Il pezzo che qui pubblichiamo è
l'introduzione a un importante studio sull'attitudine degli italiani nei confronti della
pubblicità dal titolo "La pubblicità. La si odia o la si ama? - 84 domande e
risposte su "gli italiani e la pubblicità". La ricerca è stata curata da
Enrico Finzi, presidente di Astra e di Demoskopea e commissionata dalla Pirella Göttsche
Lowe
Molti ci hanno chiesto come mai avessimo commissionato una indagine
come questa. La domanda sottintendeva più stupore che ammirazione. Unagenzia di
pubblicità sa spendere soldi, spesso, in modi più creativi. Può fare una bella
convention in Tunisia, mandare fiori freschi ogni mattina alle mogli dei clienti, arredare
lufficio dellamministratore delegato con mobili dantiquariato. Noi, per
la seconda volta, ci siamo interrogati sulle reazioni dei consumatori italiani alla
pubblicità. Lo avevamo fatto nell84, lo abbiamo rifatto adesso.
Enrico Finzi, presidente di Astra e di Demoskopea, ha progettato come allora, per la
seconda volta, la ricerca e ne ha steso i risultati. Un fatto curioso per chi si vuole
porre come unagenzia creativa, come lagenzia più creativa in Italia. Ma non
si dà creatività se non cè, parallela, cultura della comunicazione. La parte
emersa del nostro lavoro è fatta di claim, di spot, di pagine stampa, di materiali per il
punto vendita. Ma nulla uscirebbe da qui se non fosse generato, in qualche modo, da
unincubazione concettuale di alta capacità strategica. Sono tante le campagne
nostre entrate nel costume e nella cultura popolare. Già il titolo di questo volumetto:
"La pubblicità. La si odia o la si ama" fa il verso ad uno degli ultimi claim
di successo, quello per la marca Superga.

"Non avrai altro jeans allinfuori di me" e "Chi mi
ama, mi segua" scrivevo un po di anni fa per dei jeans. "O così o
Pomì" è di qualche anno più tardi, e seguiva il suggerimento di un account
executive. E "Repubblica sveglia lItalia" con un Craxi colto, in una foto
di repertorio, durante unassemblea del suo partito, mezzo addormentato. E Gatorade:
"Vince la sete... e riparti di slancio". E "Altissima, purissima,
Levissima". E "Io esiste" per il lancio del mensile Max o "Uoma"
per il rilancio di Amica. E "Chi cè cè, chi non cè, non
cè" per il lancio di un liquore al limone. O la campagna per Volvo, quella per
Averna, quella per Baileys. Loro Piana, Santa Margherita, Artemide, Alessi. Non
cè cliente, piccolo, medio, grande che sia entrata, con unimmagine di marca
netta e promettente, nellimmaginario di tutti. Lelenco è lungo e
ingiustamente parziale. Ma serve solo a dimostrare diciotto anni di coerenza nella
qualità, nella qualità pubblicitaria. Siamo lunica agenzia italiana che ha vinto
un Leone di bronzo nel 1997 e un Leone doro nel 1998 al Festival Internazionale di
Cannes. Ma mai come oggi sembrano saltati i criteri di giudizio unitari, la percezione
condivisa che una cosa è bella o brutta, giusta o non giusta, utile o dannosa. In assenza
di una cultura comune del comunicare, sembra che vada bene tutto e il contrario di tutto.
E la coda di quegli anni Ottanta che sono stati i grandi e
vitalissimi corruttori del nostro mestiere. Non per nulla Roberto DAgostino li ha
definiti come "la Belle Epoque della nostra memoria. Cera il post moderno
nellarchitettura di Portoghesi, il Nome della rosa di Umberto Eco, il pensiero
debole di Gianni Vattimo, la transavanguardia di Achille Bonito Oliva". Gli anni
della stupidità: così sono stati giudicati da un bello stuolo di osservatori gli anni
Ottanta. Difficile avanzare dei però nei confronti di unetichetta paradossale,
certo, ma perentoria. O invocare dei diminutivi, quasi ad attenuare la colpa della
presenza di noi tutti dentro un decennio stupidino. Sicuramente sono stati anni muscolari,
nei quali lesibizione del tanto ha trionfato sulla quieta produzione del meglio.
