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Sergio Garufi e Marissa Morelli



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Forse non è vero, come sosteneva il regista tedesco Alexander Kluge, che il cinema è un capitolo della storia dell'arte che si colloca fra l'architettura e la televisione (e probabilmente oggi aggiungerebbe anche Internet). Quel che è certo, però, è che l'omologazione di linguaggio fra il cinema e la pittura ha favorito, negli anni, l'intrecciarsi di relazioni e condizionamenti reciproci fra queste due arti visive.

Non a caso, vari registi, come David Lynch, Takeshi Kitano, Wim Wenders e Peter Greenaway, sono anche pittori. E pure le affinità terminologiche fra pittura e cinema, a ben vedere, si sprecano: si parla di "ritratto", "paesaggio" o "vasto affresco" sia per l'una che per l'altra disciplina artistica.

Le relazioni più esplicite e scontate fra pittura e cinema riguardano i film-biografia di artisti famosi, che possono tuttavia presentarsi, in alcuni casi, come felici e non pedisseque rivisitazioni di un mito (vedi Caravaggio di Derek Jarman, in cui la narrazione della parabola umana dell'artista è continuamente scandita da citazioni di suoi dipinti, seppur con tanti ma significativi e deliberati anacronismi).

Rapporti altrettanto evidenti, però, si riscontrano pure nei film sulla pittura (vedi Passion di Godard su Rembrandt, Goya e Delacroix), che indagano, quasi con linguaggio documentaristico, le diverse modalità espressive della rappresentazione.

Nel caso dei film storici (penso a Barry Lyndon o L'età dell'innocenza), il regista trae ispirazione dalle opere di famosi artisti del passato (Watteau, Hogarth e Gainsborough per Stanley Kubrick e la pittura impressionista per Martin Scorsese), non solo per ricreare fedelmente l'ambientazione, le pose, i costumi e perfino i gioielli dell'epoca, ma per veicolare un contenuto che va ben al di là del mero esercizio di stile.

Da non trascurare pure i film girati da pittori, tipo l'interminabile Empire di Warhol, a inquadratura fissa, o Ballet Mécanique di Léger e Anemic Cinema di Duchamp.

Vi sono poi diversi esempi di suggestioni mediate, in cui il movimento artistico o il pittore preso a riferimento servono unicamente a evocare determinate atmosfere. E' questo il caso, per esempio, del rapporto fra l'arte informale italiana (Burri, in particolar modo) e alcuni film di Antonioni (come Deserto Rosso); o Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, in cui i dipinti di Francis Bacon, mostrati durante lo scorrimento dei titoli di testa, in molte singole scene o inquadrature sembrano dettare al regista le collocazioni di Marlon Brando nell'appartamento.

Quanto alle singole citazioni disseminate all'interno dei film, l'elenco sarebbe troppo lungo e dispersivo. Limitandosi ai casi più eclatanti, non possiamo omettere di menzionare Greenaway, che ne fa spesso largo uso, a tratti addirittura spregiudicato, come nella riproposizione del "San Gerolamo" nello studio di Antonello da Messina in Prospero's book, con l'attore però abbigliato come il doge Loredan del Bellini e la luce che illumina la scena quasi rembrandtiana.

In Novecento di Bertolucci, rivediamo il "Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo, con tutte le implicazioni di lotta sociale dei primi del XX secolo che questo comporta. In Lancillotto e Ginevra di Robert Bresson notiamo i colori smaltati e le profonde campiture de "La battaglia di San Romano" di Paolo Uccello.

In uno dei capolavori di Vincente Minnelli, Spettacolo di varietà, compare una scena di danza classica che riprende pari pari un quadro di Degas, che infatti, in una scena successiva, ritroviamo autentico appeso nella stanza di Fred Astaire, e le ballerine di Degas vengono evocate anche dal recente Moulin Rouge, che del resto basa gran parte della sua iconografia sui poster del Moulin Rouge disegnati da Tolouse-Lautrec, interpretato nel film da John Leguizamo.

Indimenticabili, in Pasolini, il "Cristo morto" di Mantegna in Mamma Roma, e il Pontormo de La Ricotta, o il "Bacio" di Hayez in Senso di Luchino Visconti; perfetta illustrazione di quel dramma romantico.

Rimanendo in ambito italiano, ci piace ricordare che tutto il cinema del toscano Paolo Benvenuti, in particolare Confortorio, è zeppo di citazioni di quadri fiamminghi e del Caravaggio mentre il grossetano Tiburzi ha il medesimo rapporto con i macchiaioli.

Una citazione del Rosso Fiorentino di Volterra può essere ravvisata nel film La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel, con un uso più trasgressivo (se non blasfemo) rispetto a Pasolini, trattando della fantasia erotica di una vecchia bigotta che accoglie il soldato ferito nella propria comunità di sole donne. Derek Jarman, in Love Is The Devil, usa lo stile di Bacon come materiale illustrativo. E Anthony Minghella nel Paziente inglese sospende a una fune Juliette Binoche nella Chiesa di San Francesco ad Arezzo per mostrarle gli affreschi della leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca - e le scene affrescate fanno da contrappunto al gioco seduttivo fra la ragazza e l'ufficiale angloindiano che, nel film, l'ha condotta alla chiesa.

Wenders ha dichiarato, in una conversazione con Paul Puschel e Jahn Thorn-Pricker (inclusa nel volume L'Atto di vedere, edito da Ubulibri), il suo debito verso Edward Hopper, evidente in film come The end of violence; e lo stesso dicasi per Cimino e il suo I cancelli del cielo. E poi "American Gothic" di Grant Wood viene citato nella scena del matrimonio in The Rocky Horror Picture Show, quando Janet raccoglie il bouquet della sposa. E ancora Tarkovskij con Bruegel, Polanski e Leonardo, Kurosawa e Bunuel con Van Gogh...

Ma qualsiasi elenco di questo tipo risulterebbe miseramente incompleto, e non servirebbe comunque ad approfondire la tematica più profonda e interessante, che riguarda la funzione e l'intento col quale viene adoperata la citazione di un quadro all'interno di un film. Lungi quindi dall'essere una mera questione tecnica e stilistica, e al di là del semplice gioco erudito, volto a identificare cosa e quando si nasconde nelle inquadrature, varrebbe la pena soffermarsi maggiormente sull'uso che viene fatto delle citazioni, che è sempre in diretto rapporto col contesto in cui queste vengono inserite.

Troppo spesso, infatti, l'uso spregiudicato e massivo dell'inserimento di dipinti famosi nello svolgimento della narrazione assomiglia - perché così viene inteso da molti spettatori - a una sorta di percorso a ostacoli per iniziati, una specie di linguaggio cifrato teso a identificare (o forse a gratificare) "lo spettatore complice", e ad escludere "lo spettatore occasionale" (nell'accezione di senso adoperata da Eco in letteratura), finendo così per non aver alcun senso narrativo.

Ci si dimentica, così facendo, che la funzione della citazione non si limita a evocare un ambiente, un periodo storico o un'atmosfera, ma serve ad avvalorare una tesi, attribuire un significato, creare parallelismi nuovi e inattesi, instaurando una sorta di dialogo muto e proficuo, l'eco di una interstestualità comparatistica, fra arti diverse che si confrontano entrambe con il linguaggio delle immagini.


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