loro stile ne impedisca la profondità, la sottigliezza o la raffinatezza (sebbene io veda molto bene come tali accuse possano forse essere rivolte a Marx e a Nietzsche).

In un ambito più ristretto, in Gran Bretagna, si ebbe un ciclo non molto diverso da questo fra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo. C’era stato un lungo periodo in cui l’ortodossia dominante fra i filosofi era una forma di neo-hegelismo. Alcuni nomi associati a questo movimento sono quelli di Green, Bosanquet, McTaggart e Bradley. Il loro modo di scrivere consisteva, in generale, nel tenersi in rapporto stretto con Hegel. Bertrand Russell e George E. Moore vennero educati in questa tradizione. Si tende oggi a dimenticare che il primo scritto indipendente di Russell fu una dissertazione in stile neo-hegeliano sui fondamenti della geometria - un lavoro che egli in seguito ripudiò. Col passare del tempo lui e Moore si ribellarono chiaramente contro il loro stesso retaggio: può forse sorprendere sapere che fu Moore a guidare la “rivolta”, e Russell lo seguì. Una parte essenziale del programma rivoluzionario proclamato da questi giovani ribelli consisteva nella necessità di chiarezza nella scrittura filosofica. Si trattava di un requisito che si sforzarono ammirevolmente di acquisire (Russell, in particolare, divenne uno scrittore eccellente), ed ebbero successo nel persuadere un’intera generazione di filosofi a seguirli. Come ha detto Stuart Hampshire, parlando dello stile di Russell: “è una questione di non offuscare, di non lasciare alcun margine di incertezza; del dovere di essere chiari, così che gli errori possano risultare evidenti; di non essere mai pomposi o sfuggenti. È una questione di non rabberciare in qualche modo i risultati, di non usare mai la retorica per coprire eventuali buchi, di non usare mai un’espressione che a seconda della convenienza del momento oscilli, per così dire, fra due o tre posizioni, lasciando non chiara quella cui ci si sta riferendo”. Karl Popper una volta mi disse che quando si trovò a dover scrivere di filosofia in inglese, che non era la sua lingua madre, prese Russell come modello, allo stesso modo in cui Schopenhauer aveva adottato Hume come suo; e mi disse qualcosa, a questo proposito, che non ho mai dimenticato: “non è soltanto una questione di chiarezza, ma di etica professionale”.

A mio parere Schopenhauer è uno fra i più penetranti diagnostici delle ragioni di fondo della scarsa chiarezza della scrittura filosofica. Egli l’ha fatta risalire all’unione di due sviluppi altrimenti separati. Il primo è costituito dalla professionalizzazione della filosofia. Ora diamo la cosa per scontata, e può stupirci, ma per centinaia di anni dopo la fine del Medioevo nessun grande filosofo era un accademico. Durante questo periodo le università ben consolidate hanno continuato a insegnare filosofia, ma tutti i grandi filosofi erano al di fuori del mondo accademico: Hobbes, Descartes, Spinoza, Leibniz, Locke, Berkeley, Hume, Rousseau - nessuno di loro era un accademico né insegnava filosofia. Come ha detto Schopenhauer: “Pochissimi filosofi sono mai stati professori si filosofia, e un numero relativamente piccolo di professori di filosofia sono mai stati filosofi”. Vennero offerte cattedre sia a Spinoza sia a Leibniz, ma entrambi rifiutarono. Hume era candidato per due cattedre, ma non ne ottenne neppure una. Il primo incontestabilmente grande filosofo dopo il Medioevo a essere un professore universitario fu Kant - e, come ha sottolineato Schopenhauer, non tenne mai lezioni sulla propria filosofia. Kant e i famosi Idealisti erano professori, ma dopo di loro i maggiori filosofi della metà e del tardo diciannovesimo secolo, quelli che ho elencato poco fa in un altro contesto - lo stesso Schopenhauer, ma anche Kierkegaard, Marx e Nietzsche - non erano accademici, e non lo era neppure il più grande filosofo inglese del diciannovesimo secolo, John Stuart Mill. Il ventesimo secolo è stato il primo secolo dopo il Medioevo nel quale quasi tutti i maggiori filosofi sono stati professori universitari. La professionalizzazione della filosofia è dunque tanto recente quanto debole, se paragonata alla sua storia.

