Rappresentazione, Postmoderno e
Geografia
Luisa Bonesio
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Un workshop alla Società
Geografica Italiana
Rappresentazione, Postmoderno e
Geografia
La geografia come costruzione
di metafore
Postmoderno, postmodernismo,
postmodernità
Teoria e prassi nella geografia
postmoderna
Quello che segue è l'intervento di Luisa Bonesio, docente all'Universita’
di Pavia, presentato nel corso del Workshop su “Postmoderno e
Geografia” organizzato dalla Societa’ Geografica Italiana a Roma
lo scorso 26 settembre
1. Equivoci e rischi
La fortuna del cosiddetto Postmodernismo in geografia trova il suo
luogo d’origine negli Stati Uniti, e come spesso accade per una
sorta di provinciale complesso di inferiorità, la cultura europea
si sente indotta ad accogliere una tipica mislettura - se non
fraintendimento - di temi filosofici, artistici, architettonici del
Vecchio Continente. Vicenda assolutamente tipica, che si verifica
regolarmente come effetto di rimbalzo dell’assimilazione
straniante di autori, concetti e questioni elaborate dal pensiero
europeo.
Nel dibattito architettonico e filosofico italiano, il tema del
postmoderno è stato archiviato pressoché definitivamente o
sopravvive come posizione residuale, dopo che la palinodia di colui
che lo aveva lanciato come chiave di comprensione della
contemporaneità, Jean-François Lyotard, lo aveva ridimensionato
nel valore di post-, nella sua presunta portata di
oltrepassamento del moderno e Derrida aveva individuato nel prefisso
la compulsione storicista e progressista che esso pretenderebbe di
confutare Posizione “debole” per principio, il postmodernismo, a
partire dalla constatazione della fine delle “grandi narrazioni”
e del potere strutturante dei metalinguaggi nella conoscenza,
abbandona la fede nella ragione di derivazione illuministica per una
disseminazione nei saperi e nelle pratiche teoriche puntuali, senza
peraltro sapere/potere/volere (coerentemente con la sua declinazione
debolistica) elaborare un’idea diversa di ragione, ma adagiandosi,
per così dire, nell’orizzonte epocale comunque strutturato da
ciò che la ratio di derivazione illuministica incarna
essenzialmente: la potenza effettuale della tecnoscienza o della
tecnoeconomia.
Se Lyotard affermava che la postmodernità non è che una tardiva
declinazione della modernità, una sorta di paradigma o messa in
forma dell’esperienza che sorge e sostituisce quelle precedenti,
secondo il normale avvicendamento dei paradigmi che la razionalità
conosce, legittimando tutti coloro i quali preferiranno parlare di
“tarda modernità” o di “surmodernità” (Augé), o in
termini socio-economici, di economia postfordista, nondimeno il “postmoderno”
si è mantenuto fedele al suo stigma di moda culturale, finendo per
diventare, un po’ come il new age, l’impronta stilistica
comune delle parti più ricche del mondo, da certi temi e profili
architettonici, a un certo atteggiamento del consumo (alimentare e
culturale), a un’atmosfera dell’etica, ecc.
Detto questo, e cioè che da fenomeno di moda architettonica prima e
filosofico-critico-letteraria poi, il Postmoderno è diventato un
nuovo codice di comportamento e legittimazione della cultura comune,
tanto più efficace in quanto a parole afferma di volere
destrutturare codici e concetti “dati per scontati”, è
opportuno soffermarsi rapidamente sulla scarsa consistenza
filosofica soprattutto del postmodernismo versione americana, che
liquida di fatto tutto lo spessore teorico e la complessità di
pensiero dei filosofi europei ai quali afferma di rifarsi, spesso
citati per sentito dire, ritrascritti a partire dal cosiddetto
decostruzionismo in posizioni ultrarelativistiche o sociologizzanti
che non appartenevano affatto ai loro testi. Operazione già
condotta, con esiti altrettanto banalizzanti, oltre che di effettiva
inservibilità analitica, dalle varie correnti femministe.

Ma va detto con chiarezza che i testi dei vari
Nietzsche, Heidegger, Foucault, Derrida poco o nulla hanno a che
fare con le posizioni che si attribuiscono loro oltreoceano.
