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C'è molto altro da mettere nell'idea di sviluppo

Jean-Baptiste de Foucauld, Presidente di Conviction

 

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Questo articolo è apparso sul numero 56 di Reset

Il percorso con cui ci si propone di superare una situazione di crescita contenuta per andare invece verso la costruzione di un vero sviluppo, che si ponga come obiettivo centrale la realizzazione dell’essere umano in una società e in un mondo ormai profondamente mutati, suscita un grande interesse, registra una vera e propria aspettativa, provoca a volte un certo entusiasmo. Viene tuttavia giudicato spesso anche idealistico ed utopico e lo si accusa di sottovalutare i rapporti di forza che agiscono nell’ambito del mercato. Se queste sono le condizioni date, quale deve essere la nostra ipotesi di avanzamento? E’ di questo argomento che ci occuperemo qui di seguito.

 

Quali sono le finalità di questo nuovo sviluppo?

E’ in effetti opportuno partire dalle finalità, anziché precisarle strada facendo, o individuarle addirittura alla fine del percorso. L’economia, strumento al servizio di un fine, tende a diventare essa stessa un fine, di cui l’uomo è ormai solo un mezzo. Ciò che era stato denunciato da Ivan Illich in "La Nemesi medica" rischia ormai di essere vero per tutta la società. L’economia deve essere ricollocata sui suoi binari, intendendo con questo che deve essere posta al servizio dell’uomo. E non dobbiamo dimenticare che la funzione dell’economia è quella di soddisfare i bisogni dell’uomo. Ed è partendo da questi ultimi, ritornando cioè alle fondamenta, che possiamo ritrovare il vero senso dell’economia. Quali sono questi bisogni? Essi sono d’ordine materiale, relazionale e spirituale.

Dobbiamo ovviamente porre interesse ai bisogni materiali nel senso ampio del termine (mangiare, vestirsi, avere un tetto, istruirsi, curarsi, etc.), tanto più che con l’aumento della disoccupazione questi bisogni vengono sempre meno soddisfatti (per un motivo o per l’altro, un quarto circa delle famiglie francesi si trova in qualche modo a dover fare i conti con situazioni di povertà); ma è anche sempre più necessario porre interesse ai bisogni relazionali, intendendo con ciò sia i bisogni delle persone che vivono in condizioni di esclusione o di solitudine involontaria, sia i bisogni dei cosiddetti vincenti, per i quali l’acquisizione di una posizione sociale avviene sempre più spesso a scapito di un forte degrado del loro tessuto sociale; e dobbiamo porre attenzione anche ai bisogni spirituali che inevitabilmente aumentano parallelamente alla riduzione dei punti di riferimento collettivi e con la crescente privatizzazione della questione del significato. A questi tre tipi di bisogni corrispondono tre tipi di rapporto con il tempo.

- Il soddisfacimento dei bisogni materiali fa riferimento al tempo produttivo, caratterizzato da norme di efficacia imposte all’individuo dall’organizzazione produttiva.

- I bisogni relazionali fanno riferimento al tempo del dono basato sul "dare-ricevere-restituire", grazie al quale gli individui sono uniti tra loro da un gioco di crediti e debiti mai saldati e che, proprio per questo motivo, vanno a costruire un legame, contrariamente a quanto accade nell’ambito dello scambio commerciale o utilitaristico, che si chiude in se stesso lasciando gli individui autonomi ma separati; questi bisogni relazionali vengono spesso soddisfatti nell’ambito di un’attività domestica, familiare o di volontariato, che non è né lavoro né tempo libero: esiste sì uno sforzo per produrre un servizio, ma la norma che regola questo sforzo viene autogestita da colui che lo compie; questo tempo di attività tenderà a svolgere un ruolo sempre crescente in una società che si libera progressivamente dalla pressione del lavoro classico, e sarà importante anche nella costruzione della singola persona che intende esplorare le proprie potenzialità evolutive; restano tuttavia da definire le condizioni in cui si sceglie di accedere a questo tempo di attività e le modalità del suo riconoscimento sociale.

- Il tempo spirituale, invece, è tempo di accumulazione nel lungo periodo, i cui risultati non sono programmabili, tempo di interiorità, di meditazione, di ricerca, di confronto con il male radicale e con il concetto di significato, così come si incarnano nella trama di ogni esistenza.

Ponendoci in questa prospettiva, definiremo quindi lo sviluppo armonioso come il contesto collettivo che consente ad ogni essere umano, in unione con gli altri e con la collettività, di costruire, nelle migliori condizioni possibili, il proprio sviluppo personale mettendo insieme in modo adeguato questi tre bisogni e queste tre forme di rapporto con il tempo; condizione indispensabile è che essi siano accessibili a tutti, in sufficienti condizioni di uguaglianza.

