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Ri-moralizziamo la politica

Jan Christie

 

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Questo saggio è pubblicato in esclusiva sul numero 56 di Reset attualmente in edicola

Una nuova sintesi politica sta lentamente prendendo forma. Dopo un periodo di stagnazione e di confusione, in gran parte del mondo occidentale è salita al potere una versione modernizzata del centrosinistra. Ma la sua vittoria non rappresenta un trionfo diretto della socialdemocrazia e della politica progressista sul neoliberalismo degli anni ottanta e sui partiti cristiano-democratici dell’Europa continentale. Al contrario, il centrosinistra è dovuto scendere a patti con un periodo di profondo cambiamento sociale, geopolitico ed economico che ha indebolito molti dei suoi dogmi tradizionali riguardo alla politica fiscale, allo stato sociale e ai rapporti tra finanza e processo politico. Ha dovuto accettare alcuni progetti della destra, ritornando allo stesso tempo ad alcune delle sue radici storiche per trovare idee fondamentali per il mondo contemporaneo.

La definizione di tale nuova sintesi è ancora per metà incompleta. Alcuni dei temi si vanno chiarendo, ma il centrosinistra è ancora ben lontano dal possedere una posizione ideologica perfettamente definita. In paesi diversissimi tra loro come il Brasile, il Canada, la Germania, l’Italia e la Francia la ricerca di un modello politico in grado di conservare il consenso proiettandosi nel prossimo secolo è invece tuttora in corso. Questa ricerca si sta svolgendo soprattutto negli ambienti di centro.

Per il momento gli estremi rimangono inerti. In tempi di relativo benessere economico e con gli Stati Uniti come unica superpotenza, l’estrema destra e l’estrema sinistra appaiono sostanzialmente irrilevanti, anche se sarebbe un errore dare per scontato che la politica rozzamente populista o rozzamente nazionalista sia defunta o confinata lontano da noi; come ci hanno dimostrato gli anni novanta, essa è viva e costituisce una costante minaccia all’interno della stessa Europa. Ma non è in grado di minacciare l’ordine democratico costituito in Europa e negli Usa, dove è attiva la ricerca di una ideologia politica e di un modello di processo politico in grado di trovare un equilibrio tra il benessere e l’inclusione sociale, tra il capitalismo e la solidarietà, in grado di modernizzare i meccanismi dello stato sociale e di coniugare una nuova politica progressista con gli imperativi della sopravvivenza ambientale.

Queste sfide nascono in un quadro di potenti forze globalizzatrici, che hanno profondamente alterato i parametri di governo. I governi non possono più erigere facili barriere contro gli scambi di denaro, determinare con precisione che cosa i loro cittadini debbano consumare, isolare le loro economie dai cicli economici globali o perseguire strategie autonome di difesa.

Possiamo tentare di concettualizzare le sfide della Terza Via in forma schematica. In termini estremamente generici, la politica progressista degli ultimi 200 anni ha riguardato l’equilibrio tra le tre grandi componenti della visione politica illuminista:

- Libertà;

- Uguaglianza;

- Fraternità.

A prezzo di grandi sofferenze, abbiamo imparato molto riguardo ai confini di ciascuno di tali elementi nelle società progressiste e riguardo agli immensi costi umani ed ecologici che il superamento di tali limiti comporta. Il campo di battaglia su cui si è svolta la sfida tra le priorità dell’Illuminismo, e tra queste e le opposte teorie conservatrici sulla comunità e sulla libertà economica, è stato rappresentato dagli stati nazionali e dagli ordinamenti economici e organizzativi entro i confini nazionali.

L’ultima generazione ha visto una trasformazione di tale campo di battaglia ad opera di quattro elementi:

- la globalizzazione sempre più rapida delle azioni governative, della competizione, dei modelli capitalisti, delle tecnologie di informazione e comunicazione e dei nuovi sistemi di produzione industriale;

- il collasso degli stati comunisti e il venir meno, in Occidente, del vecchio ideale socialista dell’uguaglianza, alla luce del fallimento dei sistemi egualitari;

- il riconoscimento generale della necessità di riforme fondamentali per gli stati sociali sorti nel dopoguerra in Occidente, alla luce del benessere, delle configurazioni di nuove classi e nuovi redditi e dei cambiamenti demografici intervenuti nel frattempo;

- l’insorgere di profonde preoccupazioni sulla compatibilità ecologica dei moderni sistemi industriali di produzione e consumo e sui valori consumistici che alimentano.

Il risultato – ancora una volta in termini estremamente schematici – è stato la riconcettualizzazione del modello illuminista:

- Libertà

- Equità

- Comunitarietà

- Compatibilità

Insieme, queste categorie rappresentano gli elementi irrinunciabili della politica progressista del 21esimo secolo, e le tensioni, le sinergie e i tentativi di raggiungere un equilibrio tra questi diversi elementi sono incredibilmente complessi. Tutto ciò deve inoltre essere negoziato e sviluppato all’interno di un’arena più ampia: quella di un ordine capitalista globalizzante costituito da enormi diversità e disparità culturali, una "infosfera" internazionale generata dalle nuove tecnologie e dai colossi multinazionali, un insieme di istituzioni assolutamente incompleto, inadeguato al governo mondiale e, da ultimo, l’estrema incertezza riguardo alla compatibilità economica ed ecologica del nuovo sistema mondiale.

