Professione: sceneggiatore
Gualtiero Rosella con Paola Casella
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Rodolfo Sonego
Mezzo secolo fa, gli sceneggiatori avevano un ruolo importante. Da
loro originavano i soggetti sui quali veniva basato un film. A loro
veniva affidata la costruzione di una storia forte, che facesse da
scheletro e da sostegno al lavoro del regista. Le loro fonti di
ispirazione erano la realtà e la grande letteratura. Erano prima di
tutto osservatori, e poi abili narratori, o raconteur, come si
suol dire; professionisti abituati a muoversi dietro le quinte,
lasciando la luce dei riflettori al regista e alle star dei film, ma i
più bravi sono diventati nomi noti anche al grande pubblico: Cesare
Zavattini, Ennio Flaiano, Suso Cecchi D'Amico, Franco Solinas, Tonino
Guerra, Age e Scarpelli, Rodolfo Sonego (scomparso proprio in questi
giorni, vedi articoli collegati). E' anche grazie a loro che Fellini e
Visconti, Sordi e Gassman hanno raggiunto la celebrità
internazionale.
Negli anni Settanta gli sceneggiatori sono stati sempre più spesso
sostituiti dai registi-autori, che si scrivevano da soli i copioni dei
film. Negli anni Ottanta i registi minimalisti, che raccontavano
prevalentemente di sé e del proprio ombelico, e i comici di
provenienza televisiva, che hanno costruito interi film allineando una
dietro l'altra una serie di gag da cabaret, non hanno sentito il
bisogno di mettere in piedi una storia. Il che ha comportato la
destrutturazione di una professione, e forse anche l'inizio della
crisi del cinema italiano.
Oggi gli sceneggiatori stanno ricominciando ad avere voce in capitolo,
e storie in cantiere. Ci sono i grossi nomi, come Vincenzo Cerami (La
vita è bella, ma anche Porte aperte e Un borghese
piccolo piccolo) e Sandro Petraglia (Il portaborse, Il ladro di
bambini, La tregua). E c'è una nuova generazione che scrive film
pluripremiati e, ancora più incredibile, amati dagli spettatori.
Parliamo di Francesco Bruni (sceneggiatore dei film di Paolo Virzì e
Mimmo Calopresti), Enzo Monteleone (Mediterraneo, Liberate i pesci),
Doriana Leondeff (Le acrobate e Pane e tulipani, vedi
articoli collegati), Umberto Contarello (Marrakech Express e i
film di Carlo Mazzacurati), Lara Fremder (i film di Marco Bechis),
Claudio Fava e Monica Zappelli (I cento passi, che ha vinto il
premio per la miglior sceneggiatura all'ultima Mostra del cinema di
Venezia).

Gualtiero Rosella fa parte di questa generazione: insieme a Lucia
Zei ha scritto Fuori dal mondo, il film di Giuseppe Piccioni
che ha vinto cinque David di Donatello, di cui uno proprio per la
sceneggiatura.
Come ha iniziato?
Con la scuola di cinema della Gaumont, dove ho incontrato molte
persone di talento che avevano aspirazioni diverse: diventare registi,
direttori della fotografia, montatori. Eravamo tutti agli inizi, e da
lì è nata la nostra voglia di cominciare insieme. Tant'è che tre
dei registi con i quali ho lavorato provengono dalla Scuola Gaumont.
Voleva fare lo sceneggiatore fin dall'inizio?
Sì, volevo proprio scrivere. Alcuni, durante il corso di studi, hanno
scoperto un altro talento, un'altra passione: io invece ho continuato
ad avere la stessa aspirazione.
Si può imparare a fare lo sceneggiatore?
Sì, perché è un mestiere che ha a che fare più con la tecnica che
con la letteratura. Qualcuno magari si sente sminuito da questo, o ne
soffre, ma in realtà la sceneggiatura è uno strumento tecnico dalle
enormi potenzialità, perché ti permette di creare una base, e non
solo quella di un film: anche per disegnare un sito Internet ci vuole
una sceneggiatura.
Servono più le scuole o la cosiddetta bottega?
La scuola migliore sarebbe quella che passa attraverso la pratica.
Recentemente mi hanno proposto di andare a insegnare e ho risposto che
sono disposto ad accettare solo se si tratta di lavorare concretamente
con gli studenti, perché la conferenza ha un valore limitato. E'
importante il lavoro con gli altri, che è stimolante anche per lo
sceneggiatore stesso. E lo sceneggiatore può intervenire con
l'esperienza e con le tecniche che ha appreso, con la
professionalità, tra virgolette.
Dopo la scuola cosa ha fatto?