A questo punto sono necessarie alcune considerazioni assai importanti: costruzione di sé, costruzione della società e partecipazione alla vita sociale sono realtà sempre più strettamente interconnesse. L’obiettivo dello sviluppo consiste nella realizzazione della persona, ma questa realizzazione contribuisce sempre di più allo sviluppo della società. Per quanto attiene allo sviluppo della persona, esso deve tendere a dare sempre più spazio a ciò che ognuno ha di unico e di insostituibile in sé, e quindi ad interconnettere ulteriormente lavoro, attività e vocazione.

Stiamo uscendo da una fase di omologazione e di banalizzazione produttiva e stiamo entrando in una fase dello sviluppo in cui la specificità di ogni persona è, più di qualsiasi altra cosa, portatrice di valore aggiunto socio-economico. Questo significa che l’iniziativa individuale assumerà un peso centrale in questo contesto, dato che d’ora in poi né il lavoro, né il legame sociale né il significato saranno più presenti allo stato naturale, ma saranno invece delle costruzioni, delle conquiste, per non dire l’obiettivo stesso dello sviluppo. A questo punto diventa essenziale il tipo di contesto collettivo che consentirà a ciascuno, senza eccezione, di accedere alle diverse forme di iniziative necessarie per lui e per la collettività. Questa esigenza di uguaglianza di fronte all’iniziativa non deve mortificare il concetto di diversità: in effetti, la combinazione di questi diversi bisogni e di questi rapporti con il tempo varierà da un individuo all’altro, da un contesto familiare o socio-professionale all’altro, e potrà addirittura variare nel corso di una stessa vita.

A questo proposito, assume ovviamente un peso essenziale anche il complesso delle regole che sottendono alla produzione di reddito e all’uso del tempo. I redditi derivanti dalla collettività debbono ricompensare l’iniziativa o incentivarla. Per quanto riguarda il tempo, esso deve essere per quanto possibile scelto, e quindi organizzato, sia a livello di impresa che a livello collettivo; lungi dall’essere un fattore di insicurezza, esso deve al contrario contribuire alla stabilità delle persone. Appare quindi evidente che a sostegno di questo nuovo sviluppo deve essere organizzato, ai vari livelli, un vero e proprio sistema istituzionale.

 

Quali operazioni di riequilibrio debbono essere effettuate?

Questi obiettivi non sono irrealistici, anzi, sono di ovvio buon senso. Oggi, il funzionamento economico privilegia troppo i bisogni materiali a scapito dei bisogni relazionali e spirituali, ed è per questo motivo che li soddisfa male. L’eccesso ha sempre un suo costo. Ma la macchina è lanciata, funziona con il pilota automatico senza correggere i propri squilibri, e le operazioni di riequilibrio da effettuare sono effettivamente di notevole importanza. Sono battaglie che debbono essere portate avanti. E’ utile a questo punto identificarle:

 

- dare più spazio allo scambio e al dono antropologico rispetto alla logica dominante del potere e del denaro: questo significa che il mercato deve essere dotato di regole e che non deve essere lasciato spazio ad un capitalismo selvaggio; le istituzioni che favoriscono la dotazione di queste regole debbono essere di volta in volta sostenute, migliorate o create a tutti i livelli (locale, nazionale, europeo, mondiale); gli effetti della tecnologia debbono essere più sistematicamente valutati per quanto attiene al loro impatto sulla coesione sociale; importanti settori della vita sociale non debbono poter essere oggetto di scambi di natura commerciale; ed infine l’individuo deve potersi ritirare dal mercato e ha diritto a non essere (troppo) inglobato da esso (è questo, nello specifico, lo scopo del tempo scelto e del riconoscimento delle attività di utilità sociale);

 

- riequilibrare rispettivamente il posto del lavoro e quello del capitale che nel tempo ha visto pendere eccessivamente la bilancia a favore del capitale. Complessivamente, la parte dei salari nel valore aggiunto non deve più ridursi e il lavoro deve essere meno tassato, contrariamente a quanto deve avvenire per il capitale fisico, finanziario o naturale. Questo significa che, a livello mondiale, deve essere posto un principio di tassazione minima, e che i paradisi fiscali debbono essere progressivamente riassorbiti (non si sottolinea mai abbastanza quanto essi siano del tutto contrari alla globalizzazione); che nell’Unione Europea deve essere istituita una ritenuta alla fonte sui redditi da capitale; che debbono essere alleggeriti gli oneri sociali che gravano sui salari versati dalle imprese, per favorire il lavoro e il ripristino di una situazione di piena occupazione, e che questi oneri debbono essere sostituiti da una tassazione sui redditi globali delle famiglie (compresi i redditi finanziari) o sul valore aggiunto contabile delle imprese (che includa gli ammortamenti);

 

