Perchè non ci si riesce, a
sbarazzarcene
Imre Toth con Ennio Galzenati
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Per accrescere la
capacità di giudizio
Per collaudare valori e concetti
Per preservare la dimensione
storica
Perchè non ci si riesce, a
sbarazzarcene
Perchè bisogna farlo e basta
Imre Toth è stato uno dei firmatari dell'Appello che l'Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici, insieme con RAI Educational e
l'Istituto Italiano dell'Enciclopedia Italiana, hanno rivolto qualche
anno fa ai Parlamenti e ai Governi per allargare, estendere ed
eventualmente reintrodurre l'insegnamento della filosofia nelle scuole
superiori
Ci vuole parlare delle sue riflessioni, a proposito di questo
appello?
Quello che è successo e che considero da un certo punto di vista una
tragedia culturale che investe tutta l'Europa, la soppressione
dell'insegnamento della filosofia in certi paesi o in quasi tutti i
paesi tedeschi e in Francia, è il risultato di una lunghissima
evoluzione storica, ma anche personale: penso a una certa esperienza
di vita, poiché mi interesso di filosofia anche se la mia formazione
è quella di un matematico. E la filosofia mi ha sempre interessato
anche all'interno delle matematiche. Ho dovuto sempre affrontare una
specie di scetticismo intorno a me, soprattutto riguardo al senso e
all'utilità della filosofia. Ma dietro questa esperienza personale
c'è anche l'esperienza storica della filosofia. Dacché la filosofia
esiste in una forma letteraria, elaborata da Platone - non parlo dei
presocratici, benché tra i presocratici si trovi già certamente lo
stesso problema - a partire da Platone e da Aristotele si pone in
permanenza il problema dell'utilità della filosofia, dell'utilità di
filosofare, se questa occupazione o piuttosto questa preoccupazione
abbia un senso. Sono riflessioni che hanno accompagnato tutta la
storia della filosofia.
Normalmente si ritiene che la scienza abbia una utilità pratica,
diversamente dalla filosofia che, in quanto disinteressata
contemplazione del mondo, appare come una "scienza
dell'inutile". Qual è la specificità della filosofia rispetto
al sapere scientifico?
Se si paragona il sapere filosofico, starei per dire la scienza
filosofica, (con le altre scienze) benché a mio avviso la filosofia
non sia una scienza nel senso classico della parola, ma per parlare in
modo convenzionale, è considerata, è classificata come una scienza,
si nota che l'astronomia o la medicina o le matematiche in generale
non si pongono continuamente il problema: che cos'è l'astronomia, che
cos'è la medicina, che cos'è l'anatomia, che cos'è la zoologia? Ad
ogni modo nelle scienze questa non è una preoccupazione centrale,
anzi non è affatto un problema. Nelle matematiche curiosamente si
pone continuamente la domanda: che cos'è la matematica, che cos'è la
geometria, ma ciò non toglie che questa interrogazione non appartenga
in proprio alle matematiche. La cosa è assai differente per ciò che
concerne la filosofia, perché proprio questa interrogazione
sull'essenza della filosofia, su che cos'è la "filosofia",
su che cosa significa e che senso ha filosofare, costituisce uno dei
grandi temi di quella corrente di pensiero che si chiama appunto
filosofia. Platone e Aristotele hanno già dovuto difendere la
filosofia contro i suoi critici, contro l'affermazione della sua
totale inutilità. Naturalmente è assai facile dimostrare
l'inutilità della filosofia, basta paragonarla all'anatomia, alla
chimica, alla medicina, alla biologia, alla fisica, alle matematiche,
che sono scienze che producono risultati concreti, che hanno in genere
un'utilità che è assai facilmente constatabile. È vero che queste
scienze producono anche cose capaci di distruggere, ma ciò non toglie
che si tratta di risultati concreti e fino a un certo punto
verificabili. Non è questo il caso della filosofia.
Una concezione filosofica, diversamente da una teoria scientifica,
sfugge alla possibilità di una verifica empirica. In che senso allora
possiamo parlare di "vero" e di "falso" in
filosofia?