In prossimità dell’inizio di questo processo di professionalizzazione, Schopenhauer intuì che era destinato ad avere alcune conseguenze indesiderabili. Non ci si deve aspettare che ci sarà più di un piccolo gruppetto di pensatori davvero originali in ogni dato periodo - o in ogni dato secolo, si sarebbe tentati di dire - come potrebbero allora raggiungere la fama tutti gli altri membri della professione? In quanto accademici di carriera, per il proprio sostentamento essi dipendono dagli stipendi e dalle pensioni che ricevono dalle loro università, e il livello di questi dipende, a sua volta, dalla posizione che essi occupano. Molti di loro hanno moglie e figli da mantenere. In ogni caso, come capita normalmente alle persone ambiziose in una qualunque professione, vogliono fare strada, raggiungere il riconoscimento dei colleghi, ottenere posizioni di rilievo e titoli prestigiosi. Ma se tutto questo deve succedere, allora le persone interessate devono dare una certa impressione di sé. Lasciare un segno diventa dunque essenziale per le loro carriere. Quando scrivono in vista della pubblicazione la loro principale preoccupazione diventa quella di lasciare un segno, di persuadere i colleghi delle proprie capacità professionali. Dato però che è nella natura delle cose che soltanto pochi siano pensatori creativi e davvero significativi, come è possibile tutto questo?

È a questo punto che entra in gioco il secondo dei due sviluppi convergenti messi in evidenza da Schopenhauer. Ci sta di fronte l’esempio di Kant, sicuramente un grande filosofo: Schopenhauer tendeva a considerarlo il più grande filosofo mai esistito, con la sola possibile eccezione di Platone. Ma la sua filosofia è così difficile da capire che quasi nessuno può comprenderla alla prima lettura. Questo ha condizionato il pubblico intelligente di lingua tedesca a lui contemporaneo e del periodo immediatamente successivo, facendogli accettare il fatto che per la prima volta un’opera filosofica che risultasse incomprensibile per loro fosse ciononostante genuinamente profonda e costituisse in effetti l’opera di un genio, e che se non riuscivano a capirla non era colpa dell’autore, ma loro: il libro era più profondo di quanto loro non fossero in grado di comprendere, e la loro incapacità di comprenderlo era una misura della sua profondità. Questa nuova situazione offrì una doppia opportunità a un accademico senza scrupoli, desideroso di essere considerato un genio: poteva scrivere in un maniera pseudo-kantiana che, se sufficientemente incomprensibile, sarebbe stata accettata come profonda proprio per quella ragione, mentre la sua oscurità, attentamente curata, avrebbe nascosto ai lettori il fatto che non veniva detto granché. La prima persona ad approfittare di questa possibilità, stando a Schopenhauer, fu Fichte, che scrisse un’opera filosofica - la sua opera prima - intitolata Ricerca di una critica di ogni rivelazione, e la pubblicò anonima presso lo stesso editore di Kant nel 1792. A causa dello stile, dell’argomento, del titolo, della data, dell’editore, e dell’anonimato del suo autore, si credette che essa costituisse la quarta Critica di Kant, e venne acclamata di conseguenza. Quando si seppe che era opera di Fichte, egli divenne improvvisamente famoso - e ottenne la cattedra di filosofia all’Università di Jena. Questo fatto mostrò la strada per le successive generazioni di sedicenti accademici: un metodo per conquistare cattedra e approvazione è scrivere con un grado di oscurità che convinca il lettore della profondità di ciò che viene trattato, nascondendogli, al contempo, la sua vacuità. Schopenhauer descrisse così lo sviluppo appena iniziato: “Fichte fu il primo a cogliere e a utilizzare questo privilegio; Schelling perlomeno lo eguagliò, e una schiera di affamati imbrattacarte senza intelletto e onestà presto li superarono entrambi. Ma la più grande sfrontatezza nel preparare pure frasi prive di senso, nel mettere insieme, in qualche modo, trame di parole assurde ed esasperanti, quali se ne erano sentite soltanto nei manicomi, apparve alla fine in Hegel”.

Ritengo che l’analisi che Schopenhauer fa di Fichte, di Schelling e di Hegel sia piuttosto corretta, ma penso sia incompleta. Quei filosofi stavano certamente facendo quello che Schopenhauer disse che stavano facendo: scrivere in un modo oracolare, incantatorio, pensato per ammaliare i lettori e portarli a confondere il semplice con il complicato, e anche il più evidente dei luoghi comuni per qualcosa di così profondo da fare storia. A mio giudizio, però, si trattava di filosofi di valore, che avevano qualcosa da dire ma che lo dicevano in un modo assolutamente disonesto. Erano gli altri membri della professione - tutte quelle schiere e schiere di loro contemporanei i cui nomi sono stati ora dimenticati - che scrivevano allo stesso modo ma non avevano nulla da dire, che meritano più di tutti i giudizi taglienti di Schopenhauer che ho citato prima.