- favorire lo sviluppo dei tempi di attività conviviali rispetto ai tempi produttivi in senso stretto, ampliando la gamma delle scelte individuali organizzate collettivamente. Anche questa è una delle poste in gioco delle politiche del tempo e del tempo scelto. I vari aumenti di produttività creano le condizioni per un "travaso" che deve essere applicato anche al concetto di tempo: anziché essere automaticamente trasformati in produzione di beni o servizi aggiuntivi, con difficoltà sempre crescenti, gli aumenti di produttività debbono anche potersi trasformare in tempo libero, nel caso in cui gli individui desiderino fare una scelta in questo senso, dal momento che il tempo libero può essere tanto più foriero di iniziative e di legami sociali, e dotato di significato quanto più possa essere scelto in funzione di una destinazione che per l’interessato stesso è densa di significato;

- l’insieme di queste forme di riequilibrio deve favorire una minore tensione tra tecnica e natura, nella misura in cui esse incoraggiano la ricerca di modalità di vita più armoniose, laddove la tecnica privilegia invece, senza discernimento, l’aumento del livello di vita. Ma tutto ciò deve essere accompagnato dalla ricerca di una suddivisione più equa dei carichi tra generazioni: la generazione che è giunta all’età adulta negli anni ’80 avrà conosciuto la disoccupazione, le difficoltà della promozione sociale e poi sopporterà il crescente costo del pensionamento di una generazione che, al contrario, avrà beneficiato della piena occupazione e dell’arricchimento generalizzato. Per quanto attiene al patrimonio naturale, esso merita una crescente attenzione, ben al di là di ciò che è stato fatto fino ad ora. Infine, avremmo torto se ci dimenticassimo che l’obiettivo di uno sviluppo dotato di significato è la produzione di valori estetici e simbolici e che ciò che può apparire gratuito non è per questo meno essenziale di ciò che fa invece riferimento ad un concetto utilitaristico;

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- ricostituire la giusta tensione tra l’individuo, i corpi intermedi e la collettività. La società standardizzata di massa, animata dalle grandi ideologie, è stata sostituita da una società individualista ed eterogenea tenuta insieme da un consenso democratico molle. L’individuo è re ma governa sempre meno il proprio destino: aumento contemporaneo dell’esclusione e dello sfruttamento, crescente opacità sociale, instabilità delle riforme e delle politiche, crescita di conflitti localizzati ed anonimi che evidenziano più resistenze di quanto non siano portatori di progetti, difficoltà dei sindacati a farsi carico di un fenomeno di terziarizzazione che va ben oltre il settore pubblico, scarso riconoscimento del movimento associativo, difficoltà da parte dello Stato di armonizzare il tutto trovando il tono giusto. Tutti questi fenomeni riflettono una cattiva articolazione tra lo Stato – che deve riaffermare il proprio ruolo di stimolo e di coesione e che deve modernizzare i metodi che utilizza per produrre i beni collettivi di cui è il custode, ottenendo una maggiore produttività – i corpi intermedi – che devono essere contemporaneamente sostenuti (sindacati) e valorizzati (il movimento associativo, portatore del legame sociale del futuro) – e l’individuo – che è titolare di diritti, ma anche di doveri, in particolare di doveri di iniziativa e di solidarietà;

- creare una maggiore unità tra forza e progetto nelle lotte sociali. Dato che faceva riferimento ad ideologie semplici e corpose (marxismo o democrazia industriale), il movimento sindacale si poneva l’obiettivo prioritario di definire dei rapporti di forza che potessero far avanzare le idee e gli interessi di cui era portatore. Oggi non è più possibile ragionare solo in questo modo. Sono necessari progetti coerenti per comprendere profondamente le riforme, sostenerle o contestarle, a seconda dei casi. In assenza di ciò, la forza diventa solo resistenza e favorisce senza volerlo un immobilismo che non guarda abbastanza al futuro.

Queste sei azioni di riequilibrio richiedono tempo e mezzi; esse richiedono la congiunzione di una volontà politica chiara, impegnata, che non si ponga l’obiettivo di trovarne un qualche tornaconto, e una loro applicazione con criteri di reale ingegnosità sociale, caratteristiche che difficilmente abbiamo visto abbinate ma che di per sé non sono incompatibili.

 

A quali contrapposizioni politiche fa riferimento questo nuovo sviluppo?

Per dare una risposta a questa domanda cerchiamo prima di tutto di mettere a fuoco il tema di cui stiamo discutendo. Per dare soluzione ai problemi della società postindustriale mondializzata sembra proprio che vi siano solo tre risposte serie:

 

- l’immobilismo di fatto, che ritiene siano sufficienti, per l’uso che se ne fa, le grandi regole definite nel periodo del dopoguerra, mentre l’unica proposta da fare è un miglior collegamento con le politiche monetarie, di bilancio o salariali. Ovviamente, nessuno formula le cose in questo modo. Ma è questo il sogno implicito di molti nostri concittadini: che tutto migliori senza che niente cambi. Questo atteggiamento apre la strada prima di tutto a processi di esclusione e poi ad un liberismo insidioso ed inefficace, fautore della deregulation, ed infine a fenomeni come il Fronte nazionale;