Tanta velocità: gli aerei privati hanno portato gli importanti da Milano a Roma a Milano
a Roma per quattro differenti meetings nel corso della stessa giornata. Tanto denaro: non
solo i miliardi di lire del deficit italiano, ma anche e soprattutto i miliardi guadagnati
in Borsa, i miliardi delle classifiche degli uomini più ricchi della Terra, i cinque,
sei, otto, dieci milioni al metro quadrato degli appartamenti nei centri storici della
città, i miliardi dei quadri alle aste di Sotheby. Tanta carta: i giornali si sono
gonfiati di pagine, di supplementi, di speciali, di inserti, di depliant, di pubblicità.
Infine, tanta pubblicità.
E allinizio degli anni Ottanta che Berlusconi comincia ad
agire come metal detector di budget sommersi. La leggenda racconta il diverso modo di
affrontare i possibili clienti pubblicitari di quello che, allora, era a capo di una
piccola emittente privata chiamata prima Telemilano, poi Canale 5. Un camper attrezzato ad
ufficio, a camera da letto, a salotto e cucina ospitava Silvio Berlusconi nella sua caccia
agli imprenditori sconosciuti. Da Empoli a Taranto, da Pordenone a Settimo Milanese, da
Zola Predosa a Pomezia: lautista guidava la notte da un giacimento allaltro
delleconomia sommersa. Alla mattina alle 9, Berlusconi usciva dal camper fresco di
dopobarba e pronto allincontro. Ogni puntino sulla carta geografica, una riunione
con un industriale; ogni industriale incontrato, limpegno ad investire una bella
cifra su Canale 5.
Berlusconi vanta un record non ancora omologato ma certo degno di citazione: il numero
delle colazioni nel corso di un anno. I biografi più attenti ne hanno contate, in quegli
anni, tra le 400 e le 420.
E grazie a questo fiume in piena che la spesa pubblicitaria, negli anni Ottanta, è
straripata con percentuali superiori a quelle degli altri paesi industrializzati, e le
agenzie di pubblicità sono state sottoposte ad uno sforzo di adeguamento delle strutture
che ne ha sconvolto la fisionomia. E come se lintero mercato pubblicitario
avesse fatto uso di anabolizzanti per sopportare il peso benedetto ma schiacciante dei
nuovi budget. Ci sono agenzie che non hanno retto e sono state costrette a fusioni,
mettendo in piedi strutture gigantesche. Altre che, non reggendo, sono quasi scomparse.
Altre ancora che, invece di diventare grandi, sono diventate grasse.
In mezzo a tanto ottimistico gigantismo, anche la qualità creativa ha cercato più il
tanto che il meglio. Perché ricorrere alla finezza quando si può far leva sulla
grossolanità? La finezza è faticosa e comporta dei rischi, mentre la grossolanità viene
giù facilmente ed ha un ascolto garantito.
Sotto, infatti, a grattarci, cè il già fatto, il già detto, il
già visto. Molta parte della pubblicità anni Ottanta ha raccontato il già raccontato,
ma gonfiandolo. Perché girare uno spot a Cinisello Balsamo quando lo si può girare in
Australia? Perché girare un trenta secondi con cento milioni di spesa quando lo si può
pagare seicento milioni? Perché fare una campagna pubblicitaria da soli, cercando qualche
idea originale, con tutti i rischi che questo comporta, quando la si può copiare tale e
quale da una campagna americana che ha avuto grande successo?