Inoltre, spesso la conoscenza di questi autori di riferimento si
limita a pochissime opere, come è il caso di Derrida, canonizzato
come decostruzionista ma ignorato per gli sviluppi ulteriori del suo
pensiero, o di Heidegger, che certo sobbalzerebbe a vedersi
appioppata l’etichetta di padre del postmoderno, o dello stesso
Nietzsche, che già nelle sue opere aveva anticipato molte delle “scoperte”
e confutato molte delle “ingenuità” teoriche dei postmodernisti,
senza perciò adire a una posizione teorica “relativista” o “debolista”.
L’enfasi postmoderna sulla determinatezza prospettica delle
conoscenze, interpretazioni piuttosto che verità dogmatiche o “dati
di fatto” appare fuori tempo, visto che fin dalle primissime opere
di Nietzsche si afferma la critica alla credenza metafisica nella
verità, e lo smascheramento della volontà di potenza in atto in
ogni sistema della conoscenza, in primis nella scienza. Gli
esempi si potrebbero moltiplicare; basti dire, anche per
contestualizzare meglio le nostre considerazioni, che nella cultura
accademica statunitense la distinzione tra filosofia e letteratura
è molto più incerta e sfumata che in Europa e questo spiega il
ruolo propulsore che il decostruzionismo ha esercitato nell’affermazione
della temperie postmoderna.
Anche l’equiparazione dell’anarchia metodologica e della
dissoluzione della ragione in una miriade disordinata di punti di
vista soggettivi e irrelati, che spinge all’estremo relativismo l’idea
di conoscenza e di cultura, merita una puntualizzazione. Dalle
affermazioni dei teorici del Postmoderno sembrerebbe potersi
desumere un’equivalenza concettuale tra anarchia, disordine, caos
da un lato e molteplicità e frammentarismo dall’altro; come se
pluralità fosse sinonimo di disordine, caos di frammentarietà,
anarchia di pluralità. L’uso incontrollato e promiscuo di questi
termini, ciascuno dei quali rimanda a un preciso orizzonte di
significato e si iscrive in riconoscibili ascendenze filosofiche, è
sintomatico e caratteristico della con-fusione e approssimazione di
molti di questi teorici. Anche in questo caso è opportuno un
esempio: l’idea di frammentarismo con cui il Postmoderno
caratterizza l’esplosione del paradigma unitario della ragione
occidentale non è affatto compatibile con un orizzonte
anti-olistico.
Come è spiegato da un autore di riferimento dei teorici
postmodernisti, Walter Benjamin, l’idea di frammento presuppone
quella dell’intero di cui è parte o scheggia, anche se questo
intero dovesse rimanere inattingibile. Benjamin pensava l’epoca
della modernità metropolitana caratterizzata dalla frantumazione
dell’interezza e dallo scheggiarsi (o dal venir meno) delle forme
d’esperienza precedenti. L’impossibilità di ricostituire l’integrità
del senso non dice che i frammenti appartengono a un altro
orizzonte, incommensurabile e totalmente altro, ma che è nella
natura stessa del frammento testimoniare di una totalità spezzata.
Altro è parlare di anarchia, disordine, o peggio di caos: termini
che con gradazioni diverse indicano l’assenza di un principio
ordinatore.
Ora, il Postmoderno appare in ogni aspetto un semplice
approfondimento o l’esasperazione dello scheggiarsi in
microparadigmi della ragione moderna, in un orizzonte contrassegnato
dall’idea che ogni cultura, comunità o individuo è portatore di
un senso singolare. Lo stesso specialismo, sempre più accentuato,
dei saperi scientifici non certo ha portato al superamento del
razionalismo occidentale, ma a una sua forma nuova, di cui non
vengono revocati i principi strutturanti. D’altra parte la
razionalità del Novecento si è caratterizzata per un’estrema
criticità dissolutiva, perfettamente in linea con le sue ascendenze
illuministiche, che ha portato all’erosione progressiva di quei
sistemi di riferimento, nell’interpretazione e nella costruzione
della realtà, rimasti validi per lunghissimo tempo.
Anche qui, all’inizio di quell’epoca in cui tuttora siamo, della
revoca della validità dei principi metafisici e della sfiducia
verso paradigmi che non siano rivedibili e semplicemente funzionali
a scopi contingenti, troviamo Nietzsche con la sua dissoluzione non
solo dei concetti e dell’idea di ragione oggettiva e perenne, ma
con la diagnosi dell’estrema modernità come epoca del nichilismo
compiuto, in cui non solo i valori che pretendono validità duratura
sono crollati, ma l’umanità ha imparato a convivere con l’incertezza
e le brevi abitudini, consapevole che ogni modalità di
interpretazione della realtà è una forma strumentale la cui
efficacia nasconde il perdurare, sotto apparenze diverse, della
stessa volontà di potenza.