 

- il liberismo fondato sulla deregulation fautore della soppressione del salario minimo, della flessibilità del lavoro in tutte le sue forme e di regole del gioco ridotte al minimo, della drastica riduzione dello Stato sociale, dei contributi obbligatori e dell’imposta sul reddito. Privatizzazione dei problemi collettivi, sviluppo spinto alle estreme conseguenze della responsabilità individuale: con l’uso del forcipe, si ottengono dei risultati in materia di occupazione (da cui peraltro dobbiamo trarre alcune lezioni) ma il costo umano che si paga è assai elevato, aumenta il senso di ingiustizia e di insicurezza;

- la scelta a favore della definizione di nuove regole fondanti di un nuovo sviluppo: viene mantenuto un salario minimo indicizzato sui prezzi, ma i corrispondenti oneri sociali vengono alleggeriti e ridistribuiti per non penalizzare l’occupazione; nel lavoro e nella vita sociale ci si propone di individuare un giusto equilibrio tra flessibilità e sicurezza; viene mantenuto un livello elevato di politica ridistributiva, ma il contenuto di quest’ultima viene modificato affinché la copertura dei rischi tradizionali (salute, pensioni, famiglia) non impedisca di prendere efficacemente in considerazione alcune nuove sfide (esclusione, recupero urbanistico, etc); il tempo scelto viene organizzato; la base sociale dell’iniziativa viene ampliata; le attività di utilità sociale vengono riconosciute e finanziate; vengono valorizzate le modalità di produzione e di vita innovative, all’interno delle quali sono più evidenti le esigenze di democrazia, di etica e di spiritualità.

La scelta a favore di questa problematica evidenzia subito una prima difficoltà: nei paesi dell’Europa del nord a forte densità contrattuale nuove regole possono essere introdotte con relativa facilità: l’attenzione concreta che i partner sociali pongono nei confronti dell’occupazione è maggiore e porta assai naturalmente ad innovazioni oggetto di compromessi, tanto più che costante è la preoccupazione di far progredire la democrazia industriale. Se la tentazione a favore della deregulation è forte, il divario tra immobilismo e nuove regole è meno netto, così che i sistemi sociali esistenti possono più facilmente difendersi adottando adeguate procedure. Le cose non stanno così in Francia, paese che nel campo sociale non è ancora uscito dal cosiddetto "social-colbertismo". Tra l’immobilismo e le nuove regole esiste un vero e proprio iato. La costruzione di questo nuovo sviluppo implica quindi l’attivazione di sforzi quasi altrettanto grandi, benché di senso opposto, di quelli che sarebbero necessari per realizzare una "rivoluzione conservatrice" alla maniera di Reagan o della Thatcher. L’impressione è invece del tutto diversa: è possibile ritenere, in totale buona fede, che sia opportuno gestire solo alcune semplici fasi di transizione. In realtà, l’impegno è di gran lunga maggiore: si tratta di una vera e propria mutazione, dato che alle regole già esistenti debbono essere aggiunte nuove regole del gioco e nuovi metodi, andando a recuperare il ritardo accumulato negli anni ’60, quando non fu dato ascolto alla voce dei riformatori sociali.

Ciò premesso, due sono gli scenari politici che si possono concepire:

- il primo prevede che l’insieme dei protagonisti politici, economici e sociali opti, ognuno nel proprio campo, per un orientamento di questo genere. Dopo tutto, si tratta di uno scenario che è stato realizzato in Francia, durante la Liberazione, con il tema della modernizzazione economica e sociale. Si tratta dello scenario più favorevole per il paese. Esso non elimina la contrapposizione destra/sinistra o padronato/sindacati ma i conflitti avvengono all’interno di un orientamento globale definito di comune accordo. E’ in effetti del tutto possibile concepire, all’interno di questa ricerca di un nuovo sviluppo, una versione più conforme all’economia sociale di mercato (con un ruolo minore dello Stato e la ricerca di una leggera riduzione dei prelievi obbligatori) e una versione più socialdemocratica (con, ad esempio, un livello di ridistribuzione sociale più elevato, una maggiore volontà di fare leva sul negoziato sociale, un sostegno più esplicito alla ricerca di nuovi modi di vivere e di lavorare);

- il secondo scenario prevede invece che solo uno dei due campi politici si sforzi di agire in questa direzione, ovviamente includendolo nella sua cultura e nella sua tradizione specifica. Se l’analisi generale è giusta e se la scelta diventa realtà, il vantaggio politico che ne deriverebbe potrebbe essere importante. Può essere la sinistra a muoversi in questa direzione? E’ la sua vocazione, e vi ha tutto da guadagnare. I cosiddetti "club di riflessione" potrebbero svolgere il ruolo di sostegno a questo processo, mantenendo ognuno la propria tonalità specifica. Questo implica in particolare una coalizione quadri/classi medie/disoccupati, una forte ridistribuzione sociale a favore di questi ultimi e un maggiore sforzo contributivo per i vincitori dell’ultimo decennio; la realizzazione di questo scenario non è facile ma non è impossibile, a condizione che i necessari sforzi di chiarificazione e di convinzione siano fatti con coraggio e continuità.