E questo, infatti, per chi volesse fare una piccola cronaca della
pubblicità italiana ciò che divide il modo di fare degli anni Settanta da quello degli
anni Ottanta. Chi mai aveva voglia di dare credito alla pubblicità negli anni che
seguivano il Sessantotto? Non era disattenzione, era proprio un reciso negarsi
allascolto. E il pubblicitario, per parlare ad un pubblico che non voleva starlo a
sentire, cercava di fare come i bambini con la madre arrabbiata che li ha messi in
castigo. Cercava di farsi piccolo, dolce, ironico, di iniziare il discorso con la voce
bassa bassa, per farsi perdonare, magari abbracciare, per sorridere poi insieme. Era il
decennio dellironia, nei quali il messaggio pubblicitario scontava un complesso di
colpa. E le campagne erano avvolgenti, caute, volutamente spoglie e minimali.
essuno si sarebbe azzardato a mettere negli spot trionfalismi, volgarità, ricchezze
esibite, simboli di stato. La rottura degli anni Ottanta è stata una corsa verso forme
espressive più colorate e promettenti, più frontali e gonfie: gli anni del doping.
Certo, è come per le canzoni di Sanremo. A forza di sentirle, anche le più stupide si
fanno apprezzare. Prendiamo, come esempio, lo schema, tipico delle campagne per i
detersivi, della scettica convertita. Richiede una donna che sa tutto sul prodotto e
unamica, vicina di casa, suocera, nuora o sorella che non sa nulla. Il dialogo è a
base di "Lava più pulito? Non ci credo", e poi: "Ma comè che si
chiama questo tuo prodotto?" e poi: "Ma è incredibile! Lava davvero più
pulito!" e infine due varianti, una che si basa su: "Me lo presti?",
laltra, più sbarazzina, che si spinge sino a: "Te lo rubo". Ecco, basta
un investimento rilevante e questo spot mostra di funzionare. Colloqui di gruppo mettono
in evidenza che le consumatrici capiscono il messaggio. Test di ricordo mostrano che il
pubblico ricorda parola per parola tutto il telecomunicato. Se le modelle scelte, il modo
di girare, le luci, il montaggio sono a cura di un grande regista straniero, si può
garantire un alto indice di gradimento.
Nessuno potrà mai dimostrare che una campagna meno risaputa avrebbe potuto dare risultati
migliori.
Così, stereotipo dopo stereotipo, in quegli anni abbiamo visto tanti
spot che cercavano di inserire il prodotto allinterno di stili di vita inarrivabili.
Era il trionfo di "abbiamo lesclusiva", delle telefonate dalle macchine,
dalle barche a vela per birre e whisky, delle cavalcate selvagge e snob, delle case da
rivista di arredamento americana.
I bambini nascevano in cliniche così belle da far venire voglia di dare subito uno
schiaffo al medico della USL, le auto correvano lungo paesaggi visti, prima dallora,
solo nei quadri di Poussin, salire sui treni significava entrare, minimo minimo, in casa
di una nobildonna veneziana. Il mondo è bellissimo, ci diceva questa pubblicità, e
buono. Non è solo Toto Cutugno che deve ringraziare i buoni sentimenti per avergli
consentito uno sfruttamento intensivo. La mamma, la famiglia, lItalia, la casa: ecco
un altro filone vincente di questi anni. Per dirla rozzamente, ha funzionato da copertura
ideologica ad una società nella quale la voglia dominante era quella di capitalismo. Far
soldi dando a vedere di osservare i vecchi, stabili valori: direttore creativo di queste
campagne, cè da giurarci, era Ronald Reagan in persona. Per carità, il giudizio
non è né politico, né moralistico. Ma, per parafrasare una vecchia battuta, ci voleva
un cuore di pietra per non mettersi a sghignazzare davanti a certe lacrimose storie
pubblicitarie.

E poi lo spot asintattico, salterino, pseudocolto, lo spot di poesia.
Gli anni Ottanta lhanno visto apparire timidamente qua e là, infittirsi, diventare
un diluvio, stancare al primo sguardo. Era in bianco e nero, molto spesso, perché la
poesia mal si concilia con il colore. Non aveva dialoghi, non aveva parole; solo una
canzone, meglio se nota, a far da spiedino alle immagini. Imitava la maniera dei
videoclip, anche se non teneva in conto che un videoclip dura tre minuti e uno spot trenta
secondi. I sapori, quindi, si succedevano a contrasto, come nellagrodolce: bianco e
nero, poi colore, poi qualche intervento grafico, poi lei, poi un paesaggio, poi una mano,
poi qualche intervento grafico, poi il colore sfuocato, poi, per finire, ancora bianco e
nero. Insomma, si era alla ricerca del sublime, ma quasi sempre ci si fermava un po
prima: ad una sequenza da album fotografico.