Ho scritto un primo film - del quale non farò il titolo - con un
regista di quelli convinti che lo sceneggiatore va usato e basta, che
può essere maltrattato, sottovalutato, ignorato. La prima
opportunità di un lavoro serio e importante è arrivata con Carlo
Carlei, per il quale ho scritto Capitan Cosmo e poi La corsa
dell'innocente. Poi ho lavorato con Piccioni in Cuori al verde:
i nostri obbiettivi erano chiari, ma la produzione non ci ha
sostenuto, e lentamente il film è diventato più piccolo. Dopo Cuori
al verde ho cominciato a lavorare in televisione, scrivendo due
puntate di La missione per Canale 5 e la serie Lui e lei
per la Rai. Nel frattempo cominciavo a lavorare su Fuori dal mondo.
Quali sono i suoi progetti attuali?
Ho scritto un telefilm per la Rai liberamente ispirato alla figura
di Padre Pino Puglisi, il prete siciliano ucciso dalla mafia. E sempre
per la Rai sto scrivendo una serie in sei puntate. Infine sto
lavorando a un film per il grande schermo che sarà diretto da Valerio
Jalongo ed Enzo Civitareale.
Non lavorerà al prossimo film di Piccioni?
No, ci siamo presi una pausa reciproca. Dopo un riconoscimento
importante, un regista ha bisogno di cambiare, di provare altre
strade.
Che differenze ci sono fra scrivere per il cinema e per la
televisione?
Lavorare per la tv è come guidare una macchina affidabile ma dalle
prestazioni contenute; lavorare per il cinema invece è come guidare
una fuoriserie dalle potenzialità infinite ma dove moltissimi
elementi concorrono a renderla più o meno affidabile. In televisione
hai la certezza di vedere quello che hai scritto sullo schermo, anche
se diventa più piccolo, per una serie di ragioni - i tempi sono molto
rapidi, i budget della televisione sono inferiori a quelli del cinema,
lo schermo stesso ha dimensioni ridotte. Infine, al contrario del
cinema, la televisione ti mette a confronto con un pubblico
indiscriminato e sterminato.
Il che costringe a una livellazione verso il basso?
No, la vastità del pubblico non è necessariamente una costrizione.
Ci sono opere televisive di grande dignità, anche in Italia. Certo,
non esiste niente di paragonabile a ER e alla sua grande
qualità di scrittura, ma ER è un prodotto estremamente
costoso, e non solo per via delle riprese e degli attori: i tempi di
gestazione sono molto più lunghi, l'approfondimento è maggiore e gli
sceneggiatori hanno compensi che permettono loro di cambiare vita. In
Italia né la televisione né il cinema ti rendono ricco.
Ma almeno si campa di sceneggiatura in Italia?
Per vivere di sceneggiatura bisogna lavorare tanto, il che significa
abbassare la qualità, purtroppo.
A che cosa paragonerebbe la sceneggiatura cinematografica?
A uno spartito musicale, anche se lo spartito è un'opera finita,
chiusa, mentre la sceneggiatura rimane aperta, può essere modificata
da altri - primo fra tutti il regista - per cui dev'essere precisa e
definita, ma deve anche lasciare spazi di intervento. E' il motivo per
cui alcuni sceneggiatori diventano registi, perché è difficile
affidare a qualcun altro una parte profonda e importante di te. Hai
paura che l'altro possa snaturarla, o maltrattarla.
Il suo lavoro finisce con la consegna della sceneggiatura?
No, cerco sempre di partecipare anche alla realizzazione del film: non
durante le riprese, quando lo sceneggiatore è un intralcio perché
rischia di sovrapporsi al regista, ma durante il montaggio, che è un
altro modo di raccontare una storia: ti permette di semplificare la
trama, di capire il respiro del film. Lì lo sceneggiatore diventa
fondamentale, perché è il garante della storia e deve proteggerla,
perché il regista tende a privilegiare la visione d'insieme, il
montatore il ritmo. Lo sceneggiatore invece continua a privilegiare la
trama, i rapporti tra i personaggi.
La crisi del cinema italiano si può spiegare in parte con la
carenza di sceneggiatori?
Non è un problema di carenza. In Italia ci sono bravissimi
professionisti, di grande talento e grande qualità: basta vedere Pane
e tulipani, Garage Olimpo e I cento passi, che non
sono solo bellissimi film ma anche bellissime sceneggiature. Forse
però solo adesso le produzioni cominciano a capire che quando un film
ha una bella sceneggiatura ha più possibilità di piacere al
pubblico. Il cinema vive dei registi- autori, ma se un regista vuole
arrivare al grande pubblico deve passare attraverso uno sceneggiatore,
che conosce la continuità, quel meccanismo misterioso per cui il
pubblico se ne sta seduto al cinema e dopo un po' si dimentica di
essere seduto al cinema.
Eppure spesso si pensa che siano prevalentemente le immagini a
catturare gli spettatori.
Un film fatto solo di belle immagini a un certo punto diventa noioso.
Ho appena visto The Cell, che è per l'appunto un film di belle
immagini. Nel primo tempo ti diverti, nel secondo ti annoi, perché ti
chiedi: "Qual è la storia?", e ti rendi conto che la storia
non c'è, o per lo meno ha dei buchi narrativi gravi.

