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Senza barriere né confini
Ivan Cotroneo
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Rodolfo Sonego
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul catalogo
della Settimana della Critica, Festival del Cinema di Venezia 2000.
Lavoro come sceneggiatore per il cinema e la televisione, e lavoro
come traduttore e consulente editoriale per Elisabetta Sgarbi della
Bompiani. Siedo in una postazione virtuale da osservatore
privilegiato, in cui vedo letteratura e cinema, libri e film (ma anche
arti visive, teatro, musica) influenzarsi e mutarsi scambievolmente,
in un rapporto di reciproca permeabilità; assisto al proliferare di
un mondo in cui i confini espressivi, le forme prestabilite, i
linguaggi specializzati non esistono più. E per fortuna.
In questo mondo che si agita furiosamente davanti ai miei occhi può
accadere che un film ambientato nel nostro secolo spinga nelle
classifiche dei libri più venduti le opere di poeti appartenenti a
epoche lontane (Auden, per Quattro matrimoni e un funerale) o
di storici appartenenti a epoche lontanissime (Erodoto, per Il
paziente inglese). In questo mondo, sregolato e irresistibilmente
accattivante, gli adattamenti cinematografici di drammi di Shakespeare
scatenano azzardate traduzioni moderne e nuovi saggi critici, le
riduzioni per il grande schermo dei classici di Jane Austen spingono
autori letterari contemporanei a scrivere dei sequel (è il caso di Emma)
e i film biografici non solo fanno diventare popolarissimi musicisti
ostici come Rachmaninoff (per Shine), ma incrementano la
diffusione e la produzione stessa di biografie su carta stampata.
Ma non è solo una questione di marketing, non è una sola vivacità
di numeri e copie legata al successo commerciale e alla larga
distribuzione di un film. Deve esserci qualcosa in più. Come spiegare
altrimenti che autori di film difficilmente catalogabili pubblichino
dei libri trasformando in letteratura la propria ansia di
sperimentalismo, mutuando dal linguaggio cinematografico proprio e
altrui una nuova forma di scrittura (è il caso di Harmony Korine, Gus
Van Sant, Oliver Stone)?
Come spiegare il fatto che Pulp Fiction, che già dal titolo
riporta alla luce una forma letteraria popolare ampiamente praticata
ma all’uscita della pellicola sofferente di un calo di interesse,
scatena di colpo una nuova produzione di finzione letteraria pulp che
non può più prescindere non solo dai precedenti romanzi pubblicati,
ma dallo stesso impianto narrativo e linguistico di Tarantino (i
monologhi deliranti su canzoni di Madonna e hamburger sono diventati
una costante in tutta la produzione letteraria recente del genere)?
Come spiegare ancora dopo Shakespeare in Love la proliferazione
di romanzi di impianto storico in cui personaggi realmente esistiti
vivono le singolari storie d’amore (su cui i narratori letterari
possono sbizzarrirsi) che la Storia non ci ha mai raccontato?
Quello che vedo, quando siedo in questo posto di osservazione, e
quello che vivo, quando invece scrivo, è che le barriere sono state
abbattute, e una volta per tutte. La commistione di generi, che fino a
qualche tempo fa sembrava la novità, è diventata con grande evidenza
una commistione di mezzi oltre che di tecniche, e quanto di più
interessante abbiamo visto, letto, ascoltato, vissuto con i sensi
negli ultimi anni, se conosce una affascinante difficoltà di
definizione, ha però un’impressionante quantità di padri e madri.
Il nuovo e religiosamente fedele Psycho di Gus Van Sant non si
spiega non solo senza le teorie artistiche di Duchamp, ma senza i
popolari rap quasi totalmente campionati di Puff Daddy; Blu di
Jarman (che è in sé un’opera tanto letteraria quanto
cinematografica, o forse né letteraria né cinematografica) non
esiste senza i monocromi blu di Klein esposti nelle gallerie d’arte
di tutto il mondo, e L’Amore Vincitore di Roberto Nanni,
riscrittura letteraria per immagini del Jarman del periodo blu, è
solo il capitolo successivo e non definitivo di un continuo lavoro di
appropriazione, espropriazione e riappropriazione di linguaggi e temi,
immagini e parole.
I tempi si muovono in fretta, e non c’è priorità, non ci sono
contenitori a chiusura stagna, le regole sono poche e quelle che ci
sono non valgono più. Scorsese ha scritto dal nulla il romanzo della
New York anni ’70 con Mean Streets, e ha riscritto le
evoluzioni incontrollabili della stessa metropoli venti anni dopo con Al
di là della Vita, questa volta partendo da un romanzo
preesistente.
Quando penso a cosa resterà degli anni ’80, giusto per restare in
tema e usare in queste poche righe il materiale pop di una canzone
presentata a Sanremo (di Raffaele Riefoli, in arte Raf), penso al
racconto di formazione quasi dickensiano che ha scritto Paul Schrader
con American Gigolò e alla sintassi indubitabilmente
cinematografica del romanzo American Psycho di Bret Easton
Ellis.
Non so cosa racconterà meglio o più efficacemente questi anni che
stiamo vivendo. Potrebbe essere un film, un romanzo, uno spot
pubblicitario, un cartello stradale, un talk show televisivo, uno
spettacolo di performance art, un tostapane dal design innovativo o le
plastiche al silicone che si muovono ondeggianti per le strade; quello
che so è che non una di queste manifestazioni esisterebbe senza le
altre, senza essersi appropriata del linguaggio, dei modi, delle
parole, delle immagini, del successo e dell’insuccesso altrui.
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