Non dovremmo mai cadere nella trappola di supporre che per il fatto che qualcuno fa ricorso ai trucchi del ciarlatano non possa avere un talento genuino, anche senza essere un genio. Ci sono vari aspetti della vita in cui non è raro che le due cose si presentino insieme: nella recitazione, nella direzione d’orchestra, e forse nelle arti in genere; nella leadership politica - e in effetti in tutte le figure trainanti dei vari aspetti della vita; certo non parlo di tutti i casi, ma qualche volta succede. Guardo a Fichte, a Schelling e a Hegel come a persone di questo tipo. E in effetti Fichte, a un certo punto della sua carriera, scoprì il gioco. Perse il suo lavoro all’Università di Jena e credette di dover guadagnare per sopravvivere, scrivendo per un pubblico non accademico per tutto il resto della sua vita; scrisse allora un libro teso a far conoscere al pubblico le idee centrali della sua filosofia. Il libro, pubblicato nel 1800, è intitolato Die Bestimmung des Menschen, tradotto in italiano come La missione dell’uomo. È un libro succoso, scritto in un modo completamente diverso da quello dei suoi primi lavori: invero, è scritto superbamente, in una prosa chiara e semplicemente profonda. Penso sia un grande libro, sufficiente, da solo, a porre Fichte fra i maggiori filosofi, e di grande merito letterario. Era dunque in grado di scrivere così, se avesse voluto. Sembrava che tutto dipendesse da quelli che dovevano essere i suoi lettori e da quello che sperava, così facendo, di ottenere.

Il modello di Fichte ci aiuta a comprendere uno dei principali sviluppi della vita accademica occidentale nel ventesimo secolo - dopo la seconda guerra mondiale, in effetti. Il settore dell’educazione superiore si è moltiplicato molte volte in dimensioni, e questo ha reso l’insegnamento superiore una delle professioni di maggiore rilievo, i cui esponenti contano circa centomila unità. Ogni insegnamento accademico ha dato vita a una professione numerosa, quasi tutti i membri della quale sono ansiosi di fare carriera, ma quasi ognuno di loro - a differenza di Fichte - non ha un talento significativo. Sarebbe un errore aspettarsi che tutti i professori universitari di filosofia siano anche buoni filosofi, allo stesso modo in cui sarebbe sbagliato aspettarsi che tutti i professori di letteratura siano buoni poeti, romanzieri o drammaturghi. Certo, in ognuno di questi casi alcuni lo sono, ma sarebbe scorretto aspettarsi che lo siano anche tutti gli altri. Ma in questi tempi di “pubblica o muori”, come potrebbero fare carriera tutti costoro? Hanno solo una gamma limitata di possibilità. Possono scrivere sul lavoro degli altri, ed è la strada percorsa dai più. Se intendono produrre opere originali, possono scegliere un’area rimasta trascurata, così che quasi tutto quello che diranno costituirà un contributo. Oppure possono rimanere su un terreno familiare ed evidenziare delle distinzioni non ancora viste fino a quel momento, per poi continuare a scrivere su tale argomento, da loro recentemente scoperto: tutto questo si traduce in scritti sempre più numerosi su argomenti sempre più scarsi, in una crescita in proporzione geometrica senza alcuna fine logica, e che crea gran parte di quella sempre crescente specializzazione che conosciamo tutti così bene. Tutte queste opzioni vengono perseguite non tanto per il loro valore in sé, ma per far fare carriera a chi scrive di tali argomenti. In questo momento, mentre vi parlo, vengono scritti libri e articoli nella speranza che aiutino ad assicurare un avanzamento in carriera, o che almeno accrescano la fama dei loro autori. Gli argomenti vengono scelti perché sono di moda, o per compiacere particolari professori o dipartimenti. I progetti di ricerca vengono formulati in modo tale da attrarre i finanziamenti. In ogni caso, l’obiettivo è quello di fare un’impressione favorevole a qualcuno, allo scopo di ottenere un avanzamento professionale. Questo desiderio di fare buona impressione è diventato la rovina del modo accademico di scrivere, e costituisce l’elemento principale di corruzione dello stile.

