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Letti per voi/Pane e tulipani: come l'abbiamo scritto



Doriana Leondeff con Dino Audino




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Questa intervista è apparsa sul numero 23/24 della rivista Script, della quale Dino Audino è direttore ed editore. L'indeirizzo e-mail della casa editrice è dinoaudino-script@iol.it .

Cara Doriana, prima di parlare di Pane e tulipani, vorrei che tu raccontassi qualcosa dei tuoi esordii. Ci conosciamo ormai da alcuni anni, da quando partecipasti al 1° Corso di formazione e perfezionamento per sceneggiatori che Script organizzò per la RAI, ma a parte un padre bulgaro e una casa a Sofia so poco di te.

Beh, diciamo che sai le cose fondamentali. Scherzo… però a queste mie origini balcaniche ci sono molto affezionata. Per completare il profilo antropologico posso aggiungere che mia madre è siciliana e che io sono nata e cresciuta a Bari. Da molti anni però vivo a Roma dove mi sono trasferita per frequentare l’università e tentare l’esame al Centro Sperimentale di Cinematografia. E’ andata bene, mi sono diplomata in sceneggiatura nell’ ’87 e mi sono anche laureata in Storia del Cinema. Prima di venire a Roma, però, ho passato un anno a Londra, una specie di anno sabbatico che mi sono presa tra il liceo e l’università. Te lo racconto perché quest’idea di scrivere per il cinema è nata lì.

Un giorno, uscendo dalla mia scuola d’inglese, ho visto una porta socchiusa e siccome sono curiosa ho sbirciato dentro. Proiettavano un film per me assolutamente sconosciuto, ma con delle immagini di una potenza straordinaria. Sono rimasta inchiodata. Ho scoperto poi che era Andrej Rublev, di Tarkovskij, nome che a me all’epoca non diceva niente e che il posto in cui ero finita non era un cineclub ma la London Film School.

Da quel giorno ho incominciato a imbucarmi alle lezioni, ho fatto amicizia con alcuni allievi e ho dato una mano per i loro cortometraggi. Poi una ragazza iraniana, a cui avevo detto che scrivevo dei racconti, mi ha chiesto se volevo scrivere assieme a lei una piccola sceneggiatura e così di notte a casa sua, bevendo tè e fumando bidi abbiamo buttato giù questo corto di cinque minuti. Dopo pochi giorni lei l’ha girato e l’ha montato e io mi sono ritrovata improvvisamente davanti le nostre fantasie notturne materializzate sullo schermo. Il gioco mi è piaciuto e ho deciso di andare avanti.

Sono tornata in Italia e dopo il Centro Sperimentale ho cominciato a collaborare con Nicola Badalucco, che era stato mio docente e che mi diede la possibilità di collaborare alla scrittura di alcune fiction televisive. Poi, agli inizi degli anni ‘90, ho frequentato quella sorta di bottega artigiana che si era creata attorno a Sonego. Sono stati anni di apprendistato dai quali sono via via uscita cominciando a scrivere per giovani registi della mia generazione che tentavano la via del cinema indipendente.

La prima volta che un mio copione stava per essere girato è stata con Marco Turco. Un’esperienza un po’ frustrante perché il film si fermò per motivi produttivi a qualche giorno dall’inizio delle riprese. Puoi immaginarti la delusione, il tuo primo film che salta così. In compenso è stata un’esperienza che mi ha permesso di capire dall’interno come si fa un film.

Poi alcuni anni dopo con Marco e con Andrea Porporati abbiamo scritto Vite in sospeso, che per fortuna è stato girato, è andato a Venezia dove ha ricevuto un’accoglienza molto buona e ha anche avuto la Grolla d’oro a St. Vincent per la sceneggiatura e il premio come migliore opera prima. Speravamo nell’uscita in sala, ma così non è stato, anche perché il film, che parla della vita di alcuni ex terroristi italiani rifugiati a Parigi, è stato prodotto dalla Rai ed è stato mandato in onda come “evento speciale” a ridosso dell’assassinio di D’Antona rivendicato dalle nuove BR. Peccato, perché non essendo stato previsto nella programmazione, non ci sono stati trailers, né era menzionato tra i programmi TV della settimana e quindi il film, che tratta temi abbastanza ostici, è stato visto meno di quanto sperassimo.


