Il mestiere
delle armi
Paola Casella
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Ci sono alcuni momenti, guardando Il mestiere delle armi di
Ermanno Olmi, in cui si trattiene il fiato, e si prova un brivido di deja
vu: succede quando l'immagine davanti ai nostri occhi, composita e
dettagliata come tutte le inquadrature di tutti i film di Olmi, si
trasforma in un quadro. O meglio: siamo noi spettatori a riconoscere
in quell'immagine un celebre dipinto del passato.
Vittorio Storaro, il direttore della fotografia preferito da
Bertolucci e Coppola, ha detto una volta che noi italiani siamo
avvantaggiati rispetto al resto del mondo, perché abbiamo
immagazzinato nella nostra memoria visiva una quantità di capolavori
artistici, e l'abbiamo fatto in modo semicosciente, semplicemente
vivendo in città dove questi capolavori alloggiano, magari in stato
di abbandono, o facendo i compiti di scuola su quaderni che portavano
in copertina la riproduzione di un quadro di Giotto. (Naturalmente
Storaro parlava per la sua generazione, oggi in copertina ci sono i
Pokemon e Harry Potter).

Forse è per questo che, agli
occhi degli spettatori italiani, Il mestiere delle armi assume
un significato particolare. Ma non è solo l'arte italiana a fare la
sua comparsa nel film di Olmi: disseminati lungo l'arco della
narrazione visiva fanno la loro comparsa anche opere di altri maestri,
ad esempio i fiamminghi. Il mestiere delle armi, in ogni caso,
rimane un film di cultura - in primo luogo visiva - europea. Sarà per
questo che il regista ha sottratto volontariamente il suo film alla
lizza per rappresentare l'Italia agli Oscar 2001? Perché intuiva che
il pubblico d'oltreoceano non avrebbe ritrovato nel suo film quegli
echi, quelle risonanze che il pubblico europeo, e italiano in
particolare, non può non individuare, anche solo subliminalmente?

Se Quentin Tarantino attinge a
piene mani alla cultura pop americana e assembla i suoi film con
frammenti (homage, li chiama lui) del cinema che lo ha
preceduto, Ermanno Olmi si rifà all'arte figurativa europea dal
Quattro al Seicento. Così l'agonia di Giovanni dalle Bande Nere
prende le forme secolari - perché lo stesso Giovanni, pur fedelissimo
al Papa, affronta la propria morte con lo sconcerto di chi è troppo
giovane per aver assorbito appieno l'idea di un aldilà pietoso che lo
aspetta - del Cristo morto del Mantegna. Così la scena di
battaglia de Il mestiere delle armi che vede le truppe di
Giovanni armate di lunghe lance diventa, sotto i nostri occhi, la Battaglia
di San Romano di Paolo Uccello.
Tutta la ritrattistica maschile del film riprende Tiziano e il profilo
della donna con naso adunco è tratto testualmente dal Ritratto di
Laura Battiferri di Agnolo Bronzino. Le composizioni delle scene
domestiche a casa di Giovanni - donna, bambino, tavolo, candela -
rimandano immediatamente ai fiamminghi, e continuo riferimento viene
fatto a Vermeer - le finestre di vetro piombate, la luce che filtra da
sinistra - e a Van Eyck.

I riferimenti sono molti di più -
e chi, fra i lettori, volesse segnalarne altri è invitato a farlo,
scrivendo a caffeeuropa@caffeeuropa.it
- ma già quelli citati rendono l'idea di quanto Olmi abbia assorbito
la lezione dell'arte europea, e si sia impegnato a tramandarla
incorporandola nell'ordito del suo film in modo organico e necessario,
utilizzando i riferimenti pittorici sempre a proposito, a rafforzare
l'ambientazione temporale, a sottolineare la sensibilità visiva di
quel tempo, a fare da contrappunto iconografico alla vicenda.
E Olmi sta bene attento a non indugiare troppo su un particolare
dipinto, dandoci giusto il tempo di riconoscerlo e di esclamare un “ooh”
tutto interiore. Dopodiché la composizione si sfalda, e il quadro
confluisce in un altro, tutto Olmi, che porta avanti la storia, anzi,
la Storia.
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