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Raccogliere la sfida clericale



Federico Coen



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Federico Coen è il direttore dell'edizione italiana della rivista Lettera Internazionale (e-mail: lettera.int@tiscalinet.it ). Quella che segue è la realazione al Convegno: "Scienza, chiesa e libertà" organizzata a Roma il 20 settembre dal Partito Radicale.

Sono stato invitato a parlare, a nome della Società Laica e Plurale, del significato politico della beatificazione di Pio IX. E dico subito che, pur appartenendo io a una famiglia ebraica, non tratterò la questione sotto il profilo dell’antisemitismo, come si è fatto ripetutamente in televisione e sulla stampa. Non parlerò del caso Mortara, né delle mura del Ghetto, demolite e ricostruite, né delle tante umiliazioni subite dalle famiglie ebraiche a Roma e nello Stato Pontificio, prima e durante il pontificato di papa Mastai (segnalo in proposito il bel libro appena uscito di Carlo Villa, recensito dalla mia rivista, Lettera Internazionale). Non parlerò di tutto questo semplicemente perché, come tutti sappiamo, l’antisemitismo percorre tutta la storia della Chiesa, non è stato certo inventato da Pio IX, ma risale a quasi tutti i suoi predecessori, compresi molti santi e beati.

La questione è un’altra: la beatificazione di papa Mastai è un’offesa rivolta alla nazione italiana, alla Repubblica italiana, a quello Stato nazionale e a quel moto risorgimentale che Pio IX cercò in tutti i modi di ostacolare con la forza prima e di demonizzare poi con le scomuniche, lasciando ai suoi successori un mandato che per sessant’anni ha pesato sulla politica italiana e in qualche modo pesa ancora. E, cosa ancora più grave, l’offesa è stata rivolta a tutto il pensiero politico moderno che con il Sillabo il beato Pio IX ha cercato di demonizzare in tutti i suoi aspetti, non solo nel liberalismo e nel socialismo, ma anche nelle più elementari regole democratiche e nello Stato di diritto, che sono o dovrebbero essere le fondamenta della Repubblica italiana.

Non meritava questa duplice offesa, questa sfida, una risposta al livello delle istituzioni? Io credo di sì. Ma certamente meritava una risposta al livello dei partiti che si proclamano democratici e progressisti. Invece anche questa risposta non è venuta, o è venuta solo da minoranze. Non dobbiamo meravigliarcene. Questa insensibilità non è che il sintomo di una malattia profonda che ha avuto in questi ultimi anni una serie di manifestazioni preoccupanti. Non solo siamo arrivati al punto che in San Pietro, alla cerimonia della beatificazione del papa del Sillabo e dell’anti-Italia ha partecipato un ministro della Repubblica italiana; ma siamo arrivati al punto che il governatore della Banca d’Italia, una grande istituzione della nostra Repubblica, si è permesso di partecipare alla commemorazione solenne dei caduti di parte papalina (non di tutti i caduti!) nello scontro che seguì il 20 settembre 1870 alla breccia di Porta Pia, e lo stesso personaggio di recente è arrivato a esaltare apertamente la figura di Pio IX, sostenendo che le repressioni e le persecuzioni perpetrate sotto il suo pontificato erano soltanto legittima difesa; siamo arrivati al punto che papa Wojtyla, quando tempo fa si è affacciato alle finestre del Campidoglio per benedire la città, si è permesso di chiamare Roma “la mia città”, e il sindaco della capitale d’Italia, dopo questa dichiarazione, gli si è inchinato e gli ha espresso imperturbabile la sua devozione, come del resto hanno fatto gli altri notabili presenti.