La filosofia è molto interessata a ciò che è la verità, ma il
criterio della verità non si applica all'interno della filosofia,
perché non si può parlare di una certa concezione filosofica di
Platone o di Aristotele sotto il segno della verità, sotto il
paradigma della verità: non la si accetta, non la si respinge per la
stessa ragione per cui si respinge una teoria zoologica o astronomica,
che si può verificare o falsificare. Il problema della verificazione
o della falsificazione, da questo punto di vista, non si pone in
filosofia. Un altro argomento che è stato spesso usato contro la
filosofia è la diversità delle opinioni. È un argomento che è
stato già formulato al tempo di Platone, un argomento con il quale
anche Hegel ha dovuto confrontarsi. La diversità delle opinioni è
dovuta al fatto che non c'è alcun mezzo per una verificazione o una
falsificazione delle opinioni. Si ha a che fare con una cosiddetta
filosofia, come collezione di opinioni diverse: l'uno afferma che la
materia è discontinua e composta di atomi, l'altro afferma che è
continua; sono delle opinioni e non c'era naturalmente
nell'Antichità, quando queste opinioni sono state formulate, nessun
mezzo per decidere, per verificarle o falsificale. Allora filosofare
è parlare nel vuoto, per non dire nulla, o delle cose confuse che non
si possono né verificare né falsificare.
Prof. Toth, di fronte a questa estrema inutilità della filosofia
viene da chiedersi perché, allora, continuare a praticarla?
Perché dunque filosofare? C'è una risposta di Aristotele,
d'altronde curiosamente assai poco nota, uno scritto su questo
problema, che non è stato conservato nel "corpus" degli
scritti aristotelici, ma è un testo notevole, una lettera a un re,
scritta appunto per giustificare la filosofia, in cui si trova una
frase, variamente tradotta. Aristotele dice: "Quando parli di
filosofia, se sei per la filosofia o se sei contro la filosofia,
nell'uno o nell'altro caso fai necessariamente della filosofia".
Ciò vuol dire che se la filosofia è qualcosa di inutile, di confuso,
di vuoto: resta il fatto, certamente curioso, che non si riesce a
sbarazzarsene. Combattendo la filosofia, si fa ancora filosofia. Non
si può combattere la filosofia se non usando argomenti che
appartengono anch'essi alla sfera della speculazione filosofica.
Di fronte all'inefficacia pratica della filosofia qualcuno ha
tentato o di ridurla a scienza o di decretarne la fine. Cosa pensa di
questa tendenza che è diffusa ancora oggi?
Ma per tornare su questo argomento dell'utilità o dell'inutilità,
che, come ho già detto, accompagna permanentemente la filosofia,
quell'accusa si è articolata, alla fine del XIX secolo, in un nuovo
programma, elaborato dalla corrente di pensiero nota come
"Positivismo" o "Scientismo" nella grande utopia
di rendere tutta quanta la realtà oggetto di scienza. In questo
contesto è apparsa l'idea del socialismo scientifico. Tutto poteva
diventare scienza. La scienza, la parola "scienza", l'idea
della scienza, è diventata un paradigma. Tutto ciò che è
scientifico è buono, è vero, è accettabile, è positivo. Non essere
scientifico è, altrettanto semplicemente, un'espressione
peggiorativa. Allora, poiché la filosofia, la maniera di filosofare,
la maniera in cui si fa filosofia è evidentemente diversa dal modo in
cui si fa matematica, fisica, biologia, eccetera, c'è stata una certa
decisione, direi spettacolare, di trasformare la filosofia in scienza,
di respingere i fossili, i resti fossilizzati della speculazione
metafisica e teologica, e di conservare all'interno della filosofia
solo ciò che corrisponde a un certo ideale di scientificità
positivista della fine del XIX secolo.
La grande idea che è stata elaborata a Vienna intorno a Ernst Mach,
grandissimo fisico, e anche uno dei pensatori più brillanti della
socialdemocrazia austriaca, all'inizio del XX secolo, era di fare una
scelta tra le interrogazioni che non appartengono alla scienza (e che
non hanno senso) e le interrogazioni che hanno senso, in quanto sono
verificabili o falsificabili e che per questa ragione possono essere
mantenute come affermazioni scientifiche. Si è creduto - era
un'utopia, una bellissima utopia del resto - di poter istituire una
filosofia scientifica. Naturalmente si è subito constatato che
bisognava sacrificare certe interrogazioni, certi problemi, certi modi
di pensare, certi metodi, certe forme di approccio ai problemi.
Citerò soltanto una frase di Rudolph Carnap, che ha preso come
esempio di affermazione non scientifica, metafisica, un’affermazione
del tutto priva di senso logico, scientifico: "Non
uccidere". È un tipo di affermazione assolutamente non
scientifica. Si potrà essere d'accordo con Carnap, ma in questo caso
bisogna porsi il problema se veramente tutto possa essere ridotto ad
affermazioni scientifiche collegate secondo il modello delle
affermazioni della fisica o delle matematiche.