I tentativi sinora compiuto di reinventare, per il centrosinistra progressista o per il centrodestra, una ideologia adeguata a questa situazione radicalmente trasformata, sono stati superficiali e poco convincenti; in generale, gli appelli in questa direzione si sono rivolti all’idea di coniugare l’energia e la capacità di iniziativa dell’individualismo con la solidarietà e lo spirito comunitario normalmente associati a forme più tradizionali di democrazia dello stato sociale. Le idee riguardanti la Terza Via tendono ad "attenuare le differenze" tra destra e sinistra, e fino a questo momento non hanno avuto molto da dire riguardo al punto di equilibrio tra gli elementi di LIBERTÀ, EQUITÀ, COMUNITARIETÀ E COMPATIBILITÀ.

Non sono inoltre riuscite ad affrontare le dimensioni più profonde, culturali e spirituali, della trasformazione affrontata in occidente dalla scorsa generazione, che impone sfide profonde ai politici del nuovo secolo:

- Quali sono i limiti accettabili che si possono imporre alla libertà di consumo e di espressione in una società globalizzata e multiculturale? Conosciamo i limiti dell’eguaglianza; ma che dire dei limiti all’espressione economica e culturale, e al modo in cui essi debbono essere negoziati in una democrazia? Il libro di Geoff Mulgan, Connexity (1997) è una meditazione a tutto tondo sulla potenziale "tragedia della libertà" in un mondo in cui è la inter-dipendenza, anziché l’indipendenza parcellizzata, la caratteristica fondamentale di un plausibile futuro sociale ed economico. Come dobbiamo regolare i nostri consumi nell’interesse dell’ambiente, delle generazioni future e delle comunità più lontane? Come riconciliare la libertà di espressione e di realizzazione personale con le esigenze della comunità e della tolleranza multiculturale?

- Come possono i cittadini delle società più ricche e pacifiche essere stimolati ai loro doveri di cittadini e invitati ad instaurare rapporti fecondi con lo stato e la società civile? Come possono gli organismi politici sovranazionali ottenere lealtà e stimolare la partecipazione attiva? In un’epoca in cui molti cittadini non avvertono più la necessità dei partiti politici o dei servizi dello stato, e si estraniano dalla politica tradizionale, come possiamo sostenere le energie indispensabili alle democrazie? Come, per usare l’espressione di Tony Giddens, "democratizzare la democrazia", per garantire rilevanza ed energie al processo politico del 21esimo secolo?

- Quali sono i valori irrinunciabili delle società progressiste, come trasmetterli e come rafforzarli? La politica progressista ha spesso alimentato una cultura del relativismo, un individualismo incapace di prendere posizione e una consapevolezza dei diritti ma non delle responsabilità. Le democrazie non riescono a trasmettere con efficacia i loro valori fondanti alle generazioni future. Come superare questo deficit senza incorrere nel paternalismo o nell’intolleranza?

- Come possono le società democratiche usare e sfruttare le nuove conoscenze che andiamo acquisendo riguardo alle dimensioni biologiche, psicologiche e sociali della personalità e della socializzazione? Come avviare un dibattito e prendere coscienza dei rischi e delle opportunità suscitati dalla nuova ricerca scientifica nel campo della genetica umana, dell’intelligenza e della fertilità?

- Quali meccanismi, e sulla base di quali principi, si possono sviluppare per il governo dell’economia in un mondo globalizzato? Che cosa "deve" il mondo finanziario alla società, e come garantire che tale "dovere" sia adempiuto? Come conservare il dinamismo economico senza dar vita a "monoculture" culturali e commerciali che disturbino o addirittura distruggano le peculiarità, le identità e le tradizioni locali?

- Quali sono i nuovi sistemi di governo globale necessari per colmare il divario tra la portata globale delle grandi imprese multinazionali e la portata delle regolamentazioni imposte dagli stati nazionali e dai raggruppamenti internazionali? Com’è possibile democratizzare le istituzioni delle Nazioni Unite e dell’ordine economico mondiale?

- Quali sono i limiti da imporre alla diseguaglianza all’interno delle società moderne? Come possiamo ricondurre gli emarginati all’interno della vita economica e sociale? Come alimentare la solidarietà con il resto della società di quegli strati "auto-emarginantisi" della popolazione, nelle "superclassi" emergenti rappresentate da quei "super-ricchi " appartenenti a una cerchia ristrettissima in cui tutti conoscono tutti e che ritiene di bastare a se stessa?

 

- Quali sono le fonti di quel benessere spirituale – religioso o umanistico che sia – che può colmare in molte vite il vuoto lasciato dall’osservanza religiosa? Il mondo industrializzato ha alimentato molta alienazione e molto nichilismo; la "moralità" è per molti un’entità incoerente, frammentata, personalizzata e insoddisfacente. Come afferma Geoff Mulgan, "la modernità ha ormai raggiunto un punto in cui questo divario appare insostenibile; in parte perché ciò che in passato sarebbe stato considerato agiatezza, oggi è divenuto norma nella maggior parte del mondo industrializzato; e in parte perché il lento declino della religione, che ha coinciso con la diffusione di una economia di tipo capitalista, ha lasciato un vuoto profondo nella vita di milioni di persone.

Questi interrogativi costituiscono una consistente piattaforma di lavoro per le think-tank e le risposte costituiranno le fondamenta della Terza Via intesa come una politica progressista basata sugli obiettivi illuministi riveduti e corretti, così come li abbiamo schematicamente individuati più sopra. Tali obiettivi dovranno inoltre essere perseguiti al di là delle frontiere nazionali, poiché sotto molti punti di vista le soluzioni e i concetti che stiamo ricercando dovranno poter essere realizzati e raccogliere consenso a livello sovranazionale, in modo da riflettere la natura internazionale, anzi davvero globale, di gran parte delle sfide che ci troviamo ad affrontare.