Siamo arrivati al punto che quando si è tenuta, nella primavera scorsa, la commemorazione del martirio di Giordano Bruno, abbiamo scoperto, noi che l’avevamo promossa, che il prefetto di Roma aveva emanato un’ordinanza che vietava ogni manifestazione pubblica che venisse a coincidere con le manifestazioni del Giubileo cattolico; e ricordiamoci ancora che solo a stento è stato possibile, all’ultima ora, superare la pretesa papale di impedire la grande manifestazione del Gay Pride, dopo di che esponenti della maggioranza e dell’opposizione hanno fatto a gara nel presentare le loro scuse al sommo pontefice; ed è appena il caso di ricordare qui la condiscendenza alle richieste del Vaticano con cui sono state programmate e gestite le opere eseguite in Roma in occasione del Giubileo e i relativi finanziamenti, lasciando in secondo piano gli intessi della cittadinanza e l’esigenza di promuovere un autentico progetto di sviluppo di una città che, più di ogni altra capitale europea, è affetta da gravissimi fenomeni di congestione. Né parlerò - perché l’hanno fatto e lo faranno altri - della passività di fronte alle interferenze ecclesiastiche nella scuola, nella legislazione sociale, nella ricerca scientifica e via enumerando.

Ma ciò che viene in considerazione in questa crescente subalternità tutta italiana all’offensiva spirituale e anche temporale da parte della Chiesa cattolica, non è solo l’atteggiamento passivo delle istituzioni e delle forze politiche, di governo e di opposizione, ma anche la passività del mondo della cultura e dei mezzi di informazione. Basti pensare al grande credito che è stato dato, in questa fase giubilare, al mito di una presunta svolta epocale che sarebbe stata compiuta dalla Chiesa cattolica ad opera di papa Wojtyla, con la disponibilità a sottoporsi al giudizio storico attraverso reiterate richieste di perdono, e con una profluvie di messaggi ecumenici che configuravano la disponibilità del papato a sottoporsi al confronto da pari a pari con le altre religioni, in deroga al dogma dell’infallibilità, e così via. Fiumi di inchiostro sono stati versati per inneggiare a questo grande evento in tutta la stampa italiana - molto meno nel resto d’Europa, quasi nulla in Inghilterra e negli Stati Uniti - e non pochi illustri intellettuali di tradizione laica e altrettanti uomini politici e perfino finanzieri e dirigenti d’azienda hanno improvvisamente scoperto di essere credenti, mentre tutte le reti televisive, pubbliche e private, trasmettevano le immagini delle processioni e delle assemblee oceaniche in piazza San Pietro.

Ma ecco che sono arrivate, come era prevedibile, le doccie fredde. Ci hanno spiegato che gli errori e i crimini - piccoli errori, piccoli crimini, soltanto milioni di morti - per i quali si chiedeva un perdono postumo, erano imputabili non alla Chiesa cattolica in quanto tale, ma alle deviazioni di singoli esponenti della medesima, che avevano in buona fede male interpretato una verità eterna e immutabile; ci hanno spiegato, con la pronuncia ufficiale dell’ex Sant’Uffizio, chiamato oggi Congregazione della Dottrina della Fede, firmato Ratzinger, a nome del papa, che solo all’interno della Chiesa cattolica e ispirandosi alla sua dottrina si può avere la certezza di salvare la propria anima dalle fiamme dell’inferno; ci hanno spiegato, con la beatificazione di papa Mastai, che il Sillabo, con le sue condanne di tutto il pensiero moderno, e il dogma dell’infallibilità pontificia continuano a far parte del bagaglio ideologico della Chiesa di Roma e l’elenco potrebbe continuare. Ma queste docce fredde, che in paesi più civili del nostro, a cominciare da quelli di tradizione protestante, hanno suscitato profonda delusione, non hanno avuto in Italia una risonanza lontanamente paragonabile agli entusiasmi giubilari.

