La politica democratica ha
perso in misura preoccupante la capacità di mantenere e suscitare le passioni che
stimolano uomini e donne all'impegno civile. Il fatto può lasciare del tutto indifferenti
i politici che considerano quale fine esclusivo della politica democratica la
rappresentanza degli interessi sociali: se i messaggi sono efficaci, e se si conquista una
sufficiente visibilità (vero e proprio dio della politica di fine secolo) si ottiene
consenso, e dunque si vince la competizione elettorale. Meno indifferenti dovrebbero
essere i politici che vorrebbero ridar vita a una politica e a partiti di sinistra che
vivono dell'impegno di uomini e di donne che dura nel tempo, elabora un proprio
linguaggio, diventa, in una parola, cultura che si trasmette da una generazione all'altra.
Questo tipo di impegno, che era giustamente uno dei motivi di orgoglio
della sinistra, era il risultato di forti passioni e motivazioni che stimolavano uomini e
donne a fare proselitismo, a costruire e mantenere in vita circoli e sezioni, a diffondere
materiale di propaganda, a dedicare parte della loro giornata alla lettura dei giornali, a
preparare manifestazioni, scrivere cartelli, raccogliere firme, convincere gli elettori
più apatici a recarsi al seggio. In molti casi, alcuni di noi lo ricordano, altri lo
avranno sentito dire, le passioni e le motivazioni che sostenevano la politica della
sinistra nascevano dalle le parole di uomini politici.

Le parole di Di Vittorio, Nenni, Lama, La Malfa, Amendola, Berlinguer e
tanti altri avevano la forza di coinvolgere: lasciavano un segno nella mente e nel cuore
di chi ascoltava i loro discorsi, stimolavano e mantenevano viva la voglia di fare, di
ripetere quelle parole, di forgiarne delle nuove, di discutere. Gli oratori che dominano
il campo (ma sarebbe più giusto dire il video) della politica di questa fine secolo non
sono più in grado di coinvolgere di motivare; le loro parole, come ha scritto Filippo
Ceccarelli ìscivolano come líacqua sui vetri, e nella memoria non restano nemmeno le
gocciolineî (La Stampa, 26 settembre 1997).
Se a questo si aggiunge che la sinistra di derivazione comunista ha
serie difficoltà a rielaborare (e anche qui bisogna trovare le parole giuste e saperle
dire) un patrimonio di memorie, di narrazioni, di martiri, di eroi (piccoli e grandi), di
simboli e di canzoni, pare necessario concludere che una rinascita di una cultura e di un
impegno politici di sinistra sono molto difficili. Quali siano i mezzi per correggere
questo stato di cose è difficile dire. E' tuttavia indispensabile essere consapevoli che
se il linguaggio della sinistra si riduce alle dichiarazioni programmatiche o alle prese
di posizione dei leader che parlano come oracoli davanti a selve di microfoni che pendono
dalle loro labbra, la sinistra come forza culturale è destinata al tramonto.
E se, come credo, non è possibile una politica democratica senza
parole che sappiano suscitare le passioni civili, è forse giunto il momento di tornare a
riflettere sullíarte che per secoli ha insegnato a persuadere e a motivare, ovvero la
retorica. Il fine della della retorica è infatti insegnare a dare allo scritto e al
discorso forza persuasiva per mezzo della bellezza dell'esposizione e della capacità di
toccare, oltre alla ragione, le passioni di chi legge o di chi ascolta. Anche se i
detrattori della retorica lo hanno dimenticato, o fingono di non saperlo, la retorica è
nata e ha conosciuto i suoi momenti migliori all'ombra della libertà. Ha fatto i suoi
primi passi, nella pratica e nella teoria, ad Atene e ha trovato poi a Roma i suoi più
grandi cultori. Rifiorisce, alla fine del Medioevo, nelle libere repubbliche italiane e
diventa parte essenziale dell'educazione dei politici inglesi e americani dell'età
moderna. La ragione principale di questa vicenda storica è ovvia: la retorica,
soprattutto quella politica, serve se le deliberazioni sovrane si prendono in libere
assemblee dove per vincere bisogna persuadere. Sotto il comando del principe, o sotto la
sferza del tiranno l'eloquenza ha vita stentata.
Una parte cospicua della retorica classica trattava in modo specifico
di come parlare di questioni politiche di fronte a un consiglio o a un'assemblea. Gli
insegnamenti su questa materia rientravano nel cosidetto "genere deliberativo",
distinto da quello "forense" (o "giudiziale"), che tratta del modo di
palare in tribunale, e dal genere "epidittico" (o "laudativo"), per i
discorsi da tenere per lodare una persona, o una citt o anche un ideale, come ad
esempio la giustizia o la libertà.