Possiamo considerare tutto ciò una possibile base per un programma di collaborazione ed esplorazione tra le fucine di pensiero europee, un programma che abbia per obiettivo quello di sviluppare, oltre al manifesto della Terza Via, concrete proposte politiche in grado di conferire profondità e valore autentici all’idea attuale, esile ed risibile, della Terza Via?

Di seguito esporremo schematicamente alcune idee riguardanti una delle componenti fondamentali di qualunque plausibile Terza Via – un riesame del significato della "qualità della vita" e della sua importanza per la politica. Presenteremo anche alcuni estratti da testi recentemente pubblicati da Demos sull’argomento.

Sulla "Qualità della vita"

"Vita, libertà e ricerca della felicità": così la Dichiarazione d’Indipendenza americana sintetizza gli elementi-base della qualità della vita. Di ricerca della felicità si parla raramente nella vita pubblica odierna. Parliamo invece soprattutto di crescita economica e di aumento dei consumi. Ma l’idea che la "crescita" sia un obiettivo politico fondamentale, e l’unità di misura più efficace per valutare il progresso nella qualità della vita, viene oggi messa in discussione su molti fronti.

Sempre più spesso sono altri gli obiettivi e i traguardi di progresso considerati altrettanto, se non più, vitali per la società: sostenere il capitale sociale, operare una transizione verso un’economica compatibile con l’ambiente, creare una società più "inclusiva". Queste idee, e l’uso che se ne fa, costituiscono una sfida alla concezione dominante della qualità della vita come progetto individualista, il cui fine sarebbe la massimizzazione delle soddisfazioni personali, e il cui traguardo principale sarebbe il successo materiale – l’accumulazione di beni e soddisfazioni materiali.

Il suo ethos è brutalmente riassunto nel messaggio di un magnate americano – il tizio che ha più giocattoli quando muore, ha vinto. In modo più sottile, è incarnato nei modi in cui la nostra politica ha finito per esprimere i propri valori e le motivazioni delle decisioni che prende: il valore fondante è quello della dimensione economica, e le procedure decisionali sono improntate esclusivamente al presente o tutt’al più a un futuro a breve termine, i cui limiti sono fissati dalle prossime elezioni. Ci intestardiamo sulle procedure tramite le quali possiamo generare le risorse necessarie alla qualità della vita, ma non ai suoi contenuti. E siamo a malapena in grado, attraverso tali procedure, di prevedere le conseguenze che il nostro comportamento può avere sulle opportunità per altri, distanti da noi nel tempo e nello spazio, di godere una vita qualitativamente accettabile.

Quel che hanno in comune le concezioni politiche emergenti riguardo alla qualità della vita, è il fatto che tutte si incentrano non soltanto sui metodi per conseguire la felicità ma anche sulla natura degli esiti che perseguiamo, sia individualmente sia come collettività. Esse, in sintesi, sollevano interrogativi riguardo alla possibilità di raggiungere un livello soddisfacente nella qualità della vita, intesa come una vita che non soltanto comporti soddisfazioni personali, ma sia anche dignitosa e eticamente valida. È tempo che l’idea della qualità della vita sia riportata in primo piano nei dibattiti pubblici. Un segnale del fatto che ciò sta accadendo è l’interesse crescente verso nuove forme di indicatori di progresso, sociali ed ambientali, che tengano conto del conseguimento degli esiti auspicati e della capacità di evitare problemi prevedibili, nonché la critica sempre più aspra nei confronti dei criteri standard per la valutazione del "progresso" economico, finanziario e nel campo degli investimenti.

Nel prossimo secolo non sarà più possibile evitare di affrontare, nel dibattito politico, la definizione della qualità della vita. Numerosi e potenti fattori garantiranno che ciò non accada: le preoccupazioni sulla sopravvivenza ambientale, la necessità di creare una nuova mentalità per ciò che concerne l’equità e la giustizia sociale, i problemi associati a un’enfasi eccessiva sui valori procedurali delle società democratiche e sui diritti degli individui. Tra gli argomenti fondamentali possiamo citare i seguenti:

- Primo, è ormai dimostrato che, superato un certo grado di ricchezza, il conseguimento di livelli ancor più alti di reddito e di benessere materiale non conducono a un incremento nella felicità. La società dei consumi sta inseguendo un miraggio: come dimostrano moltissimi sondaggi, la crescita, il denaro e ciò che con esso si può acquistare sono cose necessarie ma sono lungi dall’essere sufficienti al benessere. "Avere tutto" è impossibile: i tentativi in questa direzione si possono trasformare, come sostenuto da teorici quali Tony Giddens, in una diffusa incidenza della dipendenza e della costrizione.

- Secondo, il "post-materialismo" associato alla sazietà o alla disillusione rispetto alle gioie della ricchezza materiale non soltanto ci spinge verso moderni rimedi come la psicoterapia o una miglior comprensione di ciò che la psicologia può dirci in merito alle fonti della felicità: ci dirige anche verso una riscoperta delle vecchie idee riguardo alla qualità della vita – i cosiddetti "valori senza tempo". La soddisfazione nei rapporti familiari e di amicizia, nel tentativo di trovare un equilibrio positivo in rapporti confusi o multi-stratificati; l’idea di un’educazione etica per la formazione di cittadini consapevoli delle questioni morali imposte dalle società democratiche, dagli ambienti multiculturali e dalle scelte personali, e in grado di ragionare coerentemente su questi temi; il concetto di comunità fondate su stili di vita etici, che sempre più spesso, nelle società pluraliste, si assumono l’incarico di proporre "normative a carattere etico"; il valore dell’esperienza degli anziani, screditato dalle politiche delle grandi imprese, fondate sulla separazione per gruppi di età, e dal culto commerciale della gioventù; la rinascita di un interesse filosofico attorno alle analisi tradizionali dei "valori".

