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Postmoderno, postmodernismo, postmodernità



Adalberto Vallega



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Quella che segue è la sintesi parziale dell'intervento di Adalberto Vallega, docente all'Università di Genova, presentato nel corso del Workshop su “Postmoderno e Geografia” organizzato dalla Societa’ Geografica Italiana a Roma lo scorso 26 settembre


Parole in libertà

Il termine “postmodernismo”, il cui uso dai tardi anni Sessanta si è andato diffondendo in un ampio ventaglio di discipline e di campi culturali, ha un’origine piuttosto lontana. Sarebbe apparso verso la fine dell’Ottocento per indicare correnti d’avanguardia nel campo delle arti figurative.

Le convergenze di interessi tra geografia, da un lato, e architettura e urbanistica, dall’altro lato-convergenze che si sono andate rafforzando in tempi recenti-hanno solide motivazioni: per sua natura, la geografia si sente impegnata a trovare nuovi indirizzi di rappresentazione della città, sensibili a mettere in discussione le relazioni tra paesaggio, cultura, condizioni sociali e esercizio del potere; l’architettura , d’altro canto, si sente impegnata a sviluppare protagonismo progettuale al di là degli schemi del razionalismo; l’urbanistica, a sua volta, si interroga sempre più sugli obiettivi, sui criteri informatori e sulla stessa ragione d’essere del piano urbano.

Queste discipline, poi, si trovano impegnate a integrare rappresentazione, progetto e azione sul territorio, sicché rafforzano i legami reciproci, sia sul piano della ricerca teorica sia su quello della ricerca empirica. Nella letteratura statunitense, poi, queste relazioni sono diventate così solide da dar vita a impostazioni integrate tra le tre discipline: da un lato, come mostrano i contenuti dei due volumi curati da Claudio Minca (Minca C., ed., Introduzione alla geografia postmoderna, Padova, CEDAM, 2001; Minca C., ed., Postmodern Geography: Theory and Praxis, Malden, Blackwell, 2001), gli articoli di geografi impegnati sul postmoderno sono frequentemente dedicati ai contesti urbani, che tendono a inquadrare in termini utili sia per il progetto (architettura) sia per il piano (urbanistica); dall’altro lato, i geografi sono spesso invitati a fornire contributi per volumi antologici sul postmodernismo curati da architetti e urbanisti.

Questa circostanza, tuttavia, non deve condurre a sottovalutare le interazioni che la geografia statunitense postmodernista ha instaurato su altri versanti disciplinari, sia con la teoria della cultura, e più in generale con la filosofia, sia con la teoria sociale. A questo riguardo è utile tenere presente che, nel corso degli anni Settanta, un vasto numero di discipline, dalla letteratura alle arti visuali e sceniche, era ormai impegnata, o stava per esserlo, sulla discussione pertinente il postmoderno (e il postmodernismo), sicché era ormai visibile, sull’orizzonte della ricerca scientifica degli Stati Uniti, come il discorso su questo campo tematico fosse diventato un fatto corale.

Questi elementi conducono ad affrontare il primo problema, cui ha fatto fronte Minca allorché si è proposto di selezionare i saggi da includere in Introduzione alla geografia postmoderna. Egli, infatti, si è trovato innanzi a una condizione non rara nella letteratura scientifica, ma che sul terreno di cui ci stiamo occupando ha raggiunto dimensioni di tutto rispetto. Alludo alla circostanza secondo la quale uno stesso termine è usato con significati diversi, e a termini diversi sono attribuiti significati analoghi, determinando così inconvenienti nella comunicazione e limiti all’efficacia della discussione.

