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Ivan Cotroneo con Antonia Anania



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Ivan Cotroneo, ovvero "giovane sceneggiatore rampante trovasi". A 32 anni, Ivan sta salendo le tante rampe di scale, scalette e ballatoi che portano al successo: scrive e ha scritto, da solo o in compagnia, sceneggiature per il cinema (I vesuviani di Pappi Corsicato, In principio erano le mutande) e sceneggiature per la televisione (anche lui c’entra qualcosa con la miniserie Una donna per amico); traduce autori stranieri per la Bompiani (sua la traduzione de Le ore di Michael Cunningham), di cui è anche consulente editoriale e per cui ha dato alle stampe il volumetto satirico Il piccolo libro della rabbia; ha collaborato alla realizzazione di programmi televisivi come Alcatraz; pubblicherà nel 2001 il suo primo romanzo…e fa anche le sue allegre comparsate in TV, a Kitchen di Andrea Pezzi, per dirne una.

A modo suo, Ivan ci incuriosisce, è uno di quelli che vivono per scrivere e viceversa: ha orari stranissimi, è in continue riunioni creative, anche con se stesso, e ci dà l’impressione che si diverta un mondo nel mondo della cultura e della sceneggiatura. E nel momento in cui cercavamo consigli per un giovane aspirante sceneggiatore venuto dalla campagna, abbiamo pensato che Ivan fosse l’uomo per noi!.

Quando e come ha iniziato l’avventura di sceneggiatore?

Nel 1990, a 22 anni. Avevo superato la selezione del Centro Sperimentale di Cinematografia (adesso Scuola nazionale del Cinema, nda) per il corso di sceneggiatura e ho lasciato Napoli per Roma. Dopo il corso sono rimasto nella capitale e ho cominciato lentamente a lavorare. All’inizio, essendo molto giovane, ho seguito un percorso diverso: ho partecipato a vari premi per la sceneggiatura, vincendone alcuni, come il Premio Moravia e il Premio Solinas (nel 1996, con Cosa c’entra con l’amore, co-sceneggiato con Marco Speroni, Silvia Barbiera, e la collaborazione di Marco Sesti, nda). In un momento in cui io non riuscivo ancora a entrare nel mercato, i film che venivano premiati mi rassicuravano sul fatto che le storie che scrivevo, anche se non venivano prodotte, piacevano parecchio.


Da dove vengono le sue storie?

Penso che alla fine le storie vengano sempre dal mondo che sta intorno a noi, ma a volte non siamo capaci di leggerle e di trasformarle finché non le facciamo passare attraverso il nostro vissuto, quello che ci è già successo.

Lei scrivi per il cinema e per la tv: qual è la forma che esalta di più la sua creatività?

Sarebbe facile dire il cinema, per via del tipo di rapporto con il pubblico: al cinema il pubblico sceglie di vederti e questo consente una maggiore libertà d’espressione, mentre il pubblico televisivo non fa una scelta vera e propria, accende la tv ed è sottoposto a una somministrazione di fiction e programmi adeguata il più possibile ai suoi gusti, piuttosto che a quelli dello sceneggiatore. In realtà però la televisione è ugualmente stimolante perché ti permette di giocare all’interno di un percorso in cui una serie di paletti sono stati già piantati e al di là dei quali non ti puoi spingere. Quindi si tratta di un tipo di creatività diversa, che significa lavorare su misure magari più piccole.

Immaginiamoci un giovane di campagna, con una gran voglia di scrivere e vari racconti nello zaino. Un bel giorno spunta a Roma, non conosce nessuno, non ha un papà produttore, o nessun fratello, parente e fidanzato/a nell’ambiente. Che cosa deve fare?

Anch’io quando ho iniziato ero sicuramente ‘di campagna’ nel senso che, pur venendo da Napoli, non conoscevo assolutamente nessuno. Per quanto mi riguarda, le cose che mi hanno aiutato di più ovviamente sono state aver frequentato il Centro Sperimentale, e soprattutto attraverso il centro aver potuto conoscere una serie di professionisti che lavoravano nell'ambiente. Quindi il mio consiglio è di stare accanto alle persone che lavorano, perché nel campo della sceneggiatura ci sono da un lato poche regole da insegnare, e dall’altro tanti sceneggiatori professionisti che hanno invece moltissimo da insegnare come esperienza diretta. Quindi consiglio al giovane di campagna di cercare di sfruttare le occasioni, che a volte ci sono, a volte si possono creare, di confronto con i professionisti, con le persone che hanno un’idea del mercato, che lavorano tutti i giorni; di cercare di far leggere le proprie cose; di partecipare a laboratori di sceneggiatura o semplicemente, con un po’ di faccia tosta, di mandare i propri racconti e i propri soggetti cinematografici agli sceneggiatori professionisti.

Possiamo dire loro che la capacità di scrivere si insegna?

No. Si insegnano degli strumenti, il talento no. Secondo me, le scuole sono importanti più come momenti di confronto tra gli allievi, aspiranti sceneggiatori, che non per le nozioni che danno.

A proposito di nozioni ed esperienza, tra le tecniche americane e l’‘artigianato’ italiano, lei che cosa preferisce?