- Terzo, l’inquinamento che accompagna la crescita, così come noi lo abbiamo conosciuto, e la globalizzazione della produzione e dei consumi industriali, sono ormai universalmente riconosciuti come fattori che generano fortissime tensioni sugli ecosistemi che stanno alla base delle nostre società e delle nostre economie, oltre che delle altre forme di vita. La qualità della vita come viene intesa negli Stati Uniti, con il suo gargantuesco appetito per i carburanti fossili, le confezioni usa-e-getta, le macchine, le strade e tutto ciò che il filosofo dell’economia britannico Charles Handy definisce la "economia degli oggetti inutili", è un modello assolutamente inesportabile in altri paesi. Come sostenuto da una moltitudine di ambientalisti, lo stress imposto sul clima e sulle risorse del pianeta da una globalizzazione della concezione dell’esistenza fondata sul consumismo sarebbe insostenibile.

Ma non possiamo aspettarci che i paesi in via di sviluppo facciano spallucce e si rassegnino a una relativa privazione del benessere: la loro rivendicazione morale di un maggior livello di ricchezza non può trovare risposta. Ciò significa che a cambiare dovranno essere i modelli dominanti di consumo nell’Occidente ricco: basta con lo spreco di energia e di materie prime, per andare invece verso una maggior attenzione ai servizi, ai beni intangibili, e a un nuovo, olistico concetto di crescita e di misurazione della qualità della vita, tutte cose attualmente all’esame del governo britannico e di molti altri paesi industrialmente avanzati. Questa considerazione inoltre comporta una nuova enfasi sulla localizzazione della vita economica, e sulla necessità di preservare le peculiarità locali nell’era della globalizzazione, senza far ricorso a protezionismi distruttivi e impraticabili.

- La crescente consapevolezza della impossibilità di continuare a "consumare come se niente fosse" in Occidente, solleva inevitabilmente la questione del giudizio su forme più accettabili di qualità della vita. Avendo preso atto dell’impatto che esercitiamo sull’ambiente e della nostra risposta al consumismo imposto dal martellamento pubblicitario, siamo costretti a spostare la nostra attenzione verso un settore della nostra esistenza che fino a poco tempo fa veniva a malapena preso in considerazione: il contenuto etico delle scelte dei consumatori, ovvero delle ripercussioni che esse comportano sulle opportunità di vita dei meno abbienti lontano da noi nonché sulla qualità dell’ambiente che consegneremo alle generazioni future. L’etica è una parte ineludibile di una politica del consumo accettabile, e di qualunque concezione di una qualità della vita praticabile dal punto di vista ambientale.

- A tutto ciò è legata l’importanza dei dibattiti sull’equità e sulla qualità della vita nel secolo che si sta aprendo. Nel momento stesso in cui prendiamo in considerazione l’idea che si possano porre dei limiti al consumismo come lo abbiamo conosciuto finora, ci troviamo immediatamente costretti a inserire nell’elenco delle priorità anche le riflessioni sulla equità nella distribuzione dei beni. Ciò appare particolarmente ovvio quando si parla di sopravvivenza ambientale: se il mondo deve limitare le emissioni di diossido di carbonio, allora l’Occidente deve adoperarsi per limitare i suoi consumi, molto di più rispetto al mondo in via di sviluppo che ha finora potuto contare su una quota enormemente inferiore di risorse e ha goduto pochissimo dei frutti dello sviluppo economico.

- Ciò solleva profondi interrogativi sulla praticabilità di una qualità della vita comune a tutti, in presenza di disparità tanto massicce. La mia possibilità di godere di una vita qualitativamente buona dipende, in ultima analisi, da un ragionevole livello di eguaglianza nella società? Questo problema, dibattuto in particolare da Richard Wilkinson nel Regno Unito, è fondamentale per i politici della Terza Via che hanno respinto l’egualitarismo e accettato notevoli disparità di reddito e i rischi della meritocrazia come prezzo accettabile da pagare per il dinamismo economico.

- La ri-moralizzazione del dibattito politico è promossa anche dalla presa di coscienza del fatto che la crescita e la ricchezza non risolvono i problemi più gravi e più stratificati della società: criminalità, disoccupazione, violenza, discriminazione, alienazione o "esclusione" dei poveri e dei meno istruiti. Questi problemi non scompaiono con l’arricchimento della società, né rispondono sempre e meccanicamente a livelli più elevati di spesa pubblica stanziati nel tentativo di bloccarli.

I politici, spesso con profonda riluttanza, si trovano ad affrontare la necessità di impegnarsi in diatribe su questioni insidiose e appassionatamente dibattute come, per esempio, il modo migliore di educare i bambini per farne cittadini partecipi; come affrontare il problema degli elementi ostinatamente antisociali che risiedono nelle aree più degradate; come educare i bambini a divenire buoni cittadini e ad adottare comportamenti onesti e dignitosi nella vita adulta; e così via: Affrontare politicamente i problemi sociali non può voler dire semplicemente adottare misure "non giudicanti" e partecipare a dibattiti sulla corresponsione e la riscossione delle risorse.