Davanti a un consiglio, a una giuria o in un'occasione celebrativa (o
tragica), l'oratore deve trovare gli argomenti adatti; scegliere le parole giuste; dare al
discorso un ordine conveniente; mandare bene a memoria quello che deve dire; capire, per
ogni discorso e per le diverse parti del medesimo discorso, quali sono il tono di voce,
l'espressione del viso e i gesti appropriati al contenuto delle parole.
Proprio perchè è un'arte con le sue regole, anche se ci deve essere
una disposizione 'naturale', è facile che lo studio della retorica incoraggi la
prolificazione di insopportabili tromboni e fanfaroni pronti a parlare di qualsiasi
argomento e di mettere insieme per ogni occasione un discorso ben costruito infarcito di
luoghi comuni, frasi fatte, mosse ad effetto e gestualità studiata. Questo spiega
l'avversione delle persone di buon gusto per la retorica e per i retori. Sta però di
fatto che i maestri della retorica classica erano i primi a sottolineare che il vero
oratore non è nè un ciarlatano petulante nè un attore e tanto meno un buffone. A
differenza del ciarlatano, l'oratore deve essere competente sull'argomento che tratta, pur
senza essere uno specialista. A differenza dell'attore, líoratore deve credere in quello
che dice e provare quelle passioni (sdegno, paura, speranza, gioia) che vuole infondere,
con la parola, nel cuore di chi lo ascolta: la sua voce deve essere lo strumento
attraverso il quale il suo animo entra in contatto con quello degli ascoltatori.
Paradossalmente, la retorica, che è oggi sinonimo di vuotezza e di artificiosità esigeva
dai suoi cultori saggezza e sincerità di sentimenti.

L'oratore è ben diverso dal filosofo. Il primo propone e sostiene
argomenti verosimili; il secondo cerca la verità. L'uno parte dalla convinzione che ogni
questione morale o politica possa essere dibattuta da una parte e dall'altra, il che vuol
dire che per ogni questione ci sono due o più risposte valide; l'altro è convinto che
per ogni quesito morale o politico ci sia una risposta giusta e molte risposte sbagliate.
L'argomentazione del filosofo, come la sua verità, è nuda; quella del retore è ornata
di metafore, esempi, narrazioni, amplificazioni.
Ma non ha forse ragione il retore e torto il filosofo? In politica, e
in morale, sarebbe ora di riconoscerlo, non c'è verità. Ci sono idee e convinzioni
divergenti o opposte che si confrontano nelle pubbliche arene. Oggi vince l'una, domani
l'altra, e la vittoria o la sconfitta, dipendono spesso dalla capacità dell'oratore di
ricorrere ad un esempio illuminante o di narrare una storia toccante, come appunto
insegnano i retori.
Questo non vuol dire che le verità di fatto, o storiche, siano
irrilevanti. E' evidente che se io voglio convincere un' assemblea a votare per una
riforma delle pensioni che tagli privilegi e abusi perchè i costi sono insostenibili e
ingiusti è bene che sappia chi sono i privilegiati e quanto il loro privilegio incide. Ma
anche se i miei dati sono precisi, non per questo il mio discorso è vero e inconfutabule.
Un'altro oratore può benissimo alzarsi e, con gli stessi dati alla mano, convincere
l'assemblea che la mia proposta è ingiusta e inutile. Oppure, per fare il più ovvio
degli esempi, chi è nel vero fra due oratori che sostengono, l'uno che l'aborto è un
crimine contro la vita, l'altro che è un diritto della donna?
E' vero che l'eloquenza ha avuto e può avere effetti distruttivi per i
regimi liberali e per la causa della libertà. Ma questo significa che è indispensabile
saper contrapporre eloquenza a eloquenza, e non lasciare che l'eloquenza sia monopolio dei
demagoghi populisti e degli affaristi politici per rifugiarsi nelle considerazioni
distaccate dei fatti e nella esposizione ragionata dei programmi. Anche se le ragioni
della diffidenza della sinistra verso la retorica sono comprensibili, esse portano ad un
vicolo cieco, e sono di fatto dannose. In democrazia, più che in altri regimi politici,
non si sente alcun bisogno di verità e di portatori di verità. C'è invece bisogno, e
tanto, di motivazioni e di passioni civili. Queste non le fanno nascere, o le rafforzano,
nè i filosofi, nè gli scienziati, nè gli economisti, ma solo i buoni oratori. E dove
non ci sono buoni oratori che sappiano fortificare la ragione con l'eloquenza, la ratio
con l'oratio, prosperano i demagoghi e i ciarlatani.