Ho seguito entrambe. Ho fatto l’esame d’ammissione al Centro Sperimentale con Suso Cecchi D’Amico e Age, che sono il massimo della creatività italiana; ho seguito le loro lezioni e quelle di Scarpelli e Arlorio, grandi della sceneggiatura italiana. Ho anche partecipato ad alcuni corsi di tecnica americana, ma personalmente ho una grande insofferenza per gli schemi americani. Credo infatti che valgano molto di più come strumento di analisi di quello che hai già scritto che non come guida per quello che devi scrivere. Inoltre credo che lo studio delle tecniche e delle strutture del cinema americano siano interessanti solo fino a un certo punto e che le nuove generazioni di scrittori per cinema e tv abbiano un problema con cui fare i conti: fin da quando eravamo bambini, attraverso il cinema e la televisione, siamo stati investiti dal tipo di struttura narrativa che comprende la trasformazione dell’eroe, la divisione in tre atti, una serie di costanti che evidenziano anche la colonizzazione americana a livello di fiction televisiva e cinematografica.

Che cosa bisogna fare per decolonizzarci?

Credo che si debba fare uno sforzo e cercare di staccarsi da queste tecniche standard. Io stesso ammetto che come scrittore e sceneggiatore faccio maggiore fatica ad allontanarmi da questi percorsi, che a volte sembrano obbligati, e temo che questo segnali un mio impigrimento. Credo anche che la tecnica americana sia interessante ma non si debba considerarla un dogma. Considero più importante, nel momento della scrittura, riuscire a liberarsi dai preconcetti e a immaginare anche strutture non ordinate e classiche come quelle americane. Del resto tra gli stessi film americani, mi piacciono soprattutto quelli di Kubrik, di Scorsese, che non corrispondono a questi schemi precostituiti da manuali americani di sceneggiatura.

C’è qualche film che possiamo far vedere al giovane aspirante di cui sopra, per fargli capire meglio quanto stiamo dicendo?

Mi viene in mente Fargo dei fratelli Coen e per citare un film italiano, fra quelli degli ultimi dieci anni, sicuramente Pane e tulipani di Silvio Soldini.

Possiamo anche dirgli di non preoccuparsi, che si può campare di sola sceneggiatura?

Sì, e anche tranquillamente. Personalmente ho avuto grandi difficoltà quando ho cominciato, nel senso che ho finito la scuola a un’età purtroppo considerata troppo giovane per lavorare seriamente nel campo della sceneggiatura. Ho dovuto quindi aspettare altri quattro anni prima di riuscire a mantenermi con il mio lavoro. Adesso è un buon momento per me come per tutti perché c’è una produzione di fiction televisiva molto alta e quindi c’è un mercato maggiore, ci sono richieste, insomma si lavora di più.

Una volta rassicurato, il nostro sceneggiatore di campagna ha iniziato a telefonare e ad appostarsi alle porte delle case di produzione e finalmente, per qualche miracolo, ha ottenuto un colloquio con un produttore. Come dovrebbe comportarsi?

(Ride) Beh, dipende dal produttore, però dovrebbe semplicemente fargli leggere le cose che scrive. Io credo molto nella circolazione e nello scambio delle idee. Penso che non bisogna essere diffidenti e bisogna far leggere quello che si è scritto, mettersi in contatto con le persone, parlare, esprimere pareri. Perché il mondo della sceneggiatura è un mondo dialettico, vuole un tipo di scrittura che non si può tenere nel cassetto, non è come scrivere un romanzo e andare in cerca dell’editore. Se uno è pronto a fare lo sceneggiatore deve anche aspettarsi di poter andare da un produttore con una sceneggiatura che per lui è molto importante e sentirsi dire che quella sceneggiatura non va bene ma che gliene viene commissionata un’altra su un soggetto completamente differente.

Ci sono personaggi o generi sono più vendibili di altri, preferiti sia dai produttori che dal pubblico?

No. Ovviamente è sotto gli occhi di tutti che la commedia è il genere per eccellenza preferito dal pubblico. Il cinema italiano, a parte la commedia, che comunque è presentata sotto diverse forme, non conosce generi veri e propri come il giallo, il thriller, o il western. Ci sono però ondate periodiche che purtroppo dipendono molto dal successo di film precedenti che appartengono allo stesso filone. Quindi nelle richieste, specialmente quelle dei produttori, si finisce spesso per arrivare in ritardo perché loro, basandosi sul successo di un certo tipo di film, commissionano altre storie sullo stesso genere, mentre probabilmente quando il film di quel genere ha raggiunto il successo, ha già esaurito le sue potenzialità e non è detto che, facendo lo stesso genere, riesca a raccogliere lo stesso bacino di pubblico.

Adesso basta con i consigli e le teorie, parliamo solo di Ivan Cotroneo: oltre al kolossal sulla sua vita, qual è il film o il format dei suoi sogni?

(Ride). Cerco di non scrivere mai direttamente della mia vita. Mi diverte molto accorgermi che a volte, nonostante le mie resistenze, nelle storie che scrivo vengono fuori comunque delle cose molto personali. Ma per fortuna nessuno se ne accorge. Il cinema ombelicale e autobiografico ci ha regalato dei capolavori, ma per quanto mi riguarda questa tendenza non mi interessa. Il film dei miei sogni credo sia una storia d’amore contemporanea, che sia contemporaneamente commovente e moderna, qualcosa che somigli ai grandi film romantici che mi piacciono come spettatore.

Dall’amore alla rabbia: Il piccolo libro della rabbia nasce forse dalle sue passate frustrazioni come sceneggiatore?

(Ride). No, Il piccolo libro della rabbia nasce da una serie di circostanze: il lavoro come consulente editoriale e traduttore per la Bompiani, che mi ha dato modo di trovare subito un editore; una insofferenza verso tutti i manuali new age che invitano a restare calmi a tutti costi, invito col quale non sono affatto d’accordo; e poi una arrabbiatura di carattere personale, che non ha a che fare con la mia professione, ma con la persona alla quale ho dedicato il libro, e che naturalmente sa chi è.

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