Trans-figurazioni
sul grande schermo
Parlano Sandro Bernardi e Raul Grisolia
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Una rassegna ad hoc
La scorsa settimana si è svolto, presso l'Università degli studi di
Roma Tre, un convegno dal titolo transfigurazioni sotto l'egida
di Lino Micchiché. Obbiettivo del convegno era quello di mettere a
fuoco il rapporto di interazione tra cinema e pittura e soprattutto di
capire meglio la funzione che la pittura viene a svolgere all'interno
del testo filmico.
Fra gli interventi, due ci sono sembrati particolarmente interessanti:
quello di Sandro Bernardi, che ha parlato della citazione pittorica in
Antonioni, Pasolini e Godard, e quello di Raul Grisolia, che ha
illustrato - con tanto di spezzoni cinematografici - il rapporto fra
Salvador Dalì e da una parte Bunuel, dall'altra Hitchcock.

I film analizzati da Bernardi sono
La ricotta di Pier Paolo Pasolini, Deserto rosso di
Michelangelo Antonioni e Il bandito delle 11 di Jean Luc Godard.
"Questi tre film", ha detto Bernardi, "rappresentano il
rapporto di ibridazione tra cinema e pittura come forma estrema del
cinema impuro del quale parlava Bazin, secondo cui è impuro il cinema
che mostra di avere alle sue origini il prestito e l'imitazione di
altre opere. Sono film-laboratorio, punti di incontro in cui il
rapporto fra varie arti mette in gioco il concetto stesso di
rappresentazione".
L'attenzione di Bernardi si è concentrata su questi film come ibridi,
in quanto hanno unito in sé cinema e pittura rimanendo creature a
metà fra un'arte e l'altra. Nel cinema impuro diverse forme di
rappresentazione coesistono, ma ognuna resta se stessa, e non c'è
transazione fra le due. Bernardi prende a paragone l'ibrido della
mitologia, che "è impossibile da classificare: un mostro come la
chimera, che ha la testa di capra, il corpo di leone e la coda di
drago, o la sfinge, che è insieme donna e leone, sono imbarazzanti
per il nostro sistema culturale, che si appropria del mondo attraverso
la classificazione. L'ibrido contiene prima di tutto una forte critica
dell'identità e la sua natura ambigua è fortemente pericolosa per
l'omogeneità della rappresentazione. (Questi tre esempi
cinematografici rappresentano quindi) il cinema come critica
dell'identità".

"In tutti e tre i film
intervengono, all'interno di un'opera di fiction, citazioni che non
hanno una funzione di conferma della forma della rappresentazione, ma
anzi entrano in conflitto con la rappresentazione e producono attriti
talmente forti che la rappresentazione sembra vacillare",
continua Bernardi. E illustra la sua teoria con esempi concreti: la
strada di Deserto rosso, dice, è morandiana, cioè dipinta
alla maniera di Morandi, la cui citazione si estende ad altre
sequenze, come quella in cui Corrado e Diana (due personaggi del film,
nda) fanno l'amore nella camera d'albergo, e la stanza assume una
colorazione che è anche una colorazione di morte.
Antonioni ha dipinto il mondo di Corrado e Diana alla maniera di un
pittore. "Questo significa che noi spettatori vediamo una
rappresentazione di un reale sul quale è stata esercitata
un'operazione pittorica", dice Bernardi. "Non è la
citazione di un quadro, ma una colorazione del mondo. Il che produce
nel film un'incertezza fondamentale circa la soggettiva e
l'oggettiva".
Nel Bandito delle 11 di Godard invece interviene il blu di
Picasso come rottura dell'illusione di realtà del film. "Alla
fine della sequenza iniziale", spiega Bernardi, (quella in cui
Jean Paul Belmondo legge una lunga citazione di Velazquez, nda),
"nell'inquadratura entra un blu che si sparge sulla parete, sulle
mattonelle, sulla donna che sta nella casa e appare come un'intrusione
violenta. Ancora una volta cinema e pittura coesistono senza entrare
in contatto, senza attuare una transazione. Il film accetta dentro di
sé la pittura come corpo estraneo ma non riesce a utilizzarla a fine
narrativo.

Infine ne La ricotta di
Pasolini "la pittura cozza violentemente con la rappresentazione
cinematografica fino a ostacolarla, a mostrarne i limiti", dice
Bernardi, che si riferisce in particolare al tableau vivent
della crocefissione di Cristo che appare in una memorabile scena del
film. "Il tableau vivent non riesce e il tentativo di
inglobare la forma della rappresentazione pittorica fa implodere il
cinema. La pittura sta dentro La ricotta come esempio
dell'irraggiungibile. Il tableau vivent stesso è un pauroso
ibrido, basta pensare che Goethe già lo descriveva come momento
perturbante fra l'immobilità e il movimento".
"Ne La ricotta non c'è sinergia fra pittura e cinema ma
attrito e stridore, e la morte è l'unica soluzione", conclude
Bernardi. "Dopo La ricotta Pasolini è dovuto tornare
indietro, a forme di transazione più concilianti. Nel suo film
successivo, Il Vangelo secondo Matteo, la vita del Cristo
appare infatti come il catalogo di tutte le rappresentazioni
pittoriche che ne sono state date. Lì dunque c'è la transazione
accademica, e la cultura funziona come macchina di assimilazione e
sinergia fra pittura e cinema".