Bravo loperatore.
La comunicazione persuasiva è tutta unaltra cosa. Non è far
dire alla gente: "E vero, le cose stanno proprio così". E far dire:
"Che strano? Non sapevo che le cose potessero stare così". Non ciò che è
atteso, va comunicato; ma linaspettato, linatteso, ciò che, sorprendendo,
crea il desiderio. E lo scarto dalla norma. Oggi ci rivolgiamo ad un pubblico che è
molto cambiato. Non mi riferisco a quel cambiamento che accese di sinistra gioia luterana
gli occhi di molti ricercatori a metà degli anni Novanta, quando arrivarono gli hard
discount, le marche private e la recessione. Calavano i consumi, le marche restavano sugli
scaffali, i cittadini sembravano voler disobbedire a tutto: alle ideologie, ai partiti, ai
consigli per gli acquisti. E i sociologi, festosi per quellaria penitenziale e
ribellistica, predicavano una pubblicità informativa, tutta tesa a raccontare gli
ingredienti, i segreti di fabbricazione. LUnione Consumatori, il Giurì e
LAntitrust come direttori creativi. Allora meglio il gran mistificatore Reagan.
Oggi il consumatore è più maturo perché sa tutto. E finita la sua innocenza.
Giornali, riviste, trasmissioni televisive gli hanno spiegato cosè il marketing,
cosè un positioning, un claim. Nelle ricerche, ai colloqui di gruppo, consumatori
reclutati a caso discutono di benefit, consigliano registi pubblicitari, propongono
miglioramenti degli story-board. Sanno tutto ed è aumentato il cinismo, il radar
difensivo che intercetta i messaggi più prevedibili e li disarma. Io so che tu sai che io
so.
Questi anni ultimi Novanta non sono stati gran che in nessuna delle
arti importanti.
Immaginarsi in quellumile applicazione che è la pubblicità. Non vediamo lora
di toglierci dai piedi questi ultimi periodi di fine secolo per poter ripartire puliti. Oh
il 2000 come saremo bravi. Ora è come se una vasta area depressionaria stagnasse su tutto
lOccidente. Oscilliamo tra il look tossico delle modelle e il senso di nullipotenza
dei protagonisti di "Trainspotting".
Anche la vitalità nasce dalla disperazione: ed è subito "Full Monty". Come
nelle previsioni dei meteorologi, vediamo spirar giù dallInghilterra unaria
cupa che porta ai ghigni diabolici, alla deformazione grottesca, allincubo. Un
famoso spot per Nike immagina, in unarena disperata una partita a calcio tra demoni
e calciatori, con tackle omicidi e ali da pipistrello dantesco. Le gomme "Dunlop, per
giustificare il finale "Provate per gli imprevisti", mettono in scena una specie
di divinità grassa e maligna che lancia per strada, con laiuto di streghe e di
altre presenze deformi, biglie dacciaio, repellenti sostanze, ostacoli ributtanti.
E il trionfo del gotico, nel suo versante più disordinato, ridondante, cattivo,
selvaggio. Questo influsso, così lontano dalle nostre capacità, si combina con
unaltra aria potente che ci arriva dalla Scandinavia. Più burlona, questa, più
accesa di colori, ma anchessa contraria ad ogni minimalismo. Sono campagne dove
imperano doppi sensi, panciuti uomini nudi col sesso eretto, soprano sopra il quintale,
sfighe colossali, gran mangiate, saune di secondordine: unispirazione comica
di grana grossa, un po da papiro goliardico.