Bisogna eliminare, e si è eliminato negli ultimi tempi, con lo
sviluppo della filosofia analitica, che è la realizzazione moderna,
in fondo, del programma scientista del XIX secolo, si è arrivati a
eliminare assolutamente tutto ciò che apparteneva prima alla sfera
della speculazione filosofica: le idee concernenti la libertà umana,
l'amore, le emozioni, i sentimenti, le concezioni che non entrano nel
quadro, nei criteri, di questa filosofia, che pretende di essere
scientifica. Ma si è arrivati così a un esaurimento di questa grande
corrente della filosofia analitica, a un certo alessandrinismo, a una
certa scolastica, a ruminare problemi del tutto privi di interesse,
dal punto di vista dell'esistenza umana. D'altra parte tutti i
problemi che riguardano l'esistenza umana e che si rinnovano sempre -
perché in ogni epoca ci sono nuovi problemi posti dall'esistenza
umana, dalla condizione umana - sono problemi inabbordabili, che non
possono essere nemmeno sfiorati da questa maniera di filosofare,
caratteristica della filosofia analitica.
Quali sono, secondo lei, i limiti della filosofia analitica?
E' veramente una invalidazione totale della speculazione
filosofica classica. Ma ciò che è peggio, a mio avviso, è che
questa corrente di pensiero, rappresentata dal programma di
trasformazione della filosofia in scienza, ricorre a una metodologia
che ricorda la matematica: delle formule, una scrittura simbolica, una
maniera di esprimersi che si trova nei libri di matematica e che
naturalmente dà a un lettore poco avvertito l'impressione immediata
di un alto grado di scientificità, di "high technology"
scientifica. Ma ad una più serrata analisi di quei testi si arriva
alla conclusione che in generale sono testi privi di contenuto, privi
di qualsiasi pertinenza. Non ci si può aspettare né sperare di avere
una risposta ai problemi che interessano l'essere umano, la condizione
umana. Quello che voglio dire è che, mentre questa limitazione della
filosofia analitica è abbastanza nota, meno noto è che il suo
tallone d'Achille è il campo del sapere matematico, il campo della
conoscenza matematica. Questo potrà sorprendere - me ne rendo conto -
ma è appunto questo il campo in cui è possibile confutare,
invalidare completamente tutta la filosofia analitica, perché non è
capace di spiegare, di interpretare i procedimenti, i processi più
importanti del pensiero matematico, del sapere matematico. Non posso
entrare qui nei particolari, non è il caso, mi devo limitare e
accontentarmi di una semplice affermazione, ma è veramente
paradossale ciò che si manifesta nell'incomprensione totale della
filosofia analitica in rapporto agli avvenimenti che hanno
caratterizzato l'evoluzione delle matematiche nell'ultimo secolo.
Tutto ciò che la filosofia, soprattutto la filosofia di Platone, ha
prodotto, è trattato soltanto con sarcasmo o con battute ironiche dai
più grandi rappresentanti della filosofia analitica, come Bertrand
Russell e Quine. Quine, per esempio, designa tutta la concezione di
Platone, sviluppata nel "Teeteto", nel "Sofista",
nel "Politico", nel "Parmenide", le sue
speculazioni sull'essere e sul non essere, tutta la teoria di Platone,
con una specie di nomignolo: la barba di Platone. Bertrand Russell non
era più tenero in ciò che concerne gli sforzi di Platone per
decifrare la struttura più intima della realtà, dell'esistenza
umana. Egli parla, anche nella sua "Storia della filosofia
occidentale" della pubblicazione del suo lavoro "On denoting",
pubblicato nei primi anni Venti, come di una rivoluzione, che ha fatto
chiarezza, dissipando finalmente il confusionismo introdotto dal
"Teeteto" di Platone in filosofia.
Stabilito che la filosofia non è una scienza, essa ha ancora un
ruolo nel mondo di oggi? E di quale filosofia abbiamo più bisogno?
E' vero tuttavia che la filosofia analitica è incapace di
rispondere a qualsiasi domanda posta dalla condizione umana. Quello
che diventa sempre più chiaro è che oggi si sente di nuovo la
necessità di una filosofia nel senso puro della parola, che si può
chiamare filosofia speculativa, perché gli eventi che sono accaduti
nel mondo, in questa seconda metà del nostro secolo, sono così
terribilmente sconvolgenti, così terribilmente nuovi che si è
manifestata una tendenza completamente nuova verso una unificazione di
tutto il genere umano. Per prendere misure efficaci, confrontare e
accogliere tutti quegli eventi, c'è bisogno di una riflessione
esatta, di una riflessione che tematizzi il soggetto umano, il
soggetto umano come agente della propria storia. La filosofia non è
una scienza, a mio avviso, ma un sapere, e un sapere molto importante.