Comunque vorrei tornare un attimo indietro, perché prima di Vite in sospeso ho scritto un altro film per Claudio Del Punta, Trafitti da un raggio di sole, altra esperienza di cinema marginale, girato con pellicola che poi si è scoperto essere scaduta, costato ottanta milioni, con un’uscita estiva nelle sale ma con molte partecipazioni a piccoli festival dove è stato ben accolto.

Più o meno è in questo periodo, alla metà degli anni ‘90, che inizia la mia collaborazione con Soldini. Silvio si stava un po’ guardando intorno alla ricerca di qualcuno con cui scrivere il suo prossimo film e leggeva molti soggetti e sceneggiature di giovani. Un amico comune, Mario Sesti, ha pensato che tra noi le cose potessero funzionare ed è stata una buona intuizione. Io ho fatto leggere a Silvio dei racconti che erano stati scritti liberamente, senza pensare al cinema. Lui evidentemente vi ha visto qualcosa e così abbiamo cominciato a lavorare a Le Acrobate, poi abbiamo scritto un cortometraggio di 30 minuti per la Televisione della Svizzera Italiana e dopo siamo approdati a Pane e tulipani.

Fammi subito capire una cosa. Quando in un’intervista pubblicata proprio su un numero precedente di Script Soldini accennava al fatto che gli sarebbe piaciuto fare una commedia, rimasi interdetto. Uno svizzero e una bulgara che scrivono una commedia per l’Italia? Da non credere.

E’ vero, sulla carta la cosa doveva suonare abbastanza bizzarra. Ma questo desiderio in realtà c’era da tempo. Di tanto in tanto nei film precedenti di Silvio, e forse soprattutto ne Le Acrobate, si intravedeva qualche tentativo di andare in una direzione più lieve ma da questo a immaginare una commedia ne passa, me ne rendo conto. Io credo di avere delle corde che vanno in quella direzione, ma non è stato facile tirarle fuori. Anche perché forse per fare una commedia ci vogliono una disinvoltura e una libertà che all’inizio non è facile avere. Insomma, mi sembra che lo scherzo e la leggerezza siano una conquista, qualcosa a cui ti puoi lasciare andare quando hai raggiunto una tua identità umana e professionale.

Credo tu abbia ragione, non a caso la commedia dal punto di vista strutturale non viene considerata genere ma una modalità con cui può essere trattato qualsiasi genere. Proprio perché è uno sguardo, un punto di vista sulla realtà che implica l’osservazione distaccata e al tempo stesso complice, affettuosa e ironica degli avvenimenti. Filosoficamente il tono della commedia è quello del saggio che colloca ogni accadimento nell’ambito dell’estremamente relativo rispetto al tutto, e dunque permette di affrontare qualsiasi problema con levità, con quella leggerezza appunto che si conquista quando si diventa un po’ più maturi.

Io credo che Silvio fosse proprio in questa fase quando ha sentito la voglia di misurarsi con questi toni e io, proprio perché attraverso la collaborazione precedente con lui avevo conquistato più sicurezza e fiducia, ho potuto assecondarlo e spingerlo in questa direzione. E così abbiamo cominciato a pensare a una storia in cui i personaggi non fossero problematici come quelli dei film precedenti, anzi avessero poca psicologia. Il che non significa che non fossero reali o non avessero un percorso o un’evoluzione, ma che questo avveniva con meno dialoghi e più per azioni, per situazioni, che loro e la storia erano credibili ma non realistici. Il tutto trattato con il tono della commedia.

