Perché bisogna farlo e basta
Gianni Vattimo con Ennio Galzenati
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storica
Perchè non ci si riesce, a
sbarazzarcene
Perchè bisogna farlo e basta
Gianni Vattimo è stato uno dei firmatari dell'Appello che
l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, insieme con RAI
Educational e l'Istituto Italiano dell'Enciclopedia Italiana, hanno
rivolto qualche anno fa ai Parlamenti e ai Governi per allargare,
estendere ed eventualmente reintrodurre l'insegnamento della filosofia
nelle scuole superiori
Ci vuol dire le sue impressioni su questa iniziativa?
Mi sembra molto condivisibile anche soprattutto sulla base della mia
esperienza italiana. Comincio dall'esperienza più diretta che ho: io
ritengo che, anche in Italia dove pure la filosofia ha una certa
cittadinanza nei programmi scolastici, questa sia ancora largamente
insufficiente, un po' forse per il tempo e il tipo, non tanto per
quanto riguarda il tempo di insegnamento della filosofia là dove
c'è, quanto perché in pochi generi di scuole, soprattutto nelle
università, in poche facoltà si seguono corsi di filosofia. Io sono
convinto anche che molta gente, per esempio d'altre facoltà, viene a
cercare insegnamenti filosofici nella facoltà di filosofia: ingegneri
o architetti che in questo momento sono particolarmente sensibili a
queste tematiche. Pensando a questi episodi di cui sono stato parte in
questi ultimi anni, mi sono convinto che bisogna fare anzitutto, per
quanto riguarda il nostro Paese, una campagna per la diffusione
dell'insegnamento filosofico in tutti gli indirizzi della scuola media
superiore e in tutte le facoltà universitarie, e non tanto, come
qualcuno ritiene, per insegnare la filosofia della scienza agli
scienziati, la filosofia degli affari agli economisti, la filosofia
della medicina ai medici.
Si deve insegnare la filosofia e basta, perché già l'idea di
specializzare le filosofie dividendole in pezzetti a seconda delle
specializzazioni, per esempio di quelle presenti nelle facoltà
universitarie, mi sembra un'idea perversa: c'è un bisogno di
insegnamento filosofico in tutti i tipi di specializzazione
universitaria e anche in tutte le scuole medie superiori: è il
bisogno, sempre crescente in una società di comunicazione
intensificata, di scegliere dei percorsi interpretativi. Qualche volta
si ha l'impressione che persone molto colte nelle loro specifiche
discipline, per quanto riguarda i sistemi di valore, le scelte di vita
generale, siano rimaste più o meno o all'insegnamento del catechismo
dei primi anni della loro infanzia, o a certi contenuti esistenziali,
tra virgolette, delle canzonette folk; al di là di questo spesso la
capacità di trattare di argomentare articolatamente intorno a
problemi di scelte di valore, è molto debole in gran parte della
gente che ha invece delle grandi responsabilità in campo tecnologico,
economico.
Di qui mi pare che derivi l'esigenza di una diffusione
dell'insegnamento filosofico. Questo naturalmente vale ancora di più
per quei Paesi e quelle società in cui esso è persino meno presente
di quanto non sia in Italia. A partire dall’esperienza molto
concreta che io ho della situazione italiana, credo che questo possa
valere anche per situazioni diverse.
Quale le sembra che sia in effetti, soprattutto in Italia, secondo
le sue esperienze, lo "status" della filosofia e della
cultura filosofica in rapporto alle altre materie?
Mi sembra che soffra molto. Per esempio, una delle ragioni per cui non
si accoglie tanto questa richiesta di filosofia in tutte le scuole e
in tutte le facoltà, dipende in fondo da un pregiudizio ancora
scientistico. L'opinione media ritiene che l'importante sia preparare
i tecnici e gli scienziati - il che certamente è vero in una certa
misura - ma oserei dire che proprio l'esperienza degli sviluppi
tecnologici degli ultimi decenni ci insegna anche che la tecnologia
crea una quantità di problemi di natura etica in generale o di scelte
di valore. Ma la tecnologia non porta con sé la soluzione di questi
problemi: certo si dice abitualmente che l'uso della tecnica è, in
qualche modo, una questione morale e non una questione tecnica.
Bisogna capire, però, ciò che tutto questo significa effettivamente,
e cioè che in una società sempre più orientata alla produzione di
innovazioni scientifico-tecnologiche nel modo di vita, è aumentato
anche il bisogno della capacità valutativa di scelta, delle
applicazioni di queste nuove tecnologie all'esistenza, del rapporto di
queste applicazioni con la continuità etica della nostra vita
interiore, sia come soggetti individuali sia come soggetti
appartenenti ad un gruppo. Questo di nuovo, a mio giudizio, può
essere dato solo da una qualche presenza intensificata
dell'insegnamento filosofico nel nostro sistema educativo.