Per quanto riguarda il nostro tema, nella letteratura si incontrano tre coppie di termini: (a) moderno, postmoderno; (b) modernismo, postmodernismo, (c) modernità, postmodernità. Minca rileva che nella letteratura anglosassone si tende a usare “postmodernism” per indicare il movimento culturale, “postmodernity” per indicare l’epoca, e “postmodern” come attributo. Sulla base di questa constatazione, nel tradurre i saggi nordamericani egli ha sostituito, ove necessario, i termini usati dai singoli autori con quelli appena richiamati, in modo da agevolare il lettore nel mettere a confronto le varie posizioni. Questa operazione mostra, a contrariis, che la terminologia in uso è varia, soprattutto che sono vari e sfumati i significati attribuiti agli stessi termini, al punto che il curatore di un volume debba cercare di livellare il terreno. Se, poi, dalla letteratura geografica si passa a quella extra-geografica, si assiste addirittura a un pirotecnico gioco terminologico.

Quindi, il problema del linguaggio è più ampio di quanto possa apparire osservando la reductio ad unun attuata da Minca. Non c’è dubbio che, dalla prospettiva in cui egli si è mosso-che era quella di evitare al lettore di perdersi tra gli arcipelaghi dei significati linguistici disseminati nell’oceano della letteratura sul postmoderno-la sua impostazione sia stata motivata. Non lo sarebbe se, invece, il nostro proposito fosse quello di capire che cosa hanno inteso i protagonisti della letteratura, compresi quelli della letteratura non geografica, attraverso le parole che essi hanno scelto e usato. In questo senso le differenziazioni e le ambiguità terminologiche diventano l’elemento di interesse, da mettere in evidenza, piuttosto che un elemento di disturbo, da mitigare.

Per affrontare il tema ho preso in esame sia gli autori che hanno contribuito ai due volumi curati da Minca, sia un gruppo di altri autori, soprattutto impegnati nel campo dell’architettura: in totale, 17 autori. Ovviamente, sono stati selezionati autori che avessero avuto cura di definire il senso dei termini di cui hanno fatto uso. È comprensibile che, compiuta una scelta del genere, si debbano adottare criteri mediante i quali raggruppare le definizioni e, lungo questa via, si debbano identificare i sensi più ricorrenti e meno oscuri attribuiti alle parole. Si tratta di qualcosa di più che una semplice operazione metodologica.

Definire criteri, infatti, produce due conseguenze: da un lato, in rapporto al criterio scelto si determina il risultato, sicché la scelta del criterio non è mai neutrale; in secondo luogo, qualunque criterio si adotti, si procede a ordinare gli oggetti, nel nostro caso tre coppie di concetti. E ordinare è operazione che appartiene al contesto culturale moderno: la prima rappresentazione moderna della natura-a ragione argomenta Foucault-si ebbe quando Linneo ordinò vegetali e animali e, così facendo, introdusse il razionalismo nello studio della natura. Di conseguenza, non sarebbe un’operazione appropriata per indagare su un contesto, qual è il postmodernismo, conflittuale con la cultura della modernità.

D’altra parte, almeno nel nostro caso, ordinare è un procedimento ineludibile per trovare uno strumento utile a disegnare una rotta all’interno dell’oceanico linguaggio postmodernista. A questo scopo, i significati attribuiti ai termini dai vari autori sono stati contraddistinti da due tipi di codice: un codice è riferito alla disciplina cui li hanno attribuiti i singoli autori; l’altro codice è riferito agli ambiti speculativi (ontologico, semiotico e epistemologico) in cui è sviluppata la discussione.

In merito al primo tipo di codice mi sono rifatto, con qualche aggiustamento, alla rassegna delienata da Woods nella sua rassegna del postmodernismo. Il quadro che ne è derivato, e che qui non è riportato in dettaglio per non appesantire l’esposizione, contiene 45 definizioni, di cui 26 si riferiscono alla coppia “modernismo/postmodernismo”, 13 si riferiscono a “modernità/postmodernità” e soltanto 6 riguardano la coppia “moderno/postmoderno”. È frequente che un autore usi termini diversi attribuendo loro lo stesso significato. Ad esempio, la letteratura nelle arti figurative (pittura) e nel progetto architettonico mostra frequenti casi in cui moderno e modernismo, da un lato, e postmoderno e postmodernismo, dall’altro lato, sono usati con lo stesso senso. In altri casi, i termini modernità e postmodernità sono impiegati per indicare sia un periodo storico, sia un indirizzo nelle arti figurative.