Avevate in mente modelli o punti di riferimento?

In quel periodo abbiamo rivisto molte commedie americane tipo Susanna di Hawks o L’appartamento di Wilder, ma soprattutto Lezione d’amore di Bergman, che non avevamo mai visto e che per entrambi è stato una rivelazione, ci ha comunicato una carica, un’energia... se il grande Bergman di Sussurri e grida si era cimentato con la commedia, anche noi nel nostro piccolo potevamo provarci.

E poi abbiamo riletto molto teatro francese, le commedie degli equivoci, Marivaux soprattutto. E proprio mentre discutevamo di queste cose, un giorno abbiamo trovato nella cassetta delle posta un volantino stile “Gita a Pompei 19.900 lire, tutto compreso”.

E’ stato il vostro incidente scatenante, quello che ha dato il via alla vostra avventura.

In un certo senso. Abbiamo cominciato a pensare a come poteva essere una donna che partecipava a questa gita, una casalinga come tante con un marito e dei figli. Una donna non tormentata e non frustrata, una persona semplice, serena, che vive la sua condizione con apparente tranquillità; con un desiderio ingenuo mai realizzato: vedere Venezia. Poi un banale incidente come l’attardarsi nei bagni di un autogrill, l’essere dimenticata dal gruppo e l’offerta di un passaggio da una donna un po’ eccentrica la proiettano verso un’avventura inattesa.

E’ buffo perché anche da come lo racconti sembra proprio l’esposizione del viaggio dell’eroe descritto da Vogler. L’entrata nel mondo straordinario che segna l’inizio del viaggio dopo la fine del primo atto nel vostro caso avviene in modo letterale. Rosalba, accettando il passaggio in auto, esce dalla sua quotidianità, il mondo ordinario in cui fino a quel momento è vissuta e fisicamente finisce a Venezia. Non solo ma all’inizio, la visita agli scavi, il marito, la guida turistica, tutto viene raccontato come una commedia all’italiana, in modo accurato, divertente, ma in una chiave realistica mentre tutta l’avventura di Rosalba è narrata con un altro registro.

Sì, è proprio così, è stato un cambio di registro pensato e voluto rispetto alla comicità tradizionale a cui siamo abituati. E’ un po’ quello che ti accennavo prima rispetto alla commedia americana, scegliere dei personaggi prescindendo da psicologie sociologicamente “corrette”. Il nostro cameriere non è quello che uno si aspetta sia un cameriere e la nostra casalinga non è una donna abbrutita dal lavoro domestico e dalle soap opera, anzi anche lei a Pescara le vede, perché no, ma poi suona la fisarmonica. Insomma, abbiamo costruito i personaggi con quella libertà e leggerezza di cui parlavamo.

E poi anche i temi toccati dal film non sono distanti da quelli seri affrontati da Silvio nei suoi lavori precedenti, si parla sempre del processo di crescita di un personaggio, della sua presa di coscienza, della messa in crisi di una situazione familiare, insomma cose di un certo peso, ma tutte raccontate con uno sguardo più lieve, se vuoi più affettuoso, più vicino ai personaggi.


Tutto quello che dici mi conferma che in realtà quello che voi avete raccontato e per come lo avete raccontato rimanda alla favola. Sia nella struttura che nel tono, una favola con le modalità della commedia. Avete costruito, quanto consapevolmente o meno me lo dirai adesso, l’ennesima variante di Cenerentola, un po’ come Pretty Woman. E’ proprio il fatto che ci sia una rottura di tono, un cambio di registro tra il set-up realistico e l’avventura di segno non realistico, che permette di rendere accettabili allo spettatore non solo i sogni ma quelle situazioni limite tipo Fernando che cerca di impiccarsi con quel nodo scorsoio, l’investigatore grasso e mammone o il fioraio anarchico.