Il mezzo cui uno scrittore ricorre per impressionare il lettore dipende almeno in parte dall’argomento. Gli storici, per esempio, ogni tanto vogliono dare l’impressione di conoscere un sacco di cose e di avere un’ottima padronanza dei dettagli, così possono essere tentati di scrivere in modo da mostrare tutto ciò. D’altra parte gli studenti di letteratura vogliono ancor più spesso dare l’impressione che le loro risposte agli esami scritti siano sottili e raffinate, facendo credere che loro vedono cose che gli altri non vedono, e saranno quindi tentati di scrivere in modo tale da dimostrare tutto ciò. La chiave per lo stile è data dalla motivazione. Per quale ragione si scrive? Qualunque sia, essa determinerà non soltanto il modo in cui si scriverà, ma anche l’argomento di cui si scriverà. Troppo spesso, temo, i filosofi vogliono dare l’impressione di essere eccezionalmente intelligenti, e scrivono in modo tale da fare sfoggio della loro intelligenza: la sottigliezza delle distinzioni che essi sono così bravi da tracciare, la complessità delle argomentazioni che sono capaci di usare nel modo migliore, la penetrazione delle analisi che sanno così bene elaborare. Come ci ha ricordato Schopenhauer, però, la motivazione si rivela sempre. È un fatto piuttosto misterioso, ma ciononostante un fatto, che le motivazioni di uno scrittore fanno sempre capolino fra le sue righe, anche quando egli tenta abilmente di nasconderle. Somerset Maugham - che, nonostante i suoi limiti come scrittore, sapeva fare molto bene il proprio mestiere, ed era consapevole di essere molto abile - ha espresso tutto questo in modo molto vivido, dicendo che uno scrittore non può decidere l’impressione che di sé stesso dà ai suoi lettori più di quanto non possa saltare sulla propria ombra. Ci sono poi pochi dubbi sul fatto che alcune delle motivazioni per le quali ognuno di noi scrive sono inconsce. Il risultato di tutto questo è che, lo vogliamo o meno, il nostro stile rivela i nostri valori.

Ci sono oggi molti filosofi di professione di cui posso dire, con una certa sicurezza, che non saranno mai in grado di scrivere in modo chiaro. Sono incapaci di farlo poiché hanno paura della chiarezza. Hanno paura che se scrivono chiaramente la gente penserà che quello che dicono è ovvio. E vogliono dare l’impressione di essere maestri di cose difficili. Sono ansiosi che tutto ciò che scrivono venga visto nella sua piena difficoltà, così che sia chiaro quanto loro sono bravi a padroneggiare tutto ciò. Quando ho realizzato le mie tre serie di trasmissioni sulla filosofia, due per la televisione e una per la radio, ho scoperto che soltanto alcuni filosofi professionisti - soprattutto gli esponenti di maggiore rilievo quali Quine, Chomsky, Popper, Berlin e Ayer - erano disposti a rivolgersi a un pubblico generico in una maniera semplice e diretta. La maggior parte degli altri era spaventata all’idea che se lo avesse fatto avrebbe perso la propria reputazione di fronte ai colleghi. Per loro restava sempre importante il fatto che ciò che facevano in quanto professionisti risultasse difficile, e questo era sicuramente l’esatto contrario di ciò che io chiedevo loro in quelle occasioni, in particolare perché sapevo che una difficoltà di quel tipo era del tutto inutile.

È essenziale distinguere fra difficoltà e mancanza di chiarezza. Filosofi come Platone, Hume e Schopenhauer costituiscono un esempio di come sia possibile scrivere in modo chiaro di problemi della massima difficoltà e profondità. Tale chiarezza, agli occhi del lettore intelligente, non fa sì che i problemi appaiano semplici e facili da risolvere: al contrario, essa fa sì che le difficoltà siano completamente comprensibili. Supporre che se un problema è tortuosamente difficile esso deve venire necessariamente affrontato con una prosa “tortuosa” è commettere un errore logico - un errore che il Dr Johnson ha parodiato con la battuta: “Chi conduce dei buoi grassi deve essere anch’egli grasso”.

Certo, una prosa potrebbe essere poco chiara per motivi diversi da quelli cui ho accennato. Uno, piuttosto comune, è che lo stesso scrittore potrebbe essere confuso. Un altro è che è stato pigro e che non ha pensato a sufficienza ai problemi che lo affliggevano prima di mettersi a scrivere. Un altro ancora è che, per impazienza, egli ha dato alle stampe quella che avrebbe dovuto considerare la sua penultima bozza - Hume, nella sua autobiografia, dice che si tratta di un errore piuttosto comune, un errore nel quale egli stesso pensa di essere incorso. Si tratta, in effetti, dell’errore commesso da Kant con le sue tre Critiche, in questo caso perché temeva di morire prima di completarle - una paura fondata, in un periodo in cui solo pochissime persone superavano i sessant’anni. Il punto è, però, che nessuna di queste scuse giustifica un’approvazione di questo comportamento. Sono tutte scuse deplorevoli. Il fatto che qualcosa è poco chiaro non dovrebbe mai, mai e poi mai aumentare il nostro rispetto nei suoi confronti. Possiamo rispettarlo comunque, nonostante la sua scarsa chiarezza, ma l’oscurità è sempre qualcosa di negativo, mai di positivo.