Direi anche che al limite, se si eliminasse la filosofia dalla storia
dell'umanità dei due ultimi millenni, non si avrebbero le
matematiche, non si avrebbe la fisica e nemmeno la biologia e la
medicina moderna. Ma vorrei aggiungere soltanto che anche se la
filosofia non è una scienza, alla maniera in cui lo sono la fisica o
l'astronomia o le matematiche, è un sapere assolutamente necessario,
perché anche quei campi del sapere, che sono la matematica, la
fisica, l'astronomia, la sociologia, la psicologia, possano
costituirsi in forma di scienza.
Senza la presenza di questo pensiero filosofico, i Greci, la
Scolastica, Descartes, il XVII secolo, l'Illuminismo, Kant, la
filosofia classica tedesca, eccetera, senza il contributo, senza il
lavoro del pensiero che si è svolto in quelle epoche, non avremmo
avuto né la fisica moderna, né la medicina moderna, saremmo rimasti
a una specie di barbarie intellettuale. Quello che è successo,
soprattutto in Germania, con la soppressione della filosofia è, a mio
avviso, una vittoria di questo vandalismo intellettuale, di questa
iconoclastia intellettuale, che di primo acchito sembrano molto
economici, perché si fa economia del tempo degli allievi, si fa
economia di danaro, non occorrono dei mezzi finanziari per sostenere
cattedre che del resto costano poco, hanno un prezzo assolutamente
basso in rapporto a qualsiasi laboratorio di zoologia, di botanica, di
chimica o di fisica, eccetera. Si ha l'impressione di rispondere a una
necessità economica, di fare economia, ma invece è una distruzione
le cui conseguenze diventeranno chiare tra due o tre decenni, quando
sarà forse troppo tardi per salvare la situazione, poiché è
impossibile, in filosofia, come è possibile in chimica per esempio,
di dimostrare l'utilità di una certa sostanza prodotta, in forza dei
suoi effetti immediati nella cura di una certa malattia, è
impossibile nel campo della filosofia addurre una tale prova
immediata. Ma le conseguenze possono essere veramente catastrofiche,
perché come ho detto già brevemente il paradosso della filosofia è
nel suo oggetto. L'oggetto della fisica sono gli oggetti naturali,
l'oggetto dell'astronomia sono le stelle, l'oggetto della medicina è
il corpo umano, ma l'oggetto della filosofia è il soggetto umano, il
soggetto umano come agente della propria storia, della prassi sociale.
Ciò che chiamiamo filosofia non è una scienza, ma un sapere, un
sapere del soggetto da parte del soggetto. È l'autocoscienza del
soggetto nel suo lato pratico. Con questa affermazione diciamo che è
nel campo della speculazione filosofica che si è operato questo
processo di presa di coscienza, che l'essere umano è diventato
cosciente di ciò che è.
Quale ruolo svolge oggi la filosofia come sapere che ha nell'uomo
il suo soggetto e il suo oggetto? Essa può contribuire, ad esempio,
ad un progresso della libertà e della civiltà ?
Oggi si ha di nuovo bisogno di fare un altro passo, di prendere
coscienza di ciò che siamo oggi. Farò un solo esempio concreto.
Appartiene anche alla specificità della filosofia che le sue nuove
idee e le nuove forme della coscienza di sé, all'inizio sembrino
estremamente paradossali e che talvolta non ci siano nemmeno le parole
per articolarle. In seguito suonano forse meno paradossali, ma
ugualmente un po' strane e alla fine diventano delle assolute
banalità. Farò un solo esempio. Se dico oggi: l'uomo è libero,
l'uomo è il solo essere che si può definire o caratterizzare con la
sua libertà, questa è una assoluta banalità. Si può trovare questa
frase nella stampa quotidiana o sulla bocca di qualsiasi politico di
sinistra o di destra, tutti lo sanno, non occorre articolarla di
nuovo, viene ripetuta fino alla noia. Allora devo ricordare che appena
un secolo e mezzo fa non si poteva pronunciare la parola
"libertà", senza correre un rischio e non si poteva senza
rischio affermare che l'uomo era un essere libero: si rischiava la
propria libertà e perfino la vita. Era considerata anche nel XVII e
nel XVIII e all'inizio del XIX secolo da gran parte della società o
almeno dalle persone più influenti come un'affermazione bizzarra,
paradossale, ad ogni modo non accettabile, se non da un piccolo gruppo
di filosofi, di rivoluzionari.