Insomma, una volta entrati nell’universo che avete mano a mano costruito noi del pubblico siamo disposti ad accettare tutto perché avete forzato i toni, creato situazioni al limite ma senza mai rompere la credibilità interna della storia. Nel momento in cui mi accorgo che mi si sta raccontando una favola moderna in chiave di commedia, io spettatore accetto di seguirti. Su questo siete stati bravissimi.

Aspetta un attimo. Proprio nella scena di Ganz che tenta il suicidio la comicità nasce dal fatto che c’è un cappio enorme che ammazzerebbe un bue, quello fa ridere e a nessuno viene in mente di chiedere perché Fernando vuole suicidarsi.

Rispetto alla favola, io credo che noi all’inizio non è che fossimo coscienti di stare andando in quella direzione, direi che il film è venuto mano a mano a perdere sempre più ogni connotazione naturalistica, si è come prosciugato per far venir fuori sempre meglio solo l’essenza dei personaggi e l’intreccio delle loro storie. Ho riletto proprio pochi giorni fa il soggetto e lì c’era già tutto. Nel senso che non solo l’idea di quale fosse il percorso di Rosalba era già delineata, ma proprio che effettivamente l’avevamo scritto in modo un po’ favolistico.

Ad esempio, a conferma di quanto questa voglia di sfrondare tutto quello che non era essenziale sia stato un work in progress, c’è una scelta che Silvio ha fatto in montaggio quando ha deciso di togliere una scena in cui Rosalba cena a casa dell’amica massaggiatrice. Era una scena venuta molto bene, in cui i personaggi parlavano tra loro, si confidavano. Ma come dire, forse diventavano troppo veri, troppo quotidiani, si andava troppo nel realistico.

Come avete scelto Bruno Ganz per il ruolo di Fernando?

Nella prima versione della sceneggiatura il cameriere era italiano, poi abbiamo cominciato a pensare che uno straniero, che parlasse quell’italiano forbito mutuato dall’Ariosto, sarebbe stato più credibile. E’ stato in quel periodo che Silvio ha letto un’intervista in cui Ganz, che era in Italia per presentare il film di Anghelopulos, diceva che tra i registi italiani gli sarebbe piaciuto lavorare con Soldini. L’amico americano che diceva una cosa del genere. Mica male, no? Così Silvio è andato a Zurigo a incontrarlo, lui ha letto il copione e si è innamorato subito del suo personaggio. La madre di Bruno era italiana e lui ha un legame molto forte con quelle sue radici, quindi gli faceva piacere girare un film qui e recitare nella nostra lingua. Credo poi che lo stimolasse molto anche l’idea di interpretare un ruolo così inedito per lui che non aveva mai fatto una commedia. Certo sulla carta le cose si complicavano.

Non solo Soldini-Leondeff ma anche Ganz-Maglietta, due attori straordinari ma non certo dei mattatori. E per fortuna. Perché quella loro nobiltà ha conferito grande spessore ai personaggi. Con Bruno, poi, c’è stato questo gioco molto divertente di trovare la nazionalità di Fernando. Anche qui non volevamo una connotazione geografica che rimandasse a vicende politiche o di cronaca. Quindi via l’Est e via anche la Germania e gli altri paesi di lingua tedesca che erano troppo vicini alle sue vere origini. Alla fine è stato lui stesso a proporsi come islandese. A me l’idea di questo paese europeo però misterioso e defilato mi è subito piaciuta e mi è subito venuta in mente una reminiscenza leopardiana, Il dialogo della natura e di un islandese.

Vedi che continuiamo sulla favola? Il principe azzurro che viene da un’isola lontana, un po’ fuori dal tempo così come è fuori dal tempo il suo italiano, il suo modo di parlare e il suo modo di agire. Credo proprio che questo sia uno di quei film in cui aver trovato l’attore giusto ha decuplicato le potenzialità evocative della storia e tutte nella direzione del sogno.