Come si è trovato a lavorare con Lucia Zei, la co-sceneggiatrice
di Fuori dal mondo?
Benissimo, ma ci sono stati anche conflitti. Lavorando con più
persone il conflitto è inevitabile, ma anche quello è una parte
creativa, non distruttiva, a patto che le persone possiedano un po' di
intelligenza. Con Fuori dal mondo è successa solo una cosa che
mi ha un po' ferito: siccome l'altra metà del team di scrittura era
una donna e la protagonista della storia era una donna, alcuni hanno
pensato che la sensibilità femminile che caratterizza il film
provenisse solo dalla sceneggiatrice, e questo è vero solo in parte,
perché lavorando insieme è difficile dire, questo è mio, questo è
tuo, il femminile è mio e il maschile tuo. Fellini diceva che era
accompagnato dai suoi personaggi: se vuoi rendere vere le tue
creature, non puoi non pensare come loro, non trovare in loro una
parte di te stesso.
Secondo molti, la scena più riuscita di Fuori dal mondo era
quella fra la suora (Margherita Buy) e sua madre (Giuliana Lojodice).
Quella scena l'abbiamo scritta in tre - noi due sceneggiatori e il
regista - ognuno aggiungendo una parola, un brano di dialogo, un modo
di essere dei personaggi. E' lavorando insieme che la sceneggiatura
lievita. Fuori dal mondo ha rappresentato una bellissima
esperienza di collaborazione anche da un altro punto di vista: sono
stato sempre presente al montaggio. Il montatore ha operato alcune
scelte non previste in sceneggiatura, come quella di anticipare alcuni
dialoghi in modo che precedessero l'entrata visiva in una scena, e il
mio lavoro ne è stato esaltato.
Le foto di gruppo che inframmezzano Fuori dal mondo facevano
parte della sceneggiatura?
Sì, e devo dire che non a tutti piacevano. Erano un'idea di regia che
nasceva da un lavoro che Giuseppe Piccioni aveva fatto per Telepiù,
un'intervista a Pupi Avati nel corso della quale si era trovato a
soffermarsi sulle persone che circondavano il regista, colte nei
momenti semplici della loro vita, con la loro divisa. Siccome quello
della divisa è diventato uno dei temi di Fuori dal mondo,
l'idea di inserire nel corso del film delle istantanee dei
protagonisti nei loro abiti da lavoro ha preso corpo. Quando in fase
di montaggio alcuni hanno proposto di tagliarle, perché secondo loro
rallentavano il ritmo del film, io ne ho rivendicato la presenza,
perché secondo me erano l'espressione di una forte identità
d'autore. Una forte identità d'autore, secondo me, è quello che
manca nel cinema di oggi.
Di sicuro mancava in quello di Piccioni, che fino a Fuori dal
mondo era apparso come un regista in qualche modo indefinito.
Sono d'accordo. Giuseppe stava compiendo un percorso che io, come
sceneggiatore, avevo in qualche modo il compito di proteggere. C'è un
documentario di Wim Wenders che mi ha molto colpito, Appunti su
mode e città, che il regista realizzò per il Beaubourg.
Ad un certo punto si parlava dei collaboratori dello stilista di moda,
e si diceva che sono come angeli custodi che devono proteggere
l'artista dal tentativo di distruggere la sua opera.
O di sottostimarla. Prima di Fuori dal mondo, era come se
Piccioni nei suoi film ripetesse continuamente: "Scusate se
esisto".
(Ride) Penso anch'io che quella di proteggere il regista di un film
sia una funzione fondamentale dei suoi collaboratori. Primo fra tutti
il produttore, che decide quanto il film deve costare, il che
significa fare delle scelte: per quante settimane verrà girato il
film, se verrà girato in video o in pellicola, se ci saranno più
macchine da presa o un dolly, se si girerà con la luce “a cavallo”,
all'alba o al tramonto. Così facendo, il produttore stabilisce la
pasta di cui quel film sarà fatto.
E' cambiato qualcosa per lei dopo il successo di Fuori dal mondo?
Molto poco: i riconoscimenti non sempre corrispondono a un trattamento
migliore. Il cambiamento semmai è avvenuto dentro di me. Oggi sono
più sicuro, più tranquillo rispetto al mio lavoro, questo sì.
Secondo me si diventa sceneggiatore nel momento in cui, quando ti
fanno la fatidica domanda: "Che lavoro fai?", rispondi: “Faccio
lo sceneggiatore”. All'inizio hai timore a dirlo, anche perché la
seconda domanda è: "Che cosa hai scritto?", quindi hai
bisogno di presentare una documentazione. Oggi quando mi chiedono che
cosa ho fatto rispondo, Fuori dal mondo, e sulla carta di
identità, alla voce "professione", scrivo
"sceneggiatore".
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