Deve riguardare anche i risultati conseguiti, e la prevenzione delle malattie; e collegarsi alle discussioni su ciò che si deve considerare buono, oltre che semplicemente giusto. Per troppi anni i politici si sono accaniti a discutere sui processi e sui valori procedurali: legge, diritti, meccanismi di mercato e scelta individuale. Ma tutte queste cose non bastano a garantire la qualità della vita, individuale o collettiva. Sono gli individui e le comunità che devono dar forma alle loro idee personali di ciò che è bene, ma lo stato non può semplicemente ignorare questo punto. I nostri valori procedurali devono come minimo essere accompagnati da un senso di responsabilità che deriva dall’esercizio dei nostri diritti e dalla necessità che i governi assicurino ai cittadini risorse materiali ed educative che li mettono in grado di godere dei loro diritti e di affrontare le loro responsabilità.

- Ciò solleva la questione dell’impegno quasi esclusivo, con ottime motivazioni, della sinistra sui diritti, e la relativa scarsa attenzione alle responsabilità – un tema chiave finora nelle riflessioni inglesi sulla Terza Via. È possibile valutare ed esercitare adeguatamente i diritti senza che vi sia il corrispondente riconoscimento delle responsabilità implicate da tale godimento? Come possiamo dar forma politica a tali riflessioni, per esempio nelle riforme dello stato sociale? E bastano i diritti? Le virtù che esigiamo dai cittadini non sono non sono garantite dal riconoscimento dei diritti né dall’esortazione alle responsabilità. Come possiamo influenzare la crescita dei valori in una società multiculturale, evitando però di cadere in azioni antidemocratiche o in un eccesso di paternalismo? Quali istituzioni, nella società civile, nel mondo degli affari e nello stato, possono essere preposte a questo obiettivo?

- Da ultimo, la nostra concezione della qualità della vita per il prossimo futuro sono profondamente influenzate dalle innovazioni tecnologiche e dalla ristrutturazione degli organismi preposti, in questa fase di enorme sviluppo delle tecnologie legate all’informazione e alla competizione globale. I presunti benefici apportati alla qualità della vita dalle tecnologie informatiche e dall’esplosione della ricerca sulla genetica umana e dalle manipolazioni genetiche in generale, saranno accompagnati da nuovi rischi e nuove minacce per la qualità delle nostre esistenze.

In un’era di diffusione massiccia dei dati personali e delle nuove tecniche per la loro elaborazione, le implicazioni di rischio per la privacy sono più che mai serie, come ha sottolineato Perri 6 in un’autorevole analisi dal titolo The Future of Privacy, Demos 1998; e si prospettano enormi problemi riguardanti l’impatto esercitato sul benessere personale e collettivo dalle nuove organizzazioni multinazionali, come ha sostenuto per esempio il teorico di scienze sociali americano Richard Sennet (si veda il suo nuovo saggio sulla sociologia del "lavoro flessibile", The Corrosion of Character.

Sviluppi così ingenti nella economia, nell’ambiente e nella società ci costringono a prendere in esame gli urgenti interrogativi sulla qualità della vita sollevati dai filosofi dell’antichità. Com’è giusto vivere? Come trovare un equilibrio tra i desideri individuali e le esigenze più vaste del benessere collettivo?

Il nascente dibattito su come dovrebbe essere una "Terza Via" radicale ed efficace inizia a toccare anche questi temi. Per esempio, l’enfasi posta dal governo neolaburista britannico sul legame intrinseco tra diritti e responsabilità sociali, sulla promozione dell’educazione dei cittadini, sulle misure da prendere per arginare i comportamenti antisociali nelle aree più degradate dei centri urbani, rappresentato un tentativo limitato di superare la riluttanza della sinistra a "moralizzare" o a "giudicare". Ma si tratta di passi incompleti, esitanti e poco dibattuti, che il più delle volte si appuntano sulle "classi inferiori" ignorando la questione delle responsabilità della "superclasse" emergente, quella dei super-ricchi.

Il dibattito deve raggiungere maggior diffusione e maggiore profondità, e dare ai propri obiettivi una dimensione europea. La politica si è fermata a una concezione di qualità della vita individualista e corporativa, che persegue la crescita materiale e la promozione dei valori procedurali. Sono condizioni necessarie ma non sufficienti: il nuovo ambiente globalizzato necessita di trasformazioni radicali, che devono essere alimentate da idee più ampie e profonde riguardo alla "Vita Buona" intesa come progetto etico.

Estratti per la discussione

1. "Dobbiamo, in sintesi, trovare un modo di parlare onestamente e apertamente di qualità della vita – di una vita buona intesa sia come soddisfacente che come eticamente giusta. Ma per far questo dobbiamo prima sfatare alcuni dei miti della vita "buona". Un filosofo famoso si è chiesto una volta come una stessa definizione di vita buona può essere valida per l’intera razza umana, composta com’è di persone radicalmente diverse tra loro come Marilyn Monroe, Einstein, Wittgenstein o Louis Armstrong. Ogni singola definizione di vita buona, sosteneva, risulta inevitabilmente oppressiva. Il massimo che possiamo sperare è una società in cui tutti godano della massima libertà possibile per dare ciascuno la propria definizione di vita buona per sé.