Si trova un buono stile, credo, soltanto in quei casi - ma non necessariamente in tutti, come dimostra il caso di Kant - in cui chi scrive è interessato soprattutto al suo argomento, non a sé stesso e a ciò che altri penseranno di lui. Soltanto allora tutto ciò che riguarda il suo modo di scrivere sarà subordinato al problema che sta affrontando. Lo stile riguarda dunque l’onestà dell’intento: chi ha un buono stile in filosofia è sempre qualcuno che si dedica completamente a ciò di cui scrive, dimenticandosi di sé. Il fatto stesso che egli stia scrivendo qualcosa indica la sua volontà di comunicare con altri per ragioni relative al suo argomento, non per ragioni sue personali. La sua prosa non verrà intralciata da tutti quei segni e da quegli indicatori il cui vero scopo è indicare qualcosa relativo a sé stesso: sarà determinato anche a eliminare tutto ciò che è relativo a sé stesso e che costituisce un ostacolo al pensiero, alla soluzione dei problemi e alla comunicazione. Il suo scopo sarà massimizzare la chiarezza nella formulazione dei problemi e nella comunicazione di tutto ciò che è legato alle sue idee. Se si sbaglia, vorrà essere il primo a rendersene conto, e scriverà quindi in modo tale da facilitare la scoperta dell’errore. Gilbert Ryle, un vero stilista tra i filosofi contemporanei, ha detto: “Penso che le argomentazioni di un filosofo, quando sono condotte ricorrendo a termini tecnici, tendano a eludere il lettore. È molto più facile prendere in castagna un filosofo, compreso sé stesso, se egli non sta ricorrendo a termini tecnici sconosciuti al lettore; la cosa più importante a proposito delle argomentazioni filosofiche è che dovrebbe essere il più facile possibile per gli altri (e in particolare per lui stesso) cogliere in castagna l’autore, se è possibile farlo”.

Lo stile è dunque un prodotto collaterale, un prodotto collaterale delle nostre motivazioni. Siamo stati giustamente messi in guardia dal fatto che non è possibile nascondere le nostre motivazioni. Non soltanto risulterà chiaro se ciò che vogliamo è che la gente ci ritenga brillanti; risulterà chiaro anche che vogliamo essere ritenuti colti, o che desideriamo la fama, che vogliamo piacere, oppure dare l’impressione di essere ragionevoli e affidabili, essere considerati straordinari, o divertenti, o essere ritenuti grandi filosofi. Queste motivazioni - e ce ne sono infinite altre - sono tutte diverse fra loro, ma non sono affatto mutuamente esclusive. Anzi: l’equilibrio che esse raggiungeranno in ognuno di noi andrà a costituire il nostro stile; o, se non lo costituirà completamente, avrà un grande peso nel dargli una forma e nel caratterizzarne i dettagli. Non ha dunque senso disporci a raggiungere un buono stile come se questo fosse un fine in sé stesso. Quando lo facciamo, i risultati sono sempre sconcertanti, in parte perché si tratta ancora di un altro modo di essere più preoccupati di quello che gli altri pensano di noi piuttosto che di ciò di cui stiamo scrivendo. Matthew Arnold, uno dei pochi critici letterari davvero grandi prodotti dalla nostra cultura, ha detto: “La gente pensa che io possa insegnare loro a scrivere con stile. Che razza d’idea! Cerca di avere qualcosa da dire e dillo nel modo più chiaro possibile. Questo è l’unico segreto dello stile”. Sono d’accordo con queste parole dal profondo del cuore. Riassumono tutto ciò che mi sta più a cuore raccomandare - sia a proposito di ciò che tutti noi per primi dovremmo cercare di fare, sia a proposito di ciò che dovremmo apprezzare di più negli altri. Scrivi solo se hai qualcosa da dire. Dedica quindi tutte le tue capacità a rendere più chiaro possibile ciò che scrivi. E abbi sempre l’onestà intellettuale e il coraggio di qualificare, se non di nascondere del tutto, la tua ammirazione per i lavori di chiunque che, per quanto intelligente, si comporti altrimenti.

(Traduzione di Stefano Gattei)


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