Il primo codice mette in evidenza l’ampia articolazione del linguaggio, connotazione scontata quando si navighi in contesti culturali di postmodernità. Deduzioni più interessanti si traggono quando si tenga conto dei codici pertinenti agli ambiti speculativi. Allora l’esplorazione delle 45 definizioni conduce a rilevare come, sia pure con grande difformità di linguaggio, la letteratura, nel suo complesso, abbia affrontato tre ambiti: ambito ontologico; ambito semiotico; ambito epistemologico. A questo punto emergono due deduzioni.

Campo di riferimento-Quando si discorre sul moderno occorre avere presente che ci si può muovere su tre terreni. In primo luogo, sul terreno ontologico, all’interno del quale ci chiediamo se sia configurabile che, in certe parti del mondo, una società postmoderna sia succeduta alla società moderna. Da qui siamo indotti ad affrontare il problema della periodizzazione della storia, discusso ampiamente da Harvey. In secondo luogo, possiamo muoverci sul terreno semiotico, specificatamente nella semiotica dello spazio, all’interno del quale ci chiediamo quale natura abbia la rappresentazione, quale rapporto si instauri tra segno e significante, e quale rapporto intervenga tra segno e significato. Insomma, ci troviamo innanzi al tema centrale dell’edificio speculativo di Olsson. Ci possiamo muovere, infine, su un terreno epistemologico, all’interno del quale ci chiediamo quali significati nascano dalla rappresentazione, e quali apparati di conoscenza ne conseguano.

Terminologia-Per rendere più agevole la discussione e per non restare preda di equivoci, a ciascuno di questi tre campi, ontologico semiotico epistemologico, sarebbe opportuno riferire un termine specifico, e soltanto quello. Nel far ciò, sarebbe anche utile usare termini con sensi non troppo lontani da quelli ricorrenti nella letteratura, almeno in alcune sue parti fondamentali, e suscettibili di influire sulla prassi geografica. Muovendoci in questa direzione possiamo riferire:

§ moderno e postmoderno all’ambito ontologico, vale a dire al mondo dei significanti. In questo senso si parlerebbe di società moderna e postmoderna e, così facendo, ci si raccorderebbe al linguaggio usato da quegli storici che si sono occupati di problemi di periodizzazione;

§ modernismo e postmodernismo all’ambito dei segni, che danno vita al mondo della rappresentazione e che rientrano nel campo della semiotica. In questo senso ci si raccorderebbe al modo, diffuso fin dall’inizio del Novecento, di usare il termine “modernismo” per indicare movimenti nelle arti figurative e nel disegno architettonico;

§ modernità e postmodernità all’ambito dei significati, vale a dire al mondo delle costruzioni culturali, compresi ideologie, narrazioni e metanarrazioni, discorsi e metadiscorsi. È il mondo delle idee cui conducono i segni.

Questa configurazione terminologica possiede solidi agganci con quanto asserisce Dear, secondo il quale, di volta in volta, moderno e postmoderno, così come modernismo e postmodernismo, sono stati riferiti a tre contesti.

§ Pratiche sociali- Il termine “moderno” è stato considerato come l’insieme delle pratiche proprie del capitalismo, atteggiamento che ha condotto ad assumerlo anche come il modo capitalistico di organizzare il territorio. Correlativamente, “postmoderno” è stato riferito a modelli organizzativi antinomici rispetto a quelli del moderno. Così facendo, moderno e postmoderno, o se si vuole “modernismo” e “postmodernismo”, sono considerati come epoche. Questo punto di vista riguarda il campo ontologico e, tra i terreni favoriti della discussione, include quello della periodizzazione. Per ragioni di chiarezza, quando ci si muoverà su questo terreno, in questa sede si parlerà di moderno e di postmoderno.