"È una concezione che presenta innegabili attrattive. Si accorda con il senso comune "non giudicante" della maggior parte delle società occidentali contemporanee. Ma è profondamente erronea, come può esserlo qualunque convinzione. Una società che la prendesse sul serio diverrebbe ben presto del tutto anti-funzionale. In primo luogo, è sbagliata perché buona parte di ciò che concerne la qualità della vita non riguarda unicamente la libertà individuale, ma poggia sui pilastri collettivi dell’ordine sociale e di tutte le cose che condividiamo con gli altri – aria pulita, strade sicure, civiltà, educazione.

È sbagliata anche perché gli esseri umani hanno una quantità di cose in comune: condividiamo sostanzialmente la stessa biologia e molte delle stesse pulsioni ed esigenze, per quanto diverse possano apparire ad un’osservazione superficiale. Ed è sbagliata perché ignora l’evidenza dei fatti: vi sono, nella definizione di vita buona data nei luoghi e nelle epoche più diversi, delle caratteristiche comuni costanti. Per quanto effimera l’idea di qualità della vita possa apparire, e per quanto radicalmente diverse siano le nostre esistenze dalle vite brevi, sporche e cattive della maggior parte dei nostri avi, vi sono elementi universali e senza tempo. Gli stessi elementi che formano una parte cruciale della nostra definizione di vita buona.

"Mi sembra utile pensare a questi fattori comuni come a "catalizzatori": elementi che attraggono e motivano persone appartenenti a società che per tutto il resto appaiono radicalmente diverse. Cinque sono quelli che mi appaiono più evidenti. "Il primo è la famiglia. In tutta la storia dell’uomo, la stragrande maggioranza delle persone ha scelto di vivere in famiglia. Può trattarsi di famiglie allargate o nucleari, che prevedono la presenza di tre o quattro generazioni o che accettano la poligamia. Ma l’unità familiare ha garantito il sostegno emotivo e l’appoggio incondizionato ai suoi membri molto più di qualsiasi altra istituzione, e ha mostrato di possedere virtù pratiche come strumento di condivisione delle risorse.

Le famiglie, come le comunità, le nazioni e le fedi religiose, possono essere brutali e scarsamente funzionali. Ma la famiglia rimane il luogo più decisivo per la fruizione del benessere e della felicità, il luogo ove la nostra umanità essenziale – cioè la nostra capacità di riprodurci e di far parte integrante del ciclo della vita – trova la sua espressione più pura. Nonostante i cambiamenti radicali apportati al modello familiare nelle ultime generazioni, la famiglia come ideale e come unità sociale della vita quotidiana si è dimostrata incredibilmente capace di resistere e di rimanere, per usare le parole di Christopher Lasch, "un porto sicuro in un mondo senza cuore".

"Il secondo elemento è la comunità. Gli uomini amano vivere in società, a contatto con amici e conoscenti. Al di là della famiglia, la comunità fornisce riconoscimento sociale, significato, opportunità. Come la famiglia, può a volte essere oppressiva e portare divisioni. Ma garantisce non soltanto l’ordine che ci è necessario per avere una ragionevole possibilità di cavarcela nella vita – prevedibilità, abitudini e protezione – ma anche il contesto all’interno del quale possiamo condurre un’esistenza dignitosa.

"Il terzo è la possibilità di accedere ai beni necessari al mantenimento, al superfluo e al gioco. Questa possibilità è sempre stata un elemento catalizzatore, dai primi baratti con l’ambra o le conchiglie fino ai computer games. Oggi le vie dello shopping puntano sull’attrattiva esercitata da oggetti luccicanti e accattivanti, e il consumismo si trasforma facilmente in una sorta di droga. Eppure dovremmo sempre stare attenti a condannare il desiderio troppo umano di beni materiali (come ammonisce Auden, "di regola sono quelli che odiano il piacere a diventare ingiusti".

"Il quarto è l’ambiente. La qualità della vita dipende dalla qualità dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, dagli alberi e dagli spazi aperti. L’umanità ha vissuto in una incredibile quantità di ambienti diversissimi. In ciascuno di essi ha trovato il modo di convivere con un ecosistema dato, dai cui cambiamenti e dalle cui trasformazioni diveniva acutamente dipendente. La nostra dipendenza dall’ambiente si è cristallizzata nelle religioni che ne hanno trasformato gli elementi in divinità, e oggi è tornata a far parte integrante della nostra definizione di vita buona.

"Il quinto è l’anima. La dimensione spirituale della vita ha spesso comportato tensioni con i legami familiari e comunitari, e con l’attrattiva esercitata dalle cose materiali. Ma una concezione spirituale dell’universo, della connessione tra tutte le cose e del timore di fronte alla sua immensità, si è resa manifesta nelle chiese, nei templi o nelle moschee sorte nel cuore stesso di ciascuna comunità. Mentre altri fattori catalizzatori riguardano la complessità, la necessità di colmare la nostra vita di significato e di possedimenti, questo elemento profondo della vita buona riguarda la semplicità e i fondamentali".

Geoff Mulgan, "Timeless Values", in I. Christie e L. Nash (a cura di), The Good Life, Demos 1998.

2. "…la dicotomia aridamente tradizionale tra due definizioni di vita buona, il perseguimento prudente del proprio interesse, per quanto illuminato, e l’impegno altruistico, dev’essere ripensata. Al di sopra del livello di soddisfazione delle necessità di base, qualunque ragionevole concezione della qualità della vita implica entrambe queste componenti. Nessuno ritiene che la vita del mangiatore di loto possa essere considerata una vita buona, se comporta un danno diretto agli altri (anche lasciando da parte la domanda se una vita edonisticamente dedita al consumo comporti di necessità uno sfruttamento indiretto del prossimo, e se essa manchi di dignità se paragonata con le esigenze vitali di coloro che non riescono a soddisfare le loro esigenze fondamentali, oppure se vada oltre un ragionevole richiamo al senso del dovere il chiedere all’uomo di sacrificare il proprio piacere al di là del minimo richiesto dalla virtù della generosità).