 

Il nuovo sviluppo lancia la sfida alla mondializzazione

E’ compatibile questo nuovo sviluppo con la mondializzazione? Il mercato mondiale esercita forse una ineluttabile pressione a favore della banalizzazione culturale e istituzionale, della riduzione dei salari, della contrazione dello Stato sociale e dell’aumento degli orari di lavoro anziché della loro riduzione? Il nuovo sviluppo deve difendersi dall’accusa di essere sognatore ed utopico, accusa che gli viene rivolta dai liberisti, secondo i quali la deregulation generalizzata è la modalità corretta per adeguarsi alla mondializzazione, ma anche dai fautori del protezionismo che imputano l’aumento della disoccupazione alla liberalizzazione degli scambi.

Il vincolo principale della mondializzazione, nella sua essenzialità, è quello di obbligare il nostro apparato produttivo a ricomporsi ancora più rapidamente.

L’ampliamento del mercato mondiale crea le condizioni affinché le nostre produzioni siano maggiormente sottoposte a concorrenza, con grande vantaggio dei nostri consumatori e che, parallelamente, i nostri produttori abbiano molte più occasioni di produrre per l’esterno: essi sono tanto più in condizione di poter approfittare di queste opportunità tanto maggiore è la specializzazione che caratterizza i loro beni o servizi ad alto valore aggiunto. La mondializzazione è un rischio per i paesi nei quali predomina il primo fenomeno, ed è un’opportunità per quei paesi dove invece è il secondo a prevalere. Questo porta ad una ineluttabile sconfitta dell’immobilismo. La deregulation può favorire l’iniziativa, attraverso la responsabilità individuale, ma non dà risposta alla questione essenziale della riqualificazione permanente del capitale umano. Il nuovo sviluppo si sforza di rendere sicura l’iniziativa, che diventa l’oggetto stesso del contratto sociale, fornendole un consistente sostegno collettivo, nel contesto di uno Stato sociale che sia controllato e al tempo stesso rinnovato, fattore di valorizzazione di questo capitale umano. Da questo punto di vista, nel lungo periodo questo nuovo sviluppo può risultare foriero di migliori risultati di quanto non possa fare la deregulation in una logica meramente economica, a condizione tuttavia che la sua attuazione avvenga con grande rigore.

Sarebbe anche un errore interpretativo ritenere che la mondializzazione distrugga inesorabilmente le identità. In questo campo si passa da un estremo all’altro: dopo aver coperto di gloria le esperienze dello sviluppo autocentrato, che si sono realizzate tenendosi in disparte dal mercato mondiale (e che hanno quasi tutte fallito) oggi si tende ad avere una visione troppo uniforme della mondializzazione. Eppure, è evidente che i rapporti con il mercato e con il vincolo sociale non sono gli stessi in Asia, in America Latina, negli Stati Uniti e in Europa, e che diverse sono anche le forme di regolamentazione istituzionale. E non vi è alcun motivo perché la situazione si modifichi. Questo non vuole dire che le identità siano stabili. Esse sono ovviamente sagomate dalla mondializzazione e si debbono riorganizzare. E la riorganizzazione vincente sembra essere quella che concilia identità e apertura: apertura per capire le regole del gioco mondiale, adattarvisi, avere una buona dimestichezza con le culture che sottendono i mercati nazionali, condizione indispensabile per poterli penetrare; identità per sviluppare i propri modi di vivere e i propri valori locali, che costituiscono una fortezza più efficace dei diritti doganali per contenere gli eccessi di importazioni (ecco quindi l’importanza del tempo scelto e delle attività di utilità sociale). Il successo del Giappone nasce dalla sua capacità di conciliare identità e apertura. Sta a noi ora costruire uno sviluppo veramente europeo!

Sarebbe in effetti nostro interesse riflettere tutti insieme, all’interno dell’Unione europea, sul tipo di sviluppo che desideriamo mettere in atto.

Comunque stiano le cose, quest’ultimo è perfettamente compatibile con una buona integrazione della Francia e dell’Europa nel mercato mondiale. Uno Stato assistenziale forte, a condizione che sia controllato e adeguato alla situazione, può costituire un atout sul piano della competitività, e questo vale anche per il salario minimo, soprattutto se gli oneri sociali vengono ridistribuiti. Per quanto attiene al tempo scelto e alla settimana di quattro giorni, fattori di nuove modalità di vita, essi non pesano sulla crescita purché vengano remunerati correttamente (comprese le incentivazioni collettive destinate a compensare il costo del disoccupato evitato); accade anzi il contrario, dato che sul mercato del lavoro si rende disponibile della manodopera di sostituzione. La mondializzazione non può in nessun caso legittimare il rifiuto ad aprire la questione del diritto al tempo scelto nelle società post-industriali.