Anche perché dall’altra parte, la realtà è un marito che vende sanitari e infissi in alluminio a Pescara. Però ecco, ho detto questa cosa come pensando ad alta voce, ma non è che noi abbiamo costruito i personaggi per antitesi, anzi al contrario. Ognuno di loro è stato pensato e scritto come un protagonista, con la propria identità, le emozioni e la storia. Solo che tutta questa vicenda noi l’abbiamo raccontata dal punto di vista di Rosalba, rispetto alla quale il marito o l’amica Grazia o l’idraulico-detective Costantino diventano dei comprimari.

Ma ci sarebbe piaciuto poter raccontare anche la storia di ciascuno degli altri, rispetto alla quale Rosalba sarebbe diventata un personaggio secondario. Voglio dire che amare tutti i personaggi del proprio film, seguirli con affetto anche se le loro parti sono minuscole è una cosa che ci piace molto e che con Silvio avevamo cominciato a fare già ne Le Acrobate. Quest’idea di lavorare a caldo, coinvolgendosi, guardando i personaggi dall’interno è una mia fissa da sempre, non so fare in altro modo, anzi credo che sia il motivo principale per cui faccio questo lavoro. E ne Le acrobatec’è una battuta che mi sono portata dentro in questi anni e che ha qualcosa a che vedere con Pane e tulipani. In una delle ultime scene del film, le due protagoniste si ritrovano a passare la notte in un alberghetto alle falde del Monte Bianco. La bambina si è addormentata e loro finalmente parlano. A un certo punto Maria dice a Elena qualcosa che suona più o meno così: “Hai presente una di quelle giornate in cui ti senti addosso un’energia incredibile e vorresti abbracciare la gente sull’autobus, e sei sicura che da un momento all’altro ti succederà qualcosa… qualcosa di bello”. Ed Elena: “Ma a te poi succede?” e l’altra risponde: “No”. E ridono. Ecco, questa volta c’era il desiderio di dire: e invece sì. Volevamo che qualcosa di bello questa volta succedesse.

Ma visto che stiamo parlando del finale avete avuto coraggio a far fare la dichiarazione di Fernando davanti al figlio e a portar via Rosalba da una famiglia, non solo da un marito. Voglio dire che ti assumi un bel rischio quando decidi di raccontare una favola per donne in cui il prezzo da pagare per l’amore è un pezzo di maternità.

Mamma mia, certo detto così mette paura. Però, noi non l’abbiamo mai pensata in questi termini e non abbiamo neanche pensato di fare una favola per donne. Il problema della scelta di Rosalba ce lo siamo posti, naturalmente, e l’abbiamo anche ironicamente esplicitato nel biglietto che lei lascia a Fernando quando torna a Pescara. “Sono una madre snaturata, torno alla mia famiglia e ai miei doveri”. Ma poi quando lei arriva a casa e cerca un dialogo con il marito lui le risponde: “Fai conto che per me non è successo niente”, che è la cosa peggiore che uno si possa sentire dire. E poi c’è il figlio più piccolo Nic che la segue a Venezia e in tutto il film, anche dalle poche scene che si svolgono a Pescara, viene comunque fuori una sorta di spaccatura già insita nella famiglia.

Il figlio grande è ormai autonomo, ha una fidanzata Cinzia che non si vede mai ma che lui nomina in continuazione ed è chiaro che seguirà le orme del padre, mentre il piccolo è più inquieto, meno allineato, sicuramente più simile alla madre. Quindi in fondo la scelta di Rosalba non fa che sancire una specie di divisione di affetti che già era presente. Ci piaceva poi che tutto questo avvenisse con naturalezza senza scatenare drammi né conflitti.

Restiamo ancora nel settore rischi. I sogni non lo erano?