Come minimo, dunque, le esigenze della virtù impongono restrizioni collaterali a qualunque definizione di qualità della vita, e le concezioni ragionevoli delle aspirazioni umane impongono determinati limiti a ciò che il senso del dovere può ragionevolmente esigere da noi. I santi sono coloro che non limitano la propria virtù a quello che sarebbe unicamente il loro dovere. Naturalmente, il proprio interesse e il senso morale entrano spesso in conflitto, il che è inevitabile. Ma non costituiscono due definizioni indipendenti e complete in sé, l’una separatamente dall’altra, di ciò che rappresenta una vita buona.

"Sebbene la privacy, la solitudine occasionale e il ritirarsi in se stessi facciano parte della dignità della vita, nessuno di questi elementi, nella gerarchia dei "tipi" di vita buona, è ripiegato unicamente verso l’io individuale. E soprattutto, tutti e tre implicano persone che agiscono secondo le loro "invadenti" preferenze su come sia meglio vivere. La vita buona, persino per i mangiatori di loto, non consiste esclusivamente nel perseguire le nostre preferenze egoistiche. Anche i mangiatori di loto hanno bisogno di una comunità di amici, e quando hanno dei figli, iniziano ad avere delle preferenze sul modo in cui gli altri genitori educano i bambini e giocheranno e cresceranno con i loro. Ciò significa che l’idea di una società organizzata in modo tale da lasciare ai singoli assoluta libertà nell’impostare la loro vita come meglio credono, è semplicemente irrealizzabile.

"Ci sono preferenze invadenti buone e cattive, e la società deve trovare il modo di filtrarle. D’altra parte, il paternalismo incontrollato, tramite il quale la società potrebbe imporre una concezione di vita buona sostenuta dallo stato, farebbe violenza alle idee di troppe persone, anche lasciando da parte la violazione della libertà altrui, che è male in sé. Come possiamo allora individuare i principi per un’organizzazione sociale che promuova la qualità della vita, ma che al contempo riconosca la pluralità di idee in merito, il loro intersecarsi le une con le altre e la possibilità di conflitto tra individui che perseguono idee differenti, che operi perché le violazioni della libertà siano ridotte al minimo e che sia capace di contenere il paternalismo entro confini accettabili?

"Partirò dall’interrogativo che si chiede in quale misura si possa affermare che i governi e le società hanno il dovere di operare per promuovere la capacità degli individui di perseguire una vita buona. "La maggioranza delle persone accettano l’idea che una ragionevole misura di libertà e di autonomia sia il punto di partenza indispensabile per poter perseguire la propria concezione personale di qualità della vita, e per poter coltivare le virtù (l’azione morale eseguita sotto costrizione non è quasi mai particolarmente lodevole: se così non fosse, tutti i contribuenti dovrebbero essere pubblicamente esaltati per la loro generosità).

Nel tempo, la libertà e l’autonomia dei cittadini si sono grandemente sviluppate trovando un equilibrio con gli obblighi sociali, e si sono ridotte nei modi e nella misura indispensabili per sostenere gli altri aspetti di ciò che costituisce una vita buona. Vi sono però delle libertà fondamentali che non possono, in alcuna concezione ragionevole della qualità della vita, essere barattate in modo sconsiderato: tra esse comprendiamo, una vasta misura di libertà di parola, di movimento, di organizzazione, di sicurezza della vita e della propria incolumità, il diritto a processi equi eccetera.

"Vi sono chiaramente alcune cose di importanza fondamentali che gli individui da soli non possono realizzare, ma che soltanto lo stato può garantire, e che stanno alla base di qualunque ragionevole concezione di una vita dignitosa. La garanzia della pace è sicuramente la più basilare di queste componenti e, dato che gli stati sono sorti proprio come strumento per finanziare le guerre, è anche una delle più difficili da realizzare. Gli sforzi individuali sono di solito troppo insignificanti per riuscire a prevenire o a minimizzare l’impatto delle grandi ondate di inflazione che investono le nostre società, devastando vite intere e annullando prospettive di felicità, e lasciando dietro di sé povertà e vulnerabilità alle malattie, portando con sé guerre e influenzando la cultura fino a farla ripiegare su se stessa, verso l’irrazionalismo e la cupa disperazione. Se l’inflazione non è sempre e ovunque un fenomeno monetario, la complessa varietà delle sue cause è così vasta che soltanto organismi che hanno le dimensioni, il potere e le risorse di uno stato possono sperare di arrestare in modo efficace i meccanismi che la scatenano o almeno di mitigarne gli effetti.

"In una società in cui il lavoro retribuito (qualsiasi cosa si pensi riguardo ai meriti del lavoro non retribuito) è divenuto un elemento portante del modo in cui la maggior parte delle persone si costruisce il proprio progetto di vita, non stupisce che la disoccupazione sia una delle grandi cause della mancanza di realizzazione personale, dello smarrimento della propria identità e della mancanza di rispetto di sé, e infine delle malattie e dei suicidi. Pertanto tutto ciò che i governi possono fare non soltanto per ampliare le opportunità di occupazione e di soddisfazione per quanti hanno un posto di lavoro, ma anche per assicurare maggiori opportunità anche a chi non ha un impiego, deve essere sicuramente classificato come prioritario.