§ Pratiche culturali e stilistiche-Sia “modernismo sia “ postmodernismo” sono stati considerati anche come stili, in tal modo collegandoli al mondo della rappresentazione, in particolare alle arti figurative e al progetto architettonico. Da qualche tempo questo tipo di discorso è condotto con specifica attenzione alla teoria del linguaggio, sicché ci si muove essenzialmente sul piano della semiotica del territorio. Da qui in seguito, la coppia di termini modernismo e postmodernismo sarà usata con un senso analogo, sicché sarà riferita al mondo dei segni.

§ Atteggiamenti speculativi-Su questo piano “moderno” e “modernismo” sono intesi come le manifestazioni dell’Illuminismo e del razionalismo e, di conseguenza, sono stati riferiti alle costruzioni filosofiche radicate su queste basi. Correlativamente, postmoderno e postmodernismo sono stati intesi come costruzioni speculative di segno opposto. Lungo questo itinerario si perviene alla discussione epistemologica, che attiene al discorso sul pensiero moderno e postmoderno, sulla modernità e sulla postmodernità. A questo proposito, da qui in avanti parleremo di modernità e di postmodernità, riferendoli al mondo dei significati.

Abbiamo visto come il pensiero di Dear, esponente della scuola postmodernista di Los Angeles, conduca a identificare tre campi, ontologico semiotico epistemologico, in cui si sviluppa il discorso sulla rappresentazione. Ne deduciamo che per rendere esplicito a quale campo ci si riferisce mentre si sviluppa il ragionamento, è bene usare termini distinti, vale a dire:
· moderno e postmoderno, in rapporto al campo ontologico;
· modernismo e postmodernismo, in rapporto al campo semiotico;
· modernità e postmodernità, in rapporto al campo epistemologico.

I tre campi di riflessione richiedono di essere tenuti ben distinti, in ciò non soltanto procedendo lungo la strada tracciata da Dear, ma tenendo anche conto degli apporti forniti da Olsson, protagonista di grande caratura dell’atteggiamento critico nei riguardi del pensiero della modernità. Secondo Olsson, infatti, la critica alla geografia moderna tende, per sua natura, a svilupparsi in tre modi. In primo luogo, prende in considerazione la modernità come una caratteristica condizione, empirica e geografica, del mondo contemporaneo.

Questo atteggiamento coinvolge il campo ontologico, con il connesso problema del rapporto tra significante e segno. In secondo luogo, la geografia postmoderna coltiva un metodo decostruttivo, che coinvolge il linguaggio delle rappresentazioni, in ciò cercando di delineare i contenuti dati per scontati (taken for granted) e quelli nascosti. Su questo piano l’attenzione si rivolge alla semiotica delle scienze territoriali, intesa come complesso di segni che investono lo spazio geografico. La geografia postmoderna, infine, dà luogo a una critica epistemologica globale, attraverso la quale si esibisce in un radicale ripensamento delle forme consolidate di costruzione di conoscenza geografica, dunque alle pratiche del geografo.

Due indirizzi, divisi dall’Atlantico

Il fatto che nella letteratura geografica dedicata ai temi del postmoderno, del postmodernismo e della postmodernità vi sia un comune denominatore, costituito da atteggiamenti critici rispetto alla società moderna, e per conseguenza al modo moderno di creare rappresentazioni e costruire significati, non vuol dire che tra i geografi postmodernisti vi siano posizioni omogenee. Al contrario, riferendosi ai contributi presentati nella Conferenza di Venezia (1999), Soja mette in evidenza divaricazioni di non poco conto. Una prima divaricazione, cui egli dedica molta attenzione, si è delineata tra i geografi “postmoderni” della scuola di Los Angeles (Dear e lo steso Soja), da un lato, e Gunnar Olsson, affiancato da altri geografi europei, dall’altro lato.