Sotto queste correnti gravide di nuvole nere e minacciose, noi poveri italiani restiamo
paralizzati ai nostri tic: la commedia allitaliana, il richiamo sessuale da Paese
dellAmerica latina, qualche giochetto di parole, il massiccio ricorso ai
testimonial, un po di scopiazzature da ciò che ci arriva da qualche parte del
mondo. DallAmerica è difficile prendere ispirazione. Là i soldi sono tanti e gli
effetti speciali, con mesi di lavorazione al computer, sono perfetti. I pochi italiani che
si avventurano nel mondo degli effetti speciali fanno la figura degli illusionisti da
circo. Ma i migliori dei pubblicitari americani lontani da New York e magari annidati in
città come Venice in California, come Portland nellOregon, come Minneapolis nel
Minnesota sono dei maestri nel costruire delle miniature di film. Si guardano i loro spot
che raccontano storie ora buffe, ora sentimentali, ora ironiche, ora magiche, con grande
invidia.

Si capisce che non sono passati sotto lo schiacciasassi normalizzatore
della nostra comunità che obbliga a mettere il nome del prodotto nel titolo, meglio se
allinizio. E bello grande il prodotto. Più grande, ho detto. "Think
small" era il primo titolo di una memorabile campagna americana per la Volkswagen.
Con unauto piccola piccola in una grande pagina bianca. Le vendite di
quellauto quadriplicarono. E obbliga a mettere nella campagna il consumatore al
quale ci si rivolge. Ma che sia un po più bello, un po più ricco, un
po più di quanto sia in realtà.
Questo è ciò che si chiamava, ai tempi dellestetica stalinista, lideologia
delleroe positivo, del realismo sovietico. Zdanov, il teorico, voleva nella
letteratura, nel cinema, nei manifesti operai belli, alti, muscolosi. E andò a finire
come sapete.
Gli Evangelisti, che la sapevano più lunga, per mettere in scena i loro meccanismi
persuasivi, non esitavano a raccontare di prostitute pronte per essere lapidate, di poveri
e buoni samaritani, di servi infedeli che rubano al padrone, di figlioli prodighi che si
davano alla bella vita. Ma la morale della favola era lì: chiara, bella e precisa. La
conversione si ottiene rappresentando il contrasto tra bene e male in modo realistico,
comprensibile, vicino allesperienza di tutti. La Chiesa cattolica lo sapeva e lo sa:
e rappresentava la gente non come avrebbe dovuto essere, ma come era.
E terza raccomandazione banalizzante della comunità italiana: ma cosa ci capirà in
questa campagna un pastore sardo? Bisogna essere semplici, in modo che tutti capiscano.
I pastori sardi, sottoposti alla maturazione forzata di sei reti
televisive più altre due, più quelle digitali, ne sanno ormai più di Spielberg. E la
cosa che chiedono è di non essere presi per scemi. Tutti sanno ormai tutto e sono capaci
di capire un annuncio pubblicitario nuovo, fresco, creativo.
Le migliori campagne di questi anni obbediscono ad un identico meccanismo persuasivo.
Sembra che dicano una cosa e invece ne dicono unaltra. Chiedono una piccola
collaborazione, per essere capiti, a chi legge. Ed è chi legge che completa il messaggio,
interpretandolo, facendolo suo. E come se io, comunicatore, cominciassi una frase,
esitassi su una parola solo per farmela suggerire da chi ascolta. Sarei sicuro, a quel
punto, che il contatto è avvenuto, che il messaggio è passato, che la persuasione è
stata raggiunta.
E infatti basta osservare quanti degli annunci internazionali ricorrano ad una parodia, a
una citazione, ad uno stereotipo trasportato in un altro contesto. Si prende in prestito
il marchio della Nike, si prende in giro Godzilla, si resuscita Elvis, si mutano le
matrioske, si ruba limmagine della "Corazzata Potemkin" o del Cristo
brasiliano, ci si traveste da comunisti, ci si atteggia a surrealisti, si fa la parodia
della pubblicità. Ironia e autoironia: svelare i nostri meccanismi e riderne insieme. Non
allo scopo di vendere il prodotto, ma per farsi comprare. Non è un gioco di parole.
Vendere il prodotto è applicare le regole vecchie e ha bisogno di tante e tante pagine
per ottenere il ricordo. Ed è ciò che tutti odiano della pubblicità. Farsi comprare è
farsi scegliere per amore, per desiderio, per gesto daffetto, per amicizia. Proprio
questo è creatività: il modo inaspettato per farsi comprare da un consumatore che ci
desidera.