Cinema italiano/"Mettiamo un po' di vino
italiano al posto della Coca-Cola" Daniele
Lucchetti intervistato da Paola Casella
Articoli
collegati:
Tutti al cinema, ma la cassa piange
Torre: "Produttori sbagliate a ignorare il lavoro del
regista"
Luchetti: Mettiamo un po' di vino italiano al posto della
Coca-Cola"
Gli spettatori aumentano, le sale cinematografiche si moltiplicano: e' tutto oro quel
che luccica?
Purtroppo in Italia piu' sale non significa maggiore offerta, anzi, proporzionalmente
mi sembra che l'offerta sia diminuita. Anche se andare al cinema e' diventato sempre piu'
comdo, per me che amo il cosiddetto cinema di qualita', diventa sempre piu' difficile
trovare un film che mi interessa. Quando ho sentito parlare dell'arrivo dei multiplex ho
sperato invece che anche da noi, come in Francia e in Inghilterra, aumentasse la varieta'
dell'offerta culturale. A Parigi viene programmata in sala una quantita' incredibile di
film, quelli commerciali francesi e americani, certo, ma anche il cinema del resto del
mondo, i capolavori del passato, l'opera dei grandi maestri: ci sono sale dove si
proiettano solo film di Rossellini o dei fratelli Marx. I nostri multiplex invece sono
dedicati esclusivamente al cinema commerciale, mentre i cineforum sono praticamente
scomparsi. Evidentemente da noi la sala cinematografica non e' piu' il luogo in cui andare
a riflettere sul cinema: questo tipo di riflessione si e' trasferita alla videocassetta e
alla televisione notturna, come se amare il cinema di qualita' fosse diventata
un'attivita' carbonara.

Molti incassi su pochi titoli, soprattutto stranieri. Perche'?
La cinematografia americana ha raggiunto un tale livello di marketing da offrire un
prodotto inattaccabile dal punto di vista commerciale. Per loro il cinema e' innanzitutto
un'espressione commerciale, tant'e' vero che il padre del film non e' il regista ma la
casa di produzione, che ha come priorita' il riprendersi i soldi che ha investito. Poi ci
sono i grandi maestri come Spielberg e Scorsese che riescono a creare capolavori anche
all'interno di quel meccanismo. Noi invece partiamo dal presupposto contrario, cioe' che
un film debba essere essenzialmente uno strumento di espressione artistica, e solo in
seconda battuta ci preoccupiamo della sua dimensione commerciale.
Quali sono i settori che hanno maggiormente bisogno di rafforzarsi?
Credo che il punto debole del cinema italiano sia proprio la capacita' di far arrivare
l'offerta al pubblico potenziale. In America il regista viene affiancato da un team che
cerca di rendere commerciale, o commerciabile, quello che l'autore ha in mente. Sono
maestri nel creare la curiosita', l'evento, la necessita' di "comprare" un certo
prodotto cinematografico: sono stato di recente in vacanza negli Stati Uniti e io stesso
ho avuto la sensazione che fosse assolutamente indispensabile andare a vedere tutti i film
che erano in sala in quel momento. I nostri registi invece non sono educati ad avere
vicino una figura che si occupi di commercializzare il film, di promuoverlo in modo che il
pubblico lo veda. Abbiamo bisogno di professionalita' in grado di far rendere al meglio i
nostri talenti creativi.
Creativamente parlando, la mia generazione, quella che ha esordito dieci anni fa --
Salvatores, la Archibugi, Mazzacurati -- sta vivendo un momento di grande perplessita'.
Abbiamo passato il momento in cui eravamo la novita', e adesso non abbiamo piu' l'alibi di
essere giovani registi, dobbiamo preoccuparci di raggiungere la maturita'. Pero'
oscilliamo tra la tentazione di allargare i nostri orizzonti, di fare il cinema con la C
maiuscola, magari affrontando i generi cinematografici tradizionali -- il western, il
giallo, e cosi' via -- e il desiderio di tornare a guardarci dentro, per la paura di
tradire le nostre radici. Un buon esempio recente di queste due tendenze opposte lo danno
due film: La leggenda del pianista sull'oceano di Tornatore, che si ispira al grande
cinema internazionale, e Cosi' ridevano di Amelio, che va invece in cerca delle nostre
radici.