La scuola di Los Angeles è attenta a indagare la realtà, soprattutto la realtà urbana, per identificarvi i segni del moderno e del postmoderno, con l’obiettivo finale di scoprire i giochi di potere da cui sono ispirati, gli spazi eterotopici che nascondono, le contraddizioni sociali che riflettono. Al contrario, Olsson predilige argomenti teoretici e-secondo Soja-si dedica a speculazioni astratte e non sorrette da ragionamenti stringenti. Di conseguenza, sempre secondo Soja, nel contesto nordamericano è stata messa in atto una crescente capacità di creare prassi, mentre nel contesto europeo questa capacità è rimasta debole, soffocata dalla propensione a sviluppare teorizzazioni fine a se stesse.

Considerare questa querelle è utile per scandagliare anche fin a qual punto e in quali direzioni la cultura post-strutturalista francese che, essendo fortemente incline alla speculazione, è stata vicina allo spirito dei geografi postmodernisti europei, abbia esercitato influenze sugli ambienti del postmodernismo geografico nordamericano. L’argomento è discusso da Minca , il quale, in estrema sintesi, ritiene che le relazioni tra ambienti post-strutturalisti francesi e la geografia postmodernista nordamericana abbiano attraverso una sequenza di atteggiamenti così configurata:

1. nel corso degli anni Sessanta e Settanta, nella geografia, così come nel comparto delle scienze sociali, gli ambienti nordamericani hanno sviluppato il radicalismo e il marxismo, che hanno fecondato teorie sociali e schemi culturali molto critici nei riguardi della modernità, vale a dire nei confronti del pensiero su cui si fonda la società moderna;

2. nel frattempo, in Francia, si è sviluppato il post-strutturalismo, che si è proposto un obiettivo analogo, sia pure perseguito su differenti livelli argomentativi;

3. in quel periodo, negli Stati Uniti ci si è resi conto che il pensiero post-strutturalista avrebbe potuto contribuire a rafforzare il criticismo sviluppato da parte dei cultori della teoria sociale e della teoria culturale;

4. ne sono derivate sensibilità da parte degli ambienti nordamericani, sicché il postmodernismo si è arricchito di varie fonti di ispirazione, radicate sia nella cultura nordamericana sia in quella europea;

5. alla fine ne è risultato un quadro composito di atteggiamenti e di indirizzi, che non ha mancato di riflettersi sulla geografia postmodernista nordamericana, il cui esordio ebbe luogo nel corso degli anni Ottanta.

Venendo alla geografia, va notato che tra i due terreni di fecondazione, nordamericano e francese, non solo sono emerse differenze di contenuti discorsivi, ma anche alcune profonde, e più influenti, differenze tra i piani di discussione. Il criticismo nordamericano, almeno quello che ha influito sulla geografia e in senso lato sulle scienze del territorio, è stato molto sensibile a scandagliare la realtà, soprattutto la realtà urbana, sicché la sua attenzione si è rivolta al rapporto tra la dimensione ontologica (i significanti) e la rappresentazione (i segni dello spazio sociale).

Il pensiero post-strutturalista, invece, è stato incline dal discorso teoretico, sicché l’attenzione si è rivolta al rapporto tra rappresentazione e significati, cioè al rapporto tra il modo con cui la realtà è modellizzata e le narrazioni cui si approda. Ne è derivata una notevole sensibilità verso la teoria della rappresentazione. Queste differenze, tra un atteggiamento rivolto alla realtà sociale e un atteggiamento rivolto alla cultura che la sorregge, non sono mai venute meno. In questo quadro è essenziale tenere conto che il pensiero post-strutturalista ha recato tre fondamentali apporti alla creazione di rappresentazioni postmoderniste, sia in geografia sia nelle altre scienze del territorio.

Il primo apporto, molto influente, è stato quello del decostruzionismo, che sull’onda del pensiero di Jacques Derrida e di Roland Barthes, ha elaborato modi di produrre conoscenza che assumono il testo come punto di partenza e da qui procedono a esplorare quelle parti che il testo nasconde, o dà per scontato, e che invece spesso rappresentano” la parte più significativa della loro capacità di ordinare e di normare gli ‘oggetti’ di cui parlano” . “Metodologicamente, il decostruzionismo-precisa Denzin- è rivolto all’interrogazione dei testi. Coinvolge il tentativo di estrarre ed esporre i significati messi in evidenza, le tendenze, e i preconcetti che strutturano il modo con cui il testo concettualizza il proprio rapporto con ciò che descrive. Ciò richiede che i concetti tradizionali, la teoria e le conoscenze che stanno attorno a un testo siano districate, assumendo che le intenzioni e i significati di un autore possano essere agevolmente determinate.”