Caratteristicamente assente, nel Postmoderno, è invece la
consapevolezza epocale che consente di valutare gli aggiustamenti e
le successive cosmetizzazioni di uno stesso modello di razionalità.
Ma mentre in Nietzsche e in tutti gli autori che ne derivano,
compresi Heidegger, Derrida, Foucault, il crollo dei concetti della
metafisica porta con sé la fine dell’idea del soggetto come
individuo, nel Postmoderno si assiste a un ripullulare delle
soggettività e delle individualità che dovrebbero prendere il
posto delle verità autoritarie, e la dichiarazione (ingenua) del
proprio punto di vista dovrebbe fornire garanzie democratiche sulla
presa di parola in un mondo dove non si comunica nient’altro che
quanto è previsto dal sistema tecnico della comunicazione.
Ora, se qualcosa caratterizza la fine dell’epoca progressista
della modernità, come ha mostrato esemplarmente Jünger, è appunto
la scomparsa definitiva dell’individuo e l’avvento di quell’umanità
intercambiabile delle masse in cui ciascuno è un fungibile
esemplare del tipo umano forgiato dalle esigenze della tecnica. Se
ci si vuole opporre alla realtà omologante di un conio
indifferenziato di tutti gli aspetti del reale, rivendicando il
valore delle differenze, occorre al contempo non smarrire l’orizzonte
in cui esse accadono e sono situate: affermare soltanto l’universale
diventa imposizione dell’identico e stravolgimento delle
differenziazioni, ma attenersi esclusivamente ai particolari senza
comprendere da che cosa traggono la possibilità di esistere e la
loro specifica prospettiva è ancora una volta lasciare che l’universale
o l’identico vigano incriticati e indisturbati.
L’enfasi sugli aspetti più individuali e soggettivistici dell’esperienza
può essere un’astuzia dell’identico per distogliere da sé l’attenzione
critica. Del pari, occorre la consapevolezza che nessuno è
interamente padrone del linguaggio, che linguaggio e simboli non si
lasciano risolvere nell’intenzionalità soggettiva o
ipersoggettiva, dal momento che è al contrario nel linguaggio e
nelle sue descrizioni che il mondo diventa visibile e praticabile
per una determinata cultura. In altre parole, la forza strutturante
dei linguaggi - ma si potrebbe aggiungere, anche dei “paesaggi”
- non può essere annullata semplicemente come se fosse frutto di
una macchinazione autoritaria, un po’ come il femminismo più
ingenuo pretendeva di fare.
L’estetizzazione e il predominio della funzione comunicativa
(vuota) su quella produttiva, così come la terziarizzazione, il
postfordismo, ecc. non sono affatto in contrasto con la razionalità
moderna, e lungi dal metterla in discussione, assolvono al
fondamentale compito di nascondere meglio il suo ferreo e per nulla
debole funzionamento, che è quello di riportare alla propria misura
(alla misura della tecnica) l’intero mondo in tutte le sue
sfaccettature. In effetti il Postmoderno non porta una sostanziale
critica ai principi tecnoeconomici che reggono il funzionamento
universale del mondo, ma si limita a critiche “migliorative” e
delimitate, al perseguimento di una maggiore gradevolezza, di una
minore spigolosità delle apparenze, a soddisfare le esigenze di
differenziazione di status estetico, a diversificare il consumo dei
beni culturali ed etnici, dal cibo alla casa; politicamente
ipercorretto, ma non interessato a una tematizzazione radicale del
senso della ragione che ancora, astutamente, lo anima.
Da questo punto di vista è forse corretto, ma del tutto
insufficiente, affermare, come ha fatto su altre basi alcuni anni fa
uno studioso italiano, che il postmoderno è un “atteggiamento politico
per cui si dà completamente esaurito il progetto della modernità,
in quanto convergenza di teoria e prassi in un ideale e un’ideologia
di progresso”. In una posizione che fa della denuncia del “dato
per scontato” la sua bandiera metodologica, a permanere non
interrogato e assolutamente dato per scontato è nientemeno che il
quadro epocale della globalizzazione con il ruolo strutturante della
tecnica e la conseguente riduzione della realtà a immagine.