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Modello nazionale o modello europeo?

Parimenti a quanto accade per la mondializzazione, né l’Unione europea né la moneta unica hanno motivo di opporsi alla ricerca di un nuovo sviluppo. Ma questa affermazione deve essere intesa in due modi:

- da un lato, l’Europa non "spegnerà" la diversità dei sistemi socioculturali, avverrà anzi il contrario . Ogni paese ha diritto alle proprie specificità e l’Europa deve sapersi arricchire delle proprie differenze. I sistemi educativi, i sistemi sanitari e previdenziali non sono gli stessi; il livello delle remunerazioni e delle prestazioni, le loro modalità di finanziamento, debbono tenere conto delle evoluzioni economiche che non sono e non saranno sempre parallele, mentre i meccanismi di negoziazione collettiva non hanno la stessa portata da un paese all’altro.

- Eppure, l’Europa ha anche bisogno di unità nel campo socioeconomico, e il principio di sussidiarietà non deve costituire un alibi. Deve essere trovato un sottile equilibrio tra omogeneità e diversità. In questa prospettiva, avremmo interesse a lavorare sulle finalità dell’Unione europea. Quale Europa vogliamo fare insieme? A questo stadio della sua costruzione, l’Europa ha bisogno di precisare meglio la propria identità e l’identità oggi si definisce sia con quello che si progetta per il futuro che con quello che il passato ha fatto di noi. L’identità è una volontà. Per quanto lodevole possa essere, possiamo forse dire che l’obiettivo di "promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e duraturo" (articolo B dell’attuale Trattato) sia oggi sufficiente?

Oggi l’aspettativa è più forte, più ampia, perché tutti capiscono chiaramente che il progresso economico non opera più meccanicamente a favore di tutti e che non può quindi essere considerato un fine in se stesso. L’Unione europea deve senza dubbio trasformarsi da istituzione funzionale volta verso l’economia a comunità politica volta verso il cittadino e verso il suo potenziale sviluppo personale, che è intimamente connesso a quello dei suoi simili. Riportare l’economia al servizio degli uomini, generare una modalità di sviluppo centrato sulla persona, questa è, di fronte alla deregulation liberista, di fronte al crescente rischio di una modernità disumana, di fronte all’immobilismo e al declino, la vocazione dell’Europa.

Ma questo presuppone che vengano definiti i principi comuni, gli obiettivi che insieme si vogliono perseguire, in un contesto unificante. Nello specifico, questo presuppone che vengano precisati i diritti e i doveri fondamentali che l’Unione e i singoli Stati sono tenuti a rispettare nel momento in cui agiscono sotto l’egida del diritto comunitario. A questo proposito, sarebbe opportuno prendere sul serio la proposta formulata dal rapporto del Comitato dei Saggi istituito dalla Commissione europea, la proposta cioè di dare vita, nel corso dei prossimi anni, ad un grande dibattito democratico in tutti i paesi dell’Unione in merito ai diritti e ai doveri fondamentali.

In questo modo viene conferito alla Commissione e al Consiglio dei Ministri dell’Unione un ruolo di coordinamento e di animazione in merito alle riflessioni prospettiche sui problemi socioeconomici dell’Unione: fare circolare l’informazione, diffondere le esperienze, effettuare delle valutazioni, stimolare la riflessione e l’azione degli Stati, incentivarli a collaborare, predisporre finanziamenti aggiuntivi per nuove esperienze, questi sono alcuni dei mezzi utili per far vivere l’Europa e forgiare obiettivi comuni che gli Stati tradurranno poi nel loro specifico contesto. Al principio di sussidiarietà va aggiunto il principio di proporzionalità, secondo cui l’intensità dell’intervento comunitario deve essere proporzionale all’obiettivo che ci si pone, e questo porta a dare nuovo valore alle attività di coordinamento e di stimolo rispetto agli interventi di natura legislativa che monopolizzano eccessivamente l’attenzione.

 

Il contributo delle risorse etiche e spirituali alla definizione di un nuovo sviluppo

Qualsiasi forma assuma, ogni tipo di sviluppo implica una certa concentrazione di energie morali e spirituali che l’uomo ha dentro di sé e che può tradire o sublimare. Max Weber ha insistito sulle origini puritane del capitalismo e ha analizzato il rapporto che le diverse religioni intrattengono con l’economia. Fu questa senza dubbio la grande omissione del marxismo, invischiato nella sua visione materialistica, di non aver potuto cioè precisare il posto dell'etica nella realizzazione del comunismo, e questo spiega il suo fallimento storico, che tra l’altro è stato probabilmente esagerato. In ogni caso, un nuovo sviluppo non si concepisce senza un’etica e una spiritualità, per quanto difficili siano esse da definire e concettualizzare.