Altroché. E ce li siamo assunti proprio come una sfida. Ci dicevamo un po’ divertiti e un po’ incoscienti, proviamo a fare quello che al cinema tutti dicono non funzioni. Quello che di solito si gira e poi si taglia. Penso che soprattutto per Silvio sia stata una bella scommessa dal punto di vista registico.

Ma probabilmente vi servivano anche per sostenere il personaggio di Rosalba...

Sì, abbiamo pensato che una donna che lascia marito e figli soprattutto in Italia non è pensabile senza sensi di colpa. Noi non volevamo però che andassero a creare complicazioni psicologiche nel nostro personaggio e così abbiamo deciso di tenerli presenti attraverso i sogni. Che poi non è che siano proprio sensi di colpa, ma preoccupazioni vere di una persona che si allontana dal suo mondo e che però non smette di volere bene ai figli e, in fondo, nemmeno al marito. Infatti, quando torna a casa forse sarebbe anche disposta a riaprire il discorso con Mimmo, si fa carina, si mette una bella camicia da notte scollata, ma poi lui dice quella frase atroce e lei, poveretta, si raggela.

Forse anche se dal punto di vista del racconto sono ininfluenti, i sogni e il modo in cui Soldini li ha girati servono anche a farci entrare in quell’atmosfera un po’ magica in cui si svolge il racconto, a rafforzarci nell’idea che siamo in un mondo incantato.

Sì, assolutamente sì. Ma anche ci divertiva l’idea di giocare con alcuni elementi della psicanalisi, fare costruzioni di nessun senso, estrapolando chessò i cavoletti di Bruxelles citati nel racconto della donna che dà il passaggio in auto a Rosalba e ricollocarli nel sogno in un altro contesto senza che questo avesse per noi altro significato che non il gioco.

Torniamo un attimo indietro ad un altro momento del film, quello che conclude lo”stato di grazia” nel rapporto tra Fernando e Rosalba e precede l’inizio della “caduta”. Loro sono nella balera, Fernando è seducente, cita l’Orlando Furioso, Rosalba sta per cedere. Perché non li avete fatti concludere prima di imporgli il distacco?

Guarda, nel soggetto in effetti loro passavano una notte d’amore. Poi il mattino dopo Rosalba confessava a Fernando di aver tradito il marito per la prima volta e c’era già scritta la battuta di risposta di Fernando, che diceva una cosa del tipo: “Sono molto lusingato che abbia scelto il sottoscritto come termine di confronto”. Poi però abbiamo pensato che era uno sbaglio, una forzatura. Come quando dentro una canzone c’è una nota stonata. Forse era un esito troppo prevedibile e fin troppo verosimile. E poi c’era la battuta finale di Rosalba: “Non vorrei sembrarle precipitosa, ma se ci dessimo del tu?” che avrebbe perso molta della sua forza.

Devo dire che trovo tutto il film di grande coerenza interna per questa capacità di camminare sempre sul filo di un registro al limite del sopra le righe, ma senza sfociare nel grottesco. Forse qualche dubbio viene per il personaggio di Costantino e della sua improbabile storia con Grazia la massaggiatrice. Lì, pur all’interno dell’universo di una favola, la sospensione dell’incredulità mi si è incrinata.

Ma no, perché dici questo? Costantino è un personaggio adorabile, a parte che l’attore che lo interpreta, Beppe Battiston, è bravissimo, viene dal teatro ed è stato voluto fin dall’inizio da Silvio che lo aveva già utilizzato per due piccolissimi ruoli in Un’anima divisa in due e ne Le Acrobate. Poi trovo credibile che il suo personaggio di ragazzone un po’ ingenuo ma onesto e sensibile possa affascinare una come Grazia che in fondo ha un temperamento molto romantico. E poi Grazia e Costantino sono un po’ gli attori giovani della commedia dell’arte ai quali è concesso di andare un po’ più sopra le righe. Tutto il loro innamoramento è raccontato in chiave scherzosa. Quando lei gli fa il massaggio, sente come un fluido che sale su dal corpo di Costantino e quasi si brucia le mani. Però la dichiarazione d’amore che lui le fa è piena di verità e secondo me anche molto toccante.