Anche il cosiddetto tasso di disoccupazione "naturale" o "non-inflazionistico" può essere ridotto grazie a un’azione governativa a livello microeconomico che consenta ai cittadini di impiegare al meglio il proprio capitale umano e sociale. Ancora una volta, è chiaro che molti governi europei non stanno superando questa prova, dal momento che la disoccupazione ha raggiunto livelli spaventosamente elevati in molti paesi.

"Non può esistere una risposta generale alla domanda sul punto di equilibrio tra una protezione eccessiva e una insufficiente contro il rischio. Entrambi gli estremi sono insostenibili, ma non è chiaro quale "media virtus" aristotelica sarebbe praticabile contro tutte le crisi che colpiscono le società. Pertanto, il ruolo delle fondamenta costituzionali, sulle quali individui e comunità costruiscono il loro tentativo di realizzare una vita buona, non è quello di precisare il livello di protezione, contrariamente a quanto sostengono le posizioni più diffuse nel centro destra neoliberale o nella sinistra statalista che sostiene l’idea del vecchio stato sociale. È invece quello di stabilire un procedimento decisionale democratico che sia giusto e legittimo, riguardo al livello di rischio accettabile e di protezione accettabile, al fine di garantire le basi sulle quali i cittadini possono cercare di realizzare la loro idea di vita buona: questo è infatti una questione di poteri del governo, più che di doveri del governo.

"Sarebbe difficile accettare come idea di una vita buona l’aspirazione a vivere in una comunità in cui le decisioni in merito al livello di protezione contro i rischi fondamentali non fossero prese in modo trasparente, senza che nessuno possa chiederne conto e senza che fossero aperte all’influenza della volontà popolare. Se è vero che molti cittadini possono essere deferenti, cinici, fatalisti, indifferenti, opportunistici o pigri riguardo al coinvolgimento nella vita pubblica o semplicemente attraversare un ciclo storico di rifiuto di tale coinvolgimento, nessuno aspira a fare di questi atteggiamenti un elemento integrante della propria concezione di una vita buona, se non con un senso di rassegnazione, interpretandolo come male minore rispetto a qualunque altro atteggiamento ritenuto in quel momento realizzabile.

"Il dovere del governo in questo campo allora non è unicamente quello di indire le elezioni, ma di rinnovarsi dando vita a nuove forme di apertura e di partecipazione, per sconfiggere la mentalità politica secondo cui "chi vince prende tutto", che si riduce troppo spesso in termini di classe dirigente elitaria. Governare tramite le virtù democratiche è parte integrante e importante di un modo di governare che aiuti i cittadini a realizzare una vita dignitosa anche in quei settori in cui si rendono necessarie decisioni collettive, e anche se quelle decisioni collettive consistono in ultima analisi nell’individuare le responsabilità nella gestione dei rischi.

"Ci sono comunque rischi ai quali le generazioni presenti stanno esponendo le generazioni future – lasciando loro in eredità un debito pubblico spaventoso, o danni irreversibili alle risorse ambientali che i nostri posteri in un prevedibile futuro, quali che possano essere le loro ragionevoli concezioni della qualità della vita, vorranno ma non potranno sostituire. In questi campi c’è chi sostiene che i governi dovrebbero assumersi alcuni doveri, anche se probabilmente non imposti dalle costituzioni, per proteggere le generazioni future dall’irresponsabilità con cui i cittadini di oggi, consumatori, investitori e lavoratori, perseguono le loro idee di qualità della vita, anche a spese di violazioni minori delle libertà individuali (purchè senza incidere sulle libertà fondamentali, civili e politiche).

"Se accettiamo l’idea di perseguire seriamente una vita buona, molte delle nostre ideologie politiche e delle opinioni più diffuse sulla società – costituzionalismo liberale, comunitarismo statalista fondato sullo stato sociale – dovranno essere messe in discussione, e sostituite da altre. Il relativismo pigro secondo cui il numero delle concezioni possibili di qualità della vita è infinito, non è più accettabile. D’altro canto, mentre si possono indubbiamente chiamare in causa basi biologiche per le nostre aspirazioni più comuni e per le nostre idee morali, esse consentono anche notevoli variazioni tra le diverse culture e i diversi individui. Né il moralismo estremo, che esige che la nostra felicità sia subordinata alla nostra virtù, né l’edonismo crasso che incoraggia il consumismo bovino, possono rappresentare un’accurata descrizione di ciò che le persone considerano indispensabile quando devono dare la loro definizione di vita buona.

Le linee di confine di ciò che può essere considerata un’idea accettabile di vita buona sono vastissime, ma ci consentono di escludere quelle esplicitamente malvagie, quelle improponibili perché nocive all’ambiente, quelle fondate sullo sfruttamento, quelle improntate alla volgarità o alla rassegnazione, senza con questo pretendere che tutti si facciano santi.

"Soltanto gli individui, i nuclei familiari e le comunità possono perseguire o vivere una vita buona. Ma ciò non significa che la società e i governi possano autoassolversi da ogni responsabilità nel mettere i loro cittadini nella condizione di realizzarla. Al contrario, quando prendiamo sul serio l’idea di una vita buona, l’obiettivo ultimo dei loro doveri e poteri principali è proprio questo. I governi hanno un ruolo positivo ma limitato. È un metro ragionevole per misurare la moralità di uno stato verificare che non faccia niente di meno e niente di più di ciò che è necessario per sviluppare e sostenere le capacità dei propri cittadini che vogliono perseguire qualsiasi idea essi coltivino, purché ragionevole, di una vita buona".

 

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