Raul Grisolia ha concentrato la sua attenzione sulla collaborazione e
il sodalizio artistico tra Salvador Dalì e Luis Bunuel principalmente
attraverso un film del regista catalano: Un Chien andalou.
Grisolia ha poi esaminato la collaborazione fra Hitchcock e Dalì, che
si colloca in un momento storico preciso - il 1944 - ed è legata alla
realizzazione di Io ti salverò. "Una collaborazione che
non avrà sèguito", dice Grisolia, "come un sogno
finito".
La sceneggiatura stessa di Un Chien andalou, sostiene Grisolia,
"privilegia la contraddizione delle immagini e favorisce una
costruzione basata su episodi visivi che sono quadri in movimento, ma
ripiegati su se stessi, ciascuno dotato di un'autonoma potenzialità
espressiva". Queste composizioni, spiega Grisolia, si propongono
come la realizzazione vivente della visione surrealista e "una
volta completate bastano a se stesse e non devono preoccuparsi della
macchina da presa e della struttura del film". Del resto, ricorda
Grisolia, fu lo stesso Dalì a dichiarare che "Il mondo del
cinema e della pittura sono ben distinti".
"L'incubo di Io ti salverò è l'unica occasione in cui
Dalì può trasformare la sua pittura in cinema", continua
Grisolia. "Dalì ha spesso sottolineato come la forte
sensibilità simbolista di Hitchcock si avvicinasse, grazie al suo
interesse per l'universo onirico, al cuore della visione
surrealistica, mettendo l'accento sulla comune radice simbolista e il
forte legame formale che avvicinava Hitchcock non solo a Dalì ma
anche a De Chirico, con le sue figure statuarie e le sue prospettive
accelerate e complesse".
"Dalì struttura le diverse composizioni delle sequenze oniriche
di Io ti salverò come un'estensione visiva del racconto del
protagonista. Nello stesso tempo, all'interno delle diverse
composizioni visive, può ricostruire uno spazio che è la
realizzazione tridimensionale del suo universo pittorico, dove il
rapporto tra cinema e pittura è capovolto: la pittura non è
assorbita dal cinema, ma si ha l'illusione che accada il contrario...
(Tuttavia) l'assoluta libertà di espressione plastica che Hitchcock
garantisce a Dalì resta strettamente limitata allo spazio del
sogno".
"L'immagine hitchcockiana è un sistema chiuso, che assorbe tutti
gli elementi che lo compongono. Anche lo spazio fuori campo è
un'estensione virtuale rigidamente sottomessa alla struttura
dell'immagine", che viene quindi a costituire "un vero e
proprio sistema formale". "La pittura, che entra sotto
diverse forme nel cinema di Hitchcock, viene scomposta e ricreata ex
novo, con un'operazione intellettuale che la rende parte
dell'insieme del film".
"Anche quando l'immagine pittorica occupa l'intero spazio
dell'immagine filmica Hitchcock, attraverso movimenti di macchina e un
accurato uso dei diversi tagli di inquadratura, ne scioglie la
struttura nel più generale sistema visivo, disfacendo il dispositivo
pittorico che di quell'immagine è all'origine. (...). Il regista
riserva a Dalì uno spazio a parte, in cui l'incubo si dispone in tre
parentesi visive, contigue ma separate dal resto del film. Per
paradosso, si potrebbe affermare che non esiste la citazione pittorica
nei film di Hitchcock, quanto piuttosto un'emozione pittorica
dell'immagine filmica".
Grisolia pone l'accento sulla differente visione del rapporto
cinema-pittura da parte del pittore (Dalì) piuttosto che del regista
cinematografico (Bunuel e Hitchcock). "Il cinema per Dalì ha una
qualità riflessiva, viene inteso come uno spazio che riflette
l'immagine pittorica rendendola plastica, ammettendola ad una
dimensione nuova che è anche e soprattutto una dimensione fantastica.
L'immagine filmica viene considerata da Dalì nella sua capacità
evocativa e simbolica che adempie a una funzione non narrativa".
Bunuel e Hitchcock invece privilegerebbero una qualità di rifrazione,
intesa come "la possibilità di assorbire e trasformare
dinamicamente nella narrazione l'immagine pittorica". Secondo
Grisolia però esiste una fondamentale differenza fra questa
possibilità di trasformazione in Bunuel e in Hitchcock. "Bunuel,
attraverso un percorso articolato e complesso, elabora una visione in
cui l'immagine filmica instaura un continuo confronto con la pittura,
un corpo a corpo che crea dei campi di fluttuazione visiva che è
anche una fluttuazione del senso. (...) Le immagini di Bunuel
mantengono quindi una struttura aperta e flessibile che può
sopportare senza frantumarsi anche una presenza autonoma e invasiva
della pittura. Il sistema di rifrazione di Hitchcock invece non è
reversibile, come nel caso di Bunuel, anche se nel caso di Bunuel si
tratta di reversibilità apparente. Nel cinema di Hitchcock, una volta
che la pittura è stata decostituita dalla macchina da presa, non può
essere più separata dalla pellicola su cui è stata
impressionata".
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