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Tuttologia, il sale della vita



Giancarlo Bosetti



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Qualche volta siamo tutti tentati, alla settantaduesima intervista di Platinette o di Michele Mirabella o di Simona Ventura sul rapporto genitori-figli, sulla fedeltà coniugale, su quanto fanno bene il vino o l’acqua minerale, sul futuro del Polo e dell’Ulivo, di dire basta con la “tuttologia”. C’è del sano in questa reazione, perchè molto molto spesso quelle che vediamo sono invasioni di campo, di cui non si sente il bisogno e che non dànno alla comunicazione un particolare valore o sapore aggiunto. “Offelé fa el to’ meste’”, si dice in milanese e vuol dire: panettiere fa il tuo mestiere. Ovvero: tu che sei uno show-man o una show-girl, fai per favore lo show, balla e ridi, spara anche qualche battuta ma non uscire dal seminato, perchè sui vari campi di gioco vogliamo degli specialisti: lo psicologo dell’infanzia, l’enologo, l’urologo e quant’altro fa alla bisogna.

Tuttavia, c’è un enorme “tuttavia”, da scrivere proprio a questo punto, perchè il biasimo della chiacchiera generalista e generica, chiamiamola così, contraddice uno dei principi fondamentali della nostra civiltà quello che "l’uso pubblico della ragione" (e impiego apposta la famosa espressione kantiana) è alla base della esistenza di una opinione pubblica. Con l’annesso corollario che codesta opinione pubblica (di persone che hanno cioè libere e informate opinioni su tutto quanto) è il pilastro su cui si regge una società liberaldemocratica. Senza tale opinione pubblica, di persone pensanti e parlanti, a proposito e a sproposito, non c’è insomma democrazia.


Decisiva non è soltanto la questione della libertà, ma soprattutto - ecco il punto più paradossale del ragionamento - dell’incompetenza. Chiederete: dove voglio portare il discorso? e che cosa c’entra con la divulgazione della filosofia? Ci arrivo subito. Vi convincerò prima che l’incompetenza è, in un certo senso, il sale della nostra esistenza di moderni; e poi subito dopo vi consiglierò una lettura che celebra come si deve, che è, nei fatti, un omaggio alla divulgazione filosofica.

Cominciamo dall’incompetenza. Avete mai riflettuto a fondo sulla risposta di Immanuel Kant alla domanda “che cosa è l’Illuminismo”? L’autore della Critica della ragion pura replicava in modo secco ed epigrafico: è l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità. E poi proseguiva spiegando che per uscire di minorità l’essere umano deve - come vi anticipavo dianzi - fare uso pubblico della ragione. Il testo kantiano, andatevelo a leggere, poi prosegue e si complica, proprio perchè deve spiegare che cosa è l’uso pubblico della ragione, cosa assai diversa dall’“uso privato” della medesima.

Non possiamo qui addentrarci nel difficile (a questo punto) saggio del filosofo di Koenigsberg. Vi basti la mia sintesi: uso privato è l’uso che si fa della ragione, cioè del proprio sapere e della propria capacità di pensare, in un ambito delimitato e specialistico. Kant intende per uso privato non tanto l’uso di ragione che si fa, e rimane, dentro le pareti casa, ma piuttosto l’uso che non esce da un ambito disciplinare. Quando l’artigiano vasaio, l’orologiaio o l’ingegnere nucleare ragionano sulla propria disciplina, che pure è di notevole interesse pubblico, stanno facendo uso “privato” nel lessico di Kant; vuol dire che non escono dal loro alveo, dai loro confini “di categoria”.


La gloria dell’uso pubblico della ragione, quella che ci fa maggiorenni, figli dell’Illuminismo, soggetti capaci di reggere sulle spalle un moderno sistema democratico, consiste proprio nell’avere opinioni su materie che escono dai confini della nostra competenza, del nostro mestiere, del nostro orto. “Uso pubblico della ragione” vuol dire che tu vasaio, orologiaio, ingegnere o manovale non qualificato, proprio tu hai in testa e comunichi una opinione sugli affari pubblici. E vuol dire che gli affari pubblici ti competono in quanto cittadino, per il fatto stesso che vivi in un paese dove hai imparato (magari obbligatoriamente e non per tua volontà) a leggere e a scrivere e sei tenuto a dire la tua su questioni che sono ben lontane dalla tua “specialità”.

Il bello di quel passo di Kant è che mette l’accento proprio su questo: uso pubblico vuol dire avere il "coraggio”, vuol dire “osare”, di spingersi fuori dalla propria specifica competenza. L’uso pubblico della ragione presuppone, in sè, che ci si spinga al di fuori del perimetro del nostro sapere. Siamo costretti a questo coraggio.

Pensiamo solo a quanto è complicata una decisione di voto. Quando andiamo a votare, abbiamo davvero letto tutti i programmi politici che ci vengono sottoposti? Possiamo in fede sostenere che il nostro giudizio ha lo stesso livello di competenza di quello che un buon dentista dimostra quando decide se trapanare, devitalizzare o estrarre le radici di un dente?