Basta ricordare il caso di Spinoza, uno dei primi che ha articolato
l'idea della libertà umana, autore condannato appunto a causa della
forza di questa idea di libertà che emana dai suoi scritti. Ebbene,
vorrei aggiungere un'altra osservazione. Curiosamente l'idea che
l'uomo è libero fa la sua apparizione per la prima volta nelle
"Etiche" di Aristotele. Nella "Grande Etica", e
nell' "Etica Eudemia" ci sono dei capitoli in cui l'uomo è
caratterizzato dalla sua libertà. Disgraziatamente la parola libertà
non viene pronunciata da Aristotele, perché la parola
"libero"- "eleutheros", "eleutheria" in
greco antico - significava soltanto lo stato sociale dell'uomo libero
in rapporto a uno schiavo. Aristotele non dispone di una parola che
potesse esprimere l'idea che oggi è denotata col termine di libertà.
In quei capitoli sembra come un muto che fa degli sforzi sovrumani per
articolare, per dire qualcosa, per esprimersi. Non c'è nel
vocabolario a sua disposizione nessuna parola per rappresentare, per
dare un'idea di questa nuova concezione. Era un'idea che in quel
momento, in quei capitoli di Aristotele, non ha trovato nemmeno la
parola che la potesse esprimere e che ha avuto poi una lunga storia
fino al momento in cui è diventata banale. Quei capitoli li considero
un luogo santo della storia dell'umanità perché sono il luogo in cui
si opera il processo di questa presa di coscienza. In quei capitoli
l'essere umano fa per la prima volta il tentativo di esprimere la
coscienza della sua libertà ed è un grande sforzo che durerà per
dei secoli, per dei millenni, fino al momento in cui quell'idea
diventerà la banalità che è ai nostri giorni.
Voi potete immaginare anche quale funzione ha avuto il processo di
presa di coscienza della libertà. Hegel ha definito la storia umana
come un'ascensione nella presa di coscienza dell'idea della libertà,
sicché allo stadio cui siamo pervenuti - senza entrare in un'analisi
particolareggiata di questo stadio - non si può negare che si sia
realizzato qualcosa nel campo della vita sociale, che si sia
progredito alquanto, che ci siano i diritti del cittadino, che ci sia
una nuova idea dell'unità del genere umano, della giustizia, della
giustizia sociale, e che quell'idea abbia prodotto delle opere nel
campo delle scienze e delle arti. Voglio dire, in una sola parola, -
sfortunatamente non ho né i mezzi, né l'occasione, né la
possibilità di entrare in una discussione particolareggiata, in una
dimostrazione più articolata - che senza questa nascita dell'idea di
libertà, come sapere di sé, come sapere che l'uomo è libero, senza
questo sapere, senza questa presa di coscienza della libertà, tutte
le realizzazioni nel campo della politica, della società, dell'arte e
tutto il movimento di emancipazione sarebbe stato impossibile. È
appunto il grande sforzo di presa di coscienza della libertà che si
è prodotto nel campo della filosofia. Non all'interno della chimica,
non all'interno della fisica, non all'interno della medicina, ma
all'interno di questo campo diffuso e confuso, in apparenza inutile,
che si chiama filosofia, si è prodotto il fenomeno di presa di
coscienza della libertà, senza della quale non avremmo niente, né
nella sfera dell'arte moderna, né in quella della matematica e della
fisica moderna e soprattutto nel campo della giustizia sociale, della
vita politica, di una vita politica, di una vita sociale più
confortevoli e migliori.
Speriamo. Ma questa speranza è legata a quell'attività che si chiama
"speculazione filosofica". Se si sopprime l'insegnamento
della filosofia, se si sopprime il sostegno sociale necessario a
quella speculazione, l'espressione "speriamo" diventerà
un'espressione della disperazione. Non si può sperare veramente di
trovare delle soluzioni ai problemi della condizione umana che ci
attendono oggi e domani in grande quantità, se la riflessione sulla
condizione umana, sul destino umano, sul soggetto umano, sull'uomo in
generale, viene soppressa nel modo in cui si è tentato di fare negli
ultimi anni, proprio in quei paesi che hanno prodotto la grande
speculazione filosofica.
(traduzione: Francesco Fanelli; 15/7/1993)
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