Il personaggio di Costantino poi è quello che più ci ha permesso di giocare con i generi, dalla detective story al film di guerra nella scena dell’addio alla madre, al western nell’incontro con Rosalba in mezzo alla piazza deserta. Ed è anche uno dei personaggi su cui più abbiamo lavorato nel passaggio dalla prima alla seconda stesura. Ad esempio nella prima lui a Venezia andava ad abitare in una pensione, poi abbiamo pensato che sarebbe stato un raddoppio dell’esperienza vissuta da Rosalba e allora ragionando sul suo carattere, sulla sua ingenuità, gli abbiamo cucito addosso quell’episodio un po’ alla Pinocchio con il gatto e la volpe, con quel tipo losco che l’aggancia alla stazione e lo slavo che l’aspetta all’hotel che poi è un barcone in disarmo.

A proposito, ma come lavorate insieme tu e Soldini?

Diciamo che oggi lavoriamo in modo diverso rispetto al primo film. Per Le acrobatei o mi sono trasferita a Milano e per mesi ci siamo visti tutti i giorni lavorando fianco a fianco, discutendo minuziosamente ogni dettaglio. Poi ci dividevamo le scene e dopo magari ce le scambiavamo. Per Pane e tulipani è stato diverso, ha funzionato più per full immersion. Discutevamo a lungo per alcuni giorni, poi io buttavo giù rapidamente del materiale che diventava il punto di partenza per il lavoro successivo. Molte scene le abbiamo scritte insieme, inventando le battute lì per lì e facendoci grandi risate.

Soprattutto far parlare Fernando è stato esilarante, alla fine eravamo diventati velocissimi nel tradurre dal “fernandese” all’italiano, proprio come quando ormai ti sei impadronita di una lingua straniera. Scrivere Pane e tulipani è stato davvero molto divertente e sicuramente ha contaato il fatto di avere già alle spalle un’esperienza in comune perché la fiducia reciproca è alla base del lavoro di scrittura. C’è sempre il rischio di censurarsi e invece devi mettere in conto di dire anche un sacco di sciocchezze. Comunque tutta la prima parte del film l’abbiamo scritta in scioltezza, invece quando si è trattato di affrontare la nuova vita di Rosalba a Venezia è venuta la parte più difficile.

Perché più difficile?

Perché mentre rispetto alle altre figure ci muovevamo con più disinvoltura, nei confronti di Rosalba e della sua storia con Fernando sentivamo una maggiore responsabilità. E c’era poi quella difficoltà oggettiva di cui parlavamo prima: raccontare una storia verosimile che sembrasse vera ma non reale e così più le scene riguardavano il quotidiano più erano difficili. A un certo punto abbiamo capito che meno spiegavamo meglio era. Come all’inizio, lei è nell’autogrill, il marito le dice di stare là e non muoversi e nella scena successiva la ritroviamo in macchina con una sconosciuta.

Così si saltavano tutti quei passaggi inutili e noiosi e si entrava subito nel vivo della situazione che ci interessava raccontare. Ecco, quella era la strada. Andare spediti, procedere per ellissi, immaginare un percorso in discesa e non in salita. Nell’ultima parte del film c’è quella scena in cui Rosalba e Fernando tornano a casa dopo la balera. Sono tutti e due allegri e un po’ brilli. Sulle scale lei ripete alcuni versi dell’Orlando furioso che lui nel frattempo le ha insegnato. Dice: “Salirono balze”. E lui la corregge: “Saliro balze”. Noi potremmo dire: “discesero balze”, anzi “disceser”. E tra le tante cose che si sono scritte sul film, una mi ha fatto particolarmente piacere: la definizione di Pane e tulipani come primo film ariostesco nella storia del cinema italiano.


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