Ma è evidente che no. A meno che siamo dei professionisti della politica, o della riflessione sulla medesima, la nostra opinione sugli affari pubblici, sulla guerra del Kosovo, sulla Carta europea dei diritti, sulla politica monetaria della Federal Reserve, sarà molto raramente solida e circostanziata come quella che ci formiamo sulle cose che conosciamo e in cui siamo specializzati.

Eppure quell’uso pubblico di ragione ci tocca, siamo tenuti ad esercitarlo, non c’è scampo, in quanto siamo cittadini adulti di una società sviluppata, moderna, democratica. Si capisce che ci sforzeremo di informarci, in modo che se dobbiamo stabilire se Milosevic ha delle responsabilità criminali e la Serbia deve essere bombardata, il nostro giudizio di elettori e di attori dell’opinione pubblica non sia campato per aria. Ma per quanto siamo coscienziosi (e molti di noi non lo sono, non lo siamo), al momento di far valere pubblicamente la nostra opinione saremo sempre di fronte a un atto coraggioso, nel senso di azzardato; dovremo sempre compiere un piccolo salto scavalcando il fossato più o meno largo della nostra incompetenza. Ma quel fosso va saltato, comunque, se non vogliamo rimanere dei “minori”.


Il bello della democrazia è proprio che si regge su questo saltare “di là” dell’ostacolo, con il rischio di cascare e farsi male. E il salto consiste nel librarsi più in alto possibile, ed affrontare le questioni pubbliche, generali, nazionali e mondiali, tentando opinioni anche là dove le informazioni non sono mai tante quante ce ne vorrebbero. Il pensare generale, e l’informare sulle cose generali del mondo, è dunque fondamentale. Senza il coraggio dell’incompetenza non usciremmo mai da una condizione medievale, di corporazioni specializzate e chiuse, ciascuna dentro il suo stanzone.

Ma se codesto uso pubblico della ragione è praticamente obbligatorio per la politica, cioè per gli affari generali del mondo, non è meno coinvolgente e attraente l’uso pubblico della ragione al quale siamo chiamati dalla filosofia, al quale siamo costretti come esseri umani. Ed ecco che la funzione dei divulgatori è fondamentale. Nessuno di noi sarà obbligato a riflettere sulla matematica e sul linguaggio come Russell o come Wittgenstein e i loro esegeti, a meno che si voglia laureare e dottorare nella disciplina, ma questo significa che non vogliamo avere una opinione sulla nostra capacità di parlare di Dio e della trascendenza, per sostenerne l’esistenza o per negarla?

Ovviamente sì che la vogliamo avere una opinione su quelle materie. Anche se non è un dovere civico come l’opinione sugli affari pubblici, l’opinione sulla vita, l’amore, la religione ci appartiene come esseri umani. (E sempre più spesso ci viene richiesta come cittadini). E dunque di un po’, di un bel po’ di filosofia non potremo fare a meno, come non possiamo fare a meno di un po’ di politica. Chiaro? A meno che non scegliamo volontariamente di esiliarci, di rintanarci nella minorità.

Ed eccoci, a questo punto al libro, uscito in italiano proprio mentre preparavamo questo dossier di “Caffè Europa” sulla divulgazione e il linguaggio della filosofia. Si intitola Le consolazioni della filosofia, l’autore è Alain De Botton (editore Guanda). Non mi resta a questo punto che lo spazio per consigliarvelo. Della divulgazione è un esempio tra i più brillanti. Che si parli della capacità di contraddire la maggioranza (con Socrate) o del modo di reagire alle frustrazioni (con Seneca) la guida dell’autore, uno svizzero che ci ha già regalato una divertente lettura di Proust, vi accompagna con una scrittura leggera e rispettosa degli originali a cui si ispira.

Le pagine dedicate all’amore, specialmente quelle schopenhaueriane, sono le più avvincenti anche se non è garantito l’esito consolatorio per pene d’amore (i parametri di infelicità del disgraziato autore de Il mondo come volontà e come rappresentazione non sono sostenibili dalla media degli uomini contemporanei). La conversazione con i grandi filosofi convocati da De Botton, da Epicuro a Nietzsche, è interessante per i non specialisti, quali sono la maggioranza degli esseri umani pure istruiti, e fa emergere con eleganza quello che di importante hanno da dire a tutti noi e non solo a un gruppo sia pur rilevante di loro colleghi.

Il che ovviamente non significa che gli specialisti non servano. Anzi, siamo qui a chieder loro di mandare avanti la ricerca ancora un po’, anche molto meno di quello che alcuni generalisti, come Socrate e Seneca, abbiano saputo fare al loro tempo. Ma li invitiamo a non aver paura di farsi capire da tutti gli altri, da noi altri.


De Botton immagina che se tutti i filosofi della storia della filosofia si ritrovassero a un gigantesco party non saprebbero cosa dirsi e probabilmente, dopo qualche drink, verrebbero alle mani. Io penso che, nonostante le centinaia di specializzazioni e la diversità di linguaggi e di sistemi (e di critiche ai sistemi) non mancherebbero delle belle conversazioni generaliste e generiche sul senso o sul non-senso della vita, della morte, dell’amore, su Dio, l’essere e il nulla. E so che ci vorrei essere. Non so voi, ma io so anche con chi vorrei fare un tavolo.


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