Professor Vattimo, lei pensa quindi che la filosofia abbia
soprattutto una funzione di formazione più che di istruzione nel
senso tradizionale?
Sì: se la inseriamo nel curriculum scolastico diventa una materia,
una disciplina speciale tra le altre. Io sono convinto che ha da fare
invece con la riflessione sul mondo vitale in cui siamo immersi. La
filosofia ha sempre oscillato tra il pericolo di costruire linguaggi
specialistici e il bisogno di rispondere a delle esigenze di saggezza
complessiva. Ora l'unico specialismo della filosofia è il fatto che
ha una certa tradizione di autori, di terminologie, che però hanno il
loro senso nella misura in cui riescono a tradursi nella terminologia
della nostra vita quotidiana. In qualche modo la filosofia soffre ad
essere una scienza specialistica, perché ha da fare piuttosto con la
nostra formazione, col problema di ricomporre una certa continuità
dell'esperienza, ad esempio rispetto a un mondo che tende a
frammentare il reale sotto profili scientifici e tecnici diversi.
L'idea della modernità come frammentazione delle sfere di esistenza,
come specializzazione dei discorsi scientifici e tecnici non è nuova.
Ma questa frammentazione fino a che punto può seguire semplicemente
il suo corso e quando, invece, comincia a richiedere anche una
ricomposizione in una sorta di continuità? La discontinuità con se
stessi è praticamente la schizofrenia, così in un certo senso una
civiltà senza ricomposizione filosofica di continuità è una
civiltà schizofrenica. Questo è forse il disagio della civiltà di
cui si dice tanto che fa la fortuna degli psicoterapeuti, degli
psicoanalisti o semplicemente degli psichiatri che somministrano
psicofarmaci. Ebbene, il disagio della civiltà ha anche, forse, una
delle sue radici nell’assenza di consapevolezza di cultura
filosofica.
La filosofia può avere anche un suo ruolo probabilmente in
rapporto alla ricostruzione dei limiti entro cui può essere stabilita
una continuità con il nostro passato?
Sì, certo. Perché il problema della continuità si propone
immediatamente come continuità tra le varie sfere di esperienze entro
le quali siamo coinvolti. La nostra esperienza credo sia, come nel
caso della lingua, proprio la continuità tra queste diverse
esperienze sincroniche. Credo che tale continuità, quindi il rimedio
alla nostra schizofrenia che appare inizialmente come un problema di
composizione tra sfere di esistenza sincroniche nel nostro presente,
si realizzi davvero soltanto ricostruendo anche la continuità con il
passato: in qualche modo si domina unitariamente la nostra attuale
esperienza in quanto la si riesce a collocare sulla medesima linea
delle esperienze che abbiamo fatto. Può darsi che queste esperienze -
è anche un tema di dibattito filosofico - non possano essere
costruite davvero se non sulla base di una narrazione che non
coinvolge soltanto noi. In qualche modo anche nell'etica filosofica di
oggi c'è una specie di dibattito intorno a questo tema: alcuni
sostengono che, fondamentalmente, il problema di un singolo individuo
è quello di costruire la propria esistenza come la continuità di un
discorso coerente che lo riguarda, come se egli fosse un'artista che
fa di sé un'opera d'arte. Alcuni leggono per esempio in Nietzsche
questo insegnamento.
Ma è possibile davvero una narratività esaustiva di sé, cioè un
descrivere se stesso coerentemente come vicenda e quindi vivere una
continuità della propria individualità senza inserirla in una
narrazione più ampia, in una narrazione che abbia a che fare con i
nostri contemporanei, con un nostro mondo, con la sua provenienza? Io
credo che la seconda sia la soluzione autentica, quindi che anche la
decisione di narrarsi e di rappresentarsi a se stessi in modo
puramente isolato come se si trattasse di una opera in sé compatta,
la quale non ha bisogno di rapporti con l'esterno, sia una mitologia
che si giustifica soltanto prendendo la decisione di ignorare la
storia esterna. Insomma il problema di stabilire un'armonia, una
vivibilità discorsiva della molteplicità delle nostre esperienze,
richiede una retroproiezione sul passato della cultura alla quale
apparteniamo, che, di nuovo, è un discorso, non soltanto storico, di
eventi ma un discorso di storia di idee, di parole chiave, di
concetti, di schemi interpretativi: e questa è la storia della
filosofia.