Purtroppo, il contesto entro il quale opera il nostro pensiero poco si presta a quest’attività. Oscilliamo tra un idealismo che assimila in modo fallace progresso economico e realizzazione del paradiso in terra da un lato e, dall’altro, una denuncia dell’"orrore economico" in nome della morale, una denuncia che tuttavia non sfocia su niente. La saggezza, così come l’esperienza storica, porta ad acquisire una visione più sfumata: la contraddizione tra l’Uomo e il Mondo non può essere riassorbita, ma le forme e l’ampiezza di questa contraddizione variano, e la funzione del progresso tecnico, ma anche quella della morale, è di attenuarla o di renderla più umana. In sintesi, la morale è una parte del Tutto sociale: essa non può inglobarlo, ricoprirlo, in quanto esso ha la sua opacità, gli uomini sono quello che sono, se presi collettivamente; ma la morale ha anche la sua autonomia, nasce da un altro percorso, e non può sostituirsi al qui ed ora; d’altro canto, il Tutto non può fare a meno della morale, in quanto ha bisogno di essere animato, di essere messo in tensione. Questa visione delle cose, che vale solo per il mondo dell’azione, infastidisce sia i sostenitori della morale, che non amano vedersi ridotti alla condizione di una parte di un Tutto, che i fautori di un Mondo che sarebbe solo utilitaristico e materiale e non includerebbe né il dono, né l’imprevisto, né la grazia, né la poesia, qualunque ne sia l’origine. Eppure è nel riconoscere questa complementarità antagonista che è possibile evitare che la morale degeneri in volontà di potere o che il mondo diventi definitivamente volgare. La possibilità di recuperare il posto della morale in politica (in una politica efficace) e la funzione della spiritualità nel dare vita ad un nuovo sviluppo passa attraverso la necessità di lasciare spazio a queste due complementarità.

Qui definiremo la spiritualità come quell’elemento misterioso e disinteressato che ci fa rifiutare ciò che è disumano e ci porta a tentare di trascendere l’umano. E’ tra i due versanti di questa ampia definizione che un nuovo sviluppo dovrebbe farsi strada e trovare il proprio significato. Non si tratta quindi di una spiritualità pre-definita o stabilita, bensì di una spiritualità da elaborare e costruire, con un costante sforzo di iniziativa, di cooperazione con gli altri, a volte di conflitto, spesso di invenzione di adeguate regole del gioco . Possiamo tuttavia precisare queste sue tre grandi funzioni, reciprocamente indissolubili:

- una funzione di resistenza: all’esclusione, ma anche allo sfruttamento; alla mancanza di significato e alla schizofrenia che ci porta a comportarci come fossimo vincolati a sistemi di cui siamo servi, contraddicendo quello che siamo e vogliamo essere in quanto soggetti attivi; resistenza al pensiero semplificato che insulta la verità, alla compiacenza nella complessità che invece la dissolve; alla scelta di seppellire la bellezza sotto la cultura di massa e sotto lo sviluppo tecnologico incontrollato;

- una funzione di regolazione: essa completa necessariamente la precedente e le impedisce di degenerare in immobilismo; ha lo scopo di mettere in luce le regole del gioco che consentono, in una situazione ormai cambiata, di stimolare e proteggere meglio le persone. In una società complessa, dove le soluzioni non sono automatiche, la creazione di spazi di dialogo (dove un’etica della comunicazione può aiutare ad acquisire una buona consapevolezza delle nostre contraddizioni per tentare di eliminarle) costituisce una prima condizione per l’esercizio di questa funzione. Diventa quindi possibile lavorare sulla legislazione e sulle istituzioni, oppure aprire trattative, per fare in modo che i compromessi sociali vadano a beneficio di questo sviluppo centrato sulla realizzazione di ogni singola persona;

- una funzione di utopia: anche questa funzione è ovviamente collegata alla precedente la quale, dato che tende all’universalità, è più di tutte le altre sottoposta alla pesantezza dei meccanismi e dei comportamenti collettivi che evolvono solo lentamente e all’interno di margini relativamente stretti. La funzione di regolazione non può esaurire il desiderio legittimo di differenza, di intensità, di radicalità, di cambiamento, di "vivere e lavorare diversamente", di trasformare il mondo in un Regno, un desiderio presente dentro ciascuno di noi e che si scontra con tanta violenza alla realtà dei fatti. Ciò che conta in questo settore è non sbagliare campo: il campo dell’utopia è quello degli spazi micro-sociali, in quanto l’utopia presuppone la libera adesione, non l’obbligatorietà. Superare questo contesto, significa muoversi in un contesto di totalitarismo. Ma questi spazi micro-sociali in cui si realizzano delle forme di vita alternativa sono anche il sale della terra: essi esprimono delle forme di resistenza inedite e originali, suscettibili di arricchire il complesso delle regole o di farne emergere delle nuove Il carattere limitativo del campo dell’utopia, il suo necessario distacco nei confronti delle logiche di potenza e di potere – quello che il marxismo non ha visto – non riducono affatto la sua importanza qualitativa, che è essenziale e che deve essere riconosciuta come tale. L’obiettivo che deve porsi l’insieme delle regole è di lasciarle maggiore spazio, e quelli che occupano questo potere dovrebbero sentirsene i Ministri nel senso etimologico del termine e d’altro canto l’arricchimento generale della società, la vittoria su situazioni di penuria; il controllo tecnologico delle condizioni della sopravvivenza dovrebbero facilitare la sua crescita. Da un certo punto di vista, per quanto attiene allo sviluppo personale ognuno diventa uno spazio utopico da costruire.