2. Questioni di rappresentazione
Ma passiamo a considerare alcuni punti di specifica rilevanza per il
discorso geografico. Tre sono i punti, a mio avviso, particolarmente
problematici: 1) la questione del “locale”; 2) il tema della
memoria e del neotradizionalismo; 3) il tema delle differenze
culturali e della traduzione. Tutti e tre i punti, a mio avviso,
possono convergere nella questione del paesaggio come identità
culturale.
1) Locale. Nell’epoca della mondializzazione, il
Postmoderno si ergeva a difensore delle differenzialità estetiche,
comunitarie e neotribali a partire dalla proliferazione dei discorsi
(delle donne, postcoloniali, etniche, ecc.). Nel saggio di Paul Knox,
tradotto nel volume curato da Claudio Minca, si legge l’affermazione:
“Il postmoderno è […] localistico”. Poiché è difficile
pensare che il termine qui impiegato alluda al radicamento in un
luogo, esso va più correttamente inteso come riferito all’importanza,
per le ‘sensibilità postmoderne’, dei riferimenti alla storia e
al vernacolare, in quanto parte di una più generale ricerca di
autenticità e di identità socioculturale. Naturalmente, all’inizio
c’è l’idea di Lyotard che “l’aspetto locale, cioè
altamente frammentato deve animare la condotta teorico-pratica dei
soggetti postmoderni.
Finiti i grandi racconti, che conferivano spessore a soggetti e
progetti, ci troviamo di fronte a identità deboli e progetti
parziali. Con quei soggetti e con quei progetti, non è preclusa la
possibilità di costruire, ma è esclusa l’eventualità di
rifondare, in senso forte e impositivo, una totalità: si richiedono
argomentazioni locali, e limitate nello spazio e nel tempo”. Ne
consegue che “pertanto, per quelli che se lo possono permettere,
il consumo e la riproduzione del passato offrono uno strumento
particolarmente potente per dar significato e per definire la
propria distinzione sociale”. Non si potrebbe essere più chiari
nella definizione del “locale” come prodotto, atmosfera
artificiale, oggetto di consumo approntato per conferire “identità
e distinzione” a ceti che investono nella stilizzazione estetica
la propria visibilità.
D’altra parte, la finzione di “luoghi” caratteristici della
struttura classica dello spazio urbano (con la significativa agorafilia
che li connota), il citazionismo e il pastiche che mescolano
stilemi e aure di un’immagine classica della città a misura d’uomo,
sono anche il sintomo dell’invivibilità degli spazi e dei
territori prodotti dalla pianificazione razionalista. Ma come i passages
di Parigi analizzati da Benjamin erano in ultima analisi funzionali
alla flânerie tra le merci esposte per l’acquisto, così
il mall neotradizionalista o le piazzette italiche sulle
quali si affacciano i negozi sono espressione di una strategia
commerciale, e sono a loro volta oggetti e legittimazione ‘culturale’
del consumo.
Il “locale” finisce per essere dunque solo una cornice vuota
utile a favorire un’interazione la cui cifra precipua è quella
del consumo. Non c’è nessun interesse reale per la specificità o
la storia del luogo che vada oltre il suo utilizzo estetico; l’effetto
è esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere espressione
di un luogo, visto che il “locale”, con la specifica identità
del luogo in cui si situa non intrattiene nessuna relazione. Il “locale”
postmoderno può essere collocato ovunque, secondo la medesima
logica che dice di volere combattere, quella della delocalizzazione
operata dall’imposizione di un unico modello culturale e spaziale
e dell’omologazione di ogni ragione nella Ragione del consumo
orientato dalla tecnoeconomia.