Eppure, dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che l’offensiva messa in campo con il grande Giubileo apparteneva ed appartiene più all’area dello spettacolo che a quella della religione e del pensiero. Dovrebbe essere chiaro che la Chiesa di Roma - ferma restando la sua struttura verticistica e autoritaria che la differenzia da tutte le altre confessioni religiose - non rinuncia a considerarsi depositaria di una verità assoluta e immutabile, impermeabile a ogni influenza esterna, così come non rinuncia a ricavare da questa presunta verità la pretesa di intervenire in modo altrettanto autoritario in tutti i campi della vita sociale - dalla scuola alla scienza, dal diritto di famiglia alla vita sessuale, dalla giustizia all’immigrazione, e via decretando - senza accettare il confronto da pari a pari con chi non condivide le sue decretazioni.

Non voglio drammatizzare. So bene che all’orizzonte della politica italiana si addensano oggi altre minacce, in presenza di una destra reazionaria e xenofoba. Ma dobbiamo pure renderci conto che l’anomalia italiana, che ci tiene lontani dall’Europa migliore, non ha soltanto le sembianze dei Bossi e dei Berlusconi, ma anche quelle del cardinale Ruini e di quella parte della Chiesa cattolica che coltiva le ambizioni di un nuovo temporalismo. È legittimo allora, e urgente, chiederci quali possibilità esistono per fermare la deriva clericale che in Italia va crescendo assai più che altrove.

Il primo dovere, a nostro avviso, per tutte le forze laiche e anticlericali - cioè per tutti coloro che combattono non la religione, ma il fondamentalismo clericale - consiste nel mettere da parte le divisioni politiche che sono di ostacolo a un’azione comune. Paradossalmente, è proprio il Sillabo di Pio IX che ci indica la strada, dal momento che accomuna nella stessa condanna tutto il pensiero politico moderno - liberali, democratici, socialisti, comunisti - e quindi ci suggerisce la necessità di stare insieme, almeno in questa battaglia. Valorizziamo questo insegnamento tanto autorevole.

Il secondo dovere, non meno importante, è quello di abbattere gli steccati che talvolta sembrano dividere i credenti dai non credenti. Bisogna evitare a ogni costo di lasciarsi trascinare in dispute teologiche circa l’esistenza o l’inesistenza di Dio e ciò che ne consegue, come il convegno annunciato con grande clamore per domani tra il direttore di una rivista culturale e il cardinale Ratzinger. Anche questa è una forma di spettacolo, che ha poco a che vedere con la cultura laica. No, il problema non è se Dio esiste o non esiste, una domanda a cui forse nessuno è in grado di dare risposte definitive. Il problema è che coloro i quali si riconoscono nell’una o nell’altra versione della divinità si rispettino tra loro e rispettino coloro che non credono, perché si affidano alla ragione umana per decifrare i misteri dell’universo e per darsi delle regole di vita. Il problema è di trovarsi concordi nel rispetto dei valori morali che non consentono a nessuno di proclamarsi portatore di una verità assoluta e di pretendere di imporla a chi non la condivide. La Società Laica e Plurale, che io qui rappresento, comprende nelle sue file credenti e non credenti, cristiani di diverse scuole ed ebrei, esponenti di differenti aree politiche e culturali, che si sono trovati uniti nell’affermare questi valori morali che abbiamo cercato di riassumere nel nostro Manifesto laico (a cura di Enzo Marzo e Corrado Ocone, Laterza, 1999), aperto a tutte le adesioni.

E infine il terzo dovere di noi laici sta nel batterci senza compromessi per il rispetto della nostra Costituzione, a cominciare dalle norme che sanciscono l’eguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dalle convinzioni politiche o religiose, che dichiarano tutte le confessioni religiose egualmente libere davanti alla legge, che promuovono il libero sviluppo della ricerca scientifica, che escludono il finanziamento pubblico delle scuole private.

Ecco, io credo che seguendo queste tre direttrici - unità delle forze laiche, rispetto e collaborazione tra credenti e non credenti, difesa della democrazia repubblicana - i portatori della cultura laica potranno battersi con successo anche in Italia contro la deriva clericale e potranno richiamare al loro dovere costituzionale le forze politiche che troppo spesso si lasciano fuorviare in questo campo da calcoli elettorali destinati a rivelarsi miopi ed effimeri.


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