L’umanesimo integrale, per riprendere una vecchia formula, consiste nell’unire queste tre funzioni complementari, obbligarle ad incontrarsi e a completarsi. Non è cosa automatica, perché la tendenza naturale è alla divergenza, non fosse altro perché le qualità richieste non sono le stesse e le energie disponibili limitate. La resistenza è spesso originata da un riflesso e tende a costruirsi con una immediatezza poco ponderata. L’elaborazione di regole è un lavoro lento e paziente, fatto di andirivieni, di compromessi defatiganti, il cui risultato finale si evidenzia solo nel tempo e poco soddisfa uno spirito esigente. L’utopia si fonda sull’entusiasmo e ha tuttavia bisogno di saggezza regolatrice. In generale, gli individui e le organizzazioni si specializzano nell’una o nell’altra di queste funzioni, a scapito delle altre due, a volte stabiliscono dei legami tra due di esse, ma lavorano raramente sulle tre in contemporanea: accade così che la resistenza si sposi facilmente con l’utopia (e viceversa), ma attivi un cortocircuito nei confronti della funzione regolatrice, l’utopia crede di svolgere una funzione regolatrice, la funzione regolatrice non si appoggia sufficientemente alla resistenza e non si apre abbastanza all’utopia, etc. In questa prospettiva, l’emergere di un nuovo sviluppo implica un arricchimento delle nostre culture politiche e spirituali che potrebbe essere positivo per l’insieme della società. E’ anche certamente l’unica soluzione per andare avanti insieme.

 

Cambiamento graduale o modello alternativo?

Questo nuovo sviluppo è destinato ad emergere progressivamente, al termine di una fase di correzioni e riequilibri successivi, oppure deve essere presentato come un modello alternativo, ben definito, che si propone in forma di rottura rispetto all’attuale funzionamento dell’economia?

Non è possibile rispondere con un sì o con un no a questa domanda che rispecchia forse una cultura politica ancora troppo contrassegnata dalla caratteristica binaria dei nostri dibattiti. Tutto dipende dall’orizzonte nel quale ci si pone, dal contenuto che si dà alla parola "alternativo". Il nuovo sviluppo non è un modello alternativo, nel senso che si colloca all’interno della società di mercato, così come è, e alla quale cerca di portare alcuni correttivi, e non propone una società del tutto diversa, costruita su un principio del tutto diverso, come hanno fatto invece, ad esempio, la collettivizzazione dei mezzi di produzione o l’economia monastica.

Questo modello passa attraverso la progressiva attuazione di un nuovo insieme di regole, un’operazione che ha necessariamente tempi lunghi, e che, conseguentemente, prevede l’adozione di una prassi graduale. Lo scopo è tuttavia quello di giungere ad un nuovo compromesso sociale che ristabilisca la coesione sociale, rendendo effettivo per tutti il diritto al lavoro in un tempo scelto, e che consenta a tutti di attivarsi per il proprio sviluppo in condizioni di sufficiente uguaglianza e dignità. Rispetto alla società dell’esclusione o alla società della deregulation, questo compromesso sociale costituisce un’alternativa politica reale, anche se non si tratta, nel vero senso del termine, di un modello alternativo o rivoluzionario.

Tuttavia, stiamo parlando di un compromesso che apre un varco su alcune forme di radicalità che possono invece corrispondere ad un sistema alternativo nel senso forte che abbiamo or ora descritto. In effetti, i correttivi da apportare all’attuale gioco economico e sociale non si propongono solo di ridurre gli effetti negativi del mercato; essi hanno anche l’obiettivo di ridimensionare il peso che il mercato ha nella vita sociale, per lasciare maggiore spazio alla ricerca di modi di vita più autentici, allo scambio sociale, al diritto di vivere e di lavorare in un altro modo. Ma si tratta di scelte volontarie, non imposte dalla politica. Quest’ultima può valorizzarle e incentivarle, quindi contribuire alla loro estensione, senza tuttavia imporle. Maggiore sarà il numero delle persone che effettuano una scelta in questa direzione, più alternativo diventerà il funzionamento sociale, e i criteri utilizzati per misurare la crescita passeranno quindi sempre più in secondo piano.

(Traduzione di Silvana Mazzoni)

 

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