Naturalmente il nostro presente è pieno di problemi pratici in
rapporto alle esperienze politiche e alle difficoltà che incontrano
anche i nostri Paesi di antica tradizione civile dell'Europa
occidentale; la filosofia può forse aiutare non solo la formazione
del soggetto in quanto pensante, riflettente, ma anche del soggetto
che normalmente chiamiamo "cittadino". Cosa ne pensa?
Sì, penso che sia un altro elemento che si deve far valere in questo
“Appello per la filosofia”. Potremmo forse azzardarci a rovesciare
il detto di Marx: i filosofi hanno finora interpretato il mondo con
l'intenzione di cambiarlo; io credo che i filosofi finora hanno
soprattutto preteso di cambiare il mondo con l'intenzione di
interpretarlo. Voglio dire che in qualche modo la filosofia può
aiutare a trasferire su altro piano i conflitti tra culture che finora
nella storia sono stati conflitti principalmente di carattere bellico,
di forze concrete, fisiche: le culture si sono scontrate, nel nostro
passato, principalmente come scontro di eserciti, come occupazione di
territori, come prevalenza su mercati. Credo che siamo arrivati a una
fase in cui, un po' per lo sviluppo degli strumenti bellici che sono
talmente distruttivi che non si sa bene se si riesce a distruggere
solo il nemico senza distruggere anche se stessi, un po' perché
l'interrelazioni tra le civiltà sono diventate molto più strette, i
mercati hanno bisogno di espandersi, i Paesi hanno bisogno
eventualmente di occupare un territorio come un mercato per vendere le
merci, non di occuparlo come luogo dove installare i nostri eserciti.
Ma voglio dire, c'è una quantità di elementi nello svolgimento della
storia contemporanea che orientano a non livellare le culture, ma a
trasferire le loro differenze su un piano di "conflitto di
interpretazione" per usare una espressione ricoeuriana.
Ora, nel conflitto delle interpretazioni la questione diventa quella
di formalizzare le differenze di culture in dibattiti concettuali,
anche con le culture che non hanno nella loro tradizione una
formazione concettuale paragonabile alla nostra filosofia, la quale è
una creazione dei Greci sviluppatasi poi soprattutto nell'occidente
greco classico postclassico e quindi ebraico-cristiano. Anche il
nostro rapporto con quelle culture - per noi almeno e forse anche per
esse - non può che tradursi in un incontro di concetti e quindi in un
dibattito largamente filosofico. Non si tratta qui di affermare un’ennesima
forma di egemonia dell'Occidente nel senso di dire che tutte le
culture mondiali, se vogliono prendere la parola, devono prenderla
filosoficamente, ma certo è quello che noi occidentali abbiamo da
offrire al mondo per far sì che il rapporto tra le culture sia un
dialogo e non uno scontro fisico di eserciti, di forze belliche: la
concettualità della filosofia europea, in cui probabilmente i
conflitti possono diventare conflitti di interpretazione ed evitare
pericolose forme di violenza.
Professor Vattimo, la ringrazio e le pongo un'ultima domanda ai
margini di queste questioni: pensa Lei che la televisione possa avere
un ruolo specifico ed utile in questo insieme di temi che la cultura,
la filosofia propongono nel presente?
Non sono tanto pessimista effettivamente, forse però non penso in
primo luogo all'uso della televisione come strumento di
volgarizzazione o di divulgazione: anche questo può probabilmente
avere un senso. Penso in generale all'idea della televisione come alla
moltiplicazione di prospettive indirette sulla realtà. Insomma mi
pare che una conquista importante per debellare i fanatismi sia
l'acquisto della consapevolezza che non esperiamo mai la cosa come è
in sé, ma sempre delle interpretazioni. Mi capita talvolta di vedere
un incidente stradale e di correre a casa per guardare alla
televisione cosa è successo: questo è un esempio paradossale, ma
solo fino a un certo punto. Abbiamo imparato a diffidare della pretesa
immediatezza della esperienza sensibile e diretta, e abbiamo imparato
che il rapporto con la realtà è sempre un rapporto di mediazione, di
filtri, di scelte di obbiettivi, di punti di vista da cui guardare.
Questo rappresenta forse, alla lunga, la contestazione delle pretese
dell'evidenza della cosa stessa, delle pretese dell'oggettività.
Paradossalmente questo è l'effetto di verità nella televisione: la
presa di distanza dal peso della realtà immediata, con tutto il
fanatismo, la forza e la violenza con cui spesso queste pretese di
evidenze si danno. "Ho visto davvero coi miei occhi come è
andata, e quindi so qual è la verità". No! Io vedo sempre
attraverso delle mediazioni, dei filtri, e se so questo divento più
capace di dialogare con gli altri, meno propenso a imporre la mia
visione con la scusa che sia l'unica visione oggettiva.
(26/5/1993)
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