Il secondo apporto lo si deve al pensiero di Michel Foucault che, grazie al suo criticismo sulla modernità, ha creato terreni di grande interesse per la rappresentazione del territorio. Fin dalla metà degli anni Sessanta, soprattutto con il saggio Les mots et les choses, egli ha proposto una visione della modernità costruita scandagliando il modo con cui la rappresentazione del mondo, intervenuta a partire dall'Illuminismo, si è venuta formando e mettendo in evidenza come le metanarrazioni che ne sono conseguite abbiano assunto la storia a base fondamentale di riferimento, in ciò esaltando la variabile “tempo” e relegando la variabile “spazio” nel sottofondo. Il superamento dell’episteme della modernità dovrebbe, dunque, partire da un rovesciamento della base di riferimento, vale a dire relegando nel sottofondo la coordinata temporale e portando in evidenza la coordinata spaziale. Muovendo dalla speculazione di Foucault si deduce che il postmodernismo, inteso come costruzione di segni, dovrebbe mostrare un crescente interesse per il luogo e lo spazio.

Il terzo apporto è stato fornito dal pensiero di François Lyotard, il quale ha fornito spiegazioni del modo con cui il segno, espresso soprattutto dal linguaggio, sia stato dapprima assunto dalla cultura moderna come base per costruire conoscenza e, in seguito, abbia finito con l'influire sulla condotta nei riguardi della realtà e, quindi, sia diventato il fattore decisivo di trasformazione del reale.

Gli apporti più significativi per la geografia - soprattutto nel campo della teoria della rappresentazione cartografica - secondo Harley provengono da Derrida e Foucault. Mentre il positivismo prima, e lo strutturalismo poi, avevano avuto cura di costruire regole tecniche per la cartografia, il criticismo post-strutturalista ha aperto la strada per delineare regole culturali, basate sul presupposto che “le strutture sociali sono spesso celate dietro la maschera di uno spazio astratto, puramente strumentale, oppure ingabbiate nelle coordinate della cartografia computerizzata”. Il problema -sostiene Harley-consiste nel trovare i modi per trascendere contestualmente ambedue le regole, e la soluzione può essere trovata nell’attivare una decostruzione cartografica ispirandosi al pensiero di Foucault e Derrida.

Si tratta, comunque, di un'operazione non agevole, anche perché i due edifici speculativi di riferimento presentano differenze non marginali. “Foucault, infatti, cerca di ‘ancorare’ i testi alle diverse realtà sociopolitiche in cui vengono prodotti e, nel farlo, elabora una serie di cornici analitiche allo scopo di illustrare il funzionamento e l’organizzazione della conoscenza”. Derida, al contrario, “si dedica proprio a smantellare queste stesse ‘cornici’”. Il metodo decostruzionista ci conduce a una “lettura più attenta e più approfondita del testo cartografico, e ci consente di mettere a fuoco il contesto sociale, e le pratiche sociali, entro le quali la rappresentazione è compiuta.

In conclusione, la decostruzione può influenzare la rappresentazione cartografica in tre modi: (a) ci consente di “sfidare il mito epistemologico del progresso cumulativo di una scienza obiettiva lanciata verso la produzione di descrizioni sempre migliori della realtà”; (b) ci “permette di ridefinire la rilevanza sociale della cartografia”; (c) “può favorire un completo inserimento della cartografia nell’analisi interdisciplinare del testo e della conoscenza” . Se questa impresa riuscisse-il che implicherebbe l'uso di apparati, concettuali e metodologici, tuttora mancanti -si farebbe un notevole passo nella teoria della rappresentazione cartografica, conducendola verso traguardi molto più maturi di quelli attuali.

 

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