Che si puo' fare per migliorare la situazione del cinema italiano?
Io credo che dovremmo migliorare la consapevolezza del tipo di prodotto che siamo
capaci di fare. Non abbiamo le risorse suffficienti per globalizzarci ne' per raggiungere
il livello di penetrazione del mercato degli americani. Pero' possiamo specializzarci,
cioe' fare un cinema estremamente regionale ma che contenga quegli elementi mitologici che
lo rendono particolare, raro, unico. Non a caso riusciamo ad arrivare all'estero con film
come La vita e' bella, che ha caratteristiche assolutamente italiane, piuttosto che come
Nirvana, che e' impostato sul modello americano. Dobbiamo, cioe', essere il vino contro la
loro Coca-Cola. Il pericolo semmai e' quello di sfuggire al cliche culturale attraverso il
quale veniamo visti dal resto del mondo. Ma questo e' un problema che vivono tutte le
cinematografie, nel contesto della cultura globalizzante rappresentata dal cinema
americano.

Quale puo' essere il ruolo del governo?
Sebbene io stesso abbia usufruito a suo tempo dei fondi statali, credo che quello di
trovare i finanziamenti per il cinema sia un problema da risolvere all'interno
dell'industria. Credo invece che la cosa piu' importante che il governo possa fare per il
cinema italiano sia considerarlo un fatto di cultura di massa e promuoverlo come tale,
cioe' farlo conoscere all'interno dell'ambito scolastico, migliorare le scuole di cinema,
creare una piu' profonda consapevolezza, accentuare la passione. In Francia il cinema
figura fra le materie di studio del liceo e i ragazzi conoscono i film classici, John
Ford, i musical, ma anche il cinema italiano, i grandi maestri del passato come i
contemporanei. E' chiaro che, quando arrivano a vent'anni, non sono interessati solamente
al cinema commerciale, ma hanno voglia di vedersi Scorsese o Hitchcock sul grande schermo:
anche perche' sanno che Hitchcock fa molta piu' paura al cinema! Tutto questo si
trasformera' in una maggiore consapevolezza, in una maggiore maturita' del pubblico adulto
che andando al cinema scegliera' di piu'.
Bisogna inoltre che lo stato si impegni a proteggere il nostro cinema del passato, un
patrimonio che non puo' andare perduto e che non deve essere relegato esclusivamente alla
programmazione televisiva notturna, ma va curato come si fa per le opere d'arte nei musei.
Basterebbe che il dieci per cento delle sale cittadine fossero dedicate al cinema
classico, e di queste almeno una a quello italiano: io sono anni che non vedo un film di
Rossellini su un grande schermo. Non so che fine abbia fatto la proposta di Veltroni di
far "adottare" un film classico italiano ad ogni comune, perche' lo
restaurassero e lo proiettassero in sala: a me era sembrata un'ottima idea. Sono convinto
che non ci sarebbe un solo studente che, vedendo sul grande schermo La strada o Amarcord,
non si innamorerebbe del nostro cinema.
Ha ancora senso parlare di cinema italiano nel contesto europeo?
Si', certo, ma solo se il nostro cinema riesce a mantenere la sua identita'. Non amo le
coproduzioni europee che, per ottenere un prodotto internazionale, mettono insieme un
regista tedesco, un'attrice francese, un musicista italiano, un direttore della fotografia
inglese. E' un modello che non funziona. La strada giusta, soprattutto per quanto riguarda
il cinema d'arte, mi sembra quella di Ken Loach, i cui film sono estremamente
"regionalizzati" ma riescono comunque a comunicare qualcosa a tutto il mondo.
Articoli collegati:
Tutti al cinema, ma la cassa piange
Torre: "Produttori sbagliate a ignorare il lavoro del
regista"
Luchetti: Mettiamo un po' di vino italiano al posto della
Coca-Cola"
|