In questo senso, a causa dell’inevitabile effetto di
museificazione, fissazione ironica, artificialità o iperrealismo
avulso dalle ragioni viventi che gli avevano originariamente dato
luogo, il “locale” postmoderno dovrebbe essere più
opportunamente definito “localistico”, ossia monumentalizzazione
(in questo caso “ironica”) dell’identità di un luogo a fini
persuasivi. Questa deformazione della fisionomia del luogo in
cliché finalizzato al consumo “culturale”, al riconoscimento di
gruppi o alla rappresentazione di ascendenze più o meno fittizie è
un fenomeno ben presente anche in Italia e rappresenta una strategia
di delocalizzazione e sradicamento che raddoppia, pur con apparenze
contrarie, la logica indifferenziante della tecnoeconomia. La
rappresentazione (in senso scenico) delle differenzialità locali,
rendendone disponibile l’immagine in qualsiasi luogo, crea la
sensazione di poter accedere a dimensioni perdute, oggetto di
nostalgia estetizzante, senza modificare il senso complessivo e la
logica che informa unitariamente il mondo e che ne ha decretato la
sparizione. La fruizione simulacrale di questi spazi fittizi
accentua l’effetto di distruzione e sovvertimento dell’esperienza
spaziotemporale, al pari della virtualizzazione della realtà.
2) Neotradizionale. Analoghe considerazioni potrebbero essere
fatte per il riferimento a ciò che viene considerato “storico”
e “tradizionale”. La rivitalizzazione di certi stili o di aree
centrali urbane a pura finalità cosmetica non va confusa con i
progetti che partono dall’assunto contrapposto secondo il quale
“è la prima volta che il compito di dare continuità al passato
si pone esplicitamente in forma storica, è la prima volta che c’è
bisogno del passato in quanto passato”, che comporta la necessità
di ripristinare l’intero territorio. La tradizione culturale,
quando diventa oggetto e pretesto di un’industria, non è
evidentemente più tradizione, azione vivente del tramandare,
ma un’accozzaglia di oggetti, stili, folclore, memorie,
fossilizzati e buoni a qualsiasi scopo. La decontestualizzazione
storica e memoriale va di pari passo con la delocalizzazione.

La memoria vivente è sostituita dal suo simulacro
svuotato di ogni senso che non sia la finalizzazione commerciale, la
spettacolarizzazione e l’illusione di possedere un’appartenenza
da molto tempo smarrita: “La storia locale viene riscoperta, i
monumenti principali vengono restaurati e spettacolarizzati
attraverso particolari sistemi di illuminazione, villaggi ‘originali’
sono ricostruiti a scopo sia culturale che ricreativo, distretti ‘storici’
vengono individuati e riconosciuti tali sotto il profilo
istituzionale e normativo, tradizioni ormai morte e sepolte vengono
riesumate per organizzare manifestazioni di vario tipo e di diverso
significato culturale”. Lo stesso Claudio Minca osserva che “il
fenomeno potrebbe essere interpretato come un vero e proprio ‘confezionamento’
di paesaggi da consumare, di paesaggi che offrono lo sfondo
materiale e anche culturale a tutta una serie di consumi ‘distinti’,
una sorta di mix tra linguaggi globali e frammenti della memoria
locale ripuliti e reinterpretati”.
Gli spazi “identitari” sono fabbricati a partire da un’invenzione
neotradizionale che in realtà è l’ultimo grido in fatto di restyling
urbano, ma questo diventa possibile senza scandalo solo in
quanto nell’orizzonte delle immagini non c’è più nulla degno
di essere commemorato: nella ripetizione e nel pastiche si
afferma l’in-differenza del tempo, dell’origine, del situato;
tutto, non avendo radici in quanto pura spettacolarizzazione di
segni, può essere dislocato - metaforicamente, spazialmente,
temporalmente. Ma questa dislocazione ha immediatamente un effetto
reale di delocalizzazione ed estirpazione dal contesto che
aveva consentito in origine il senso di quanto ora è ridotto a
semplice immagine, a virtualità di un’evocazione sempre più
sorda.
Anche qui, non si nota nessuna rottura rispetto al Moderno, se il
suo tratto fondamentale può essere riconosciuto, a partire da
Heidegger, nella risoluzione del mondo in immagine. Semplicemente,
alla lotta tra le “visioni del mondo” e le ideologie, come presa
di posizione e prospettiva su ciò che deve valere per “mondo”,
succedono microvisioni di gruppi, tribù, individui, specialismi,
linguaggi settoriali, comunitari, privati, in un progressivo e
inarrestabile scheggiarsi di visioni irrelate, le quali, tuttavia,
lasciano intatto il vero potere che genera l’orizzonte globale
della realtà in cui tutto il resto si inscrive: quello della
rappresentazione tecnoscientifica. Ciò che rimane in ogni caso alla
base di tutto questo è il soggetto che rappresenta, ossia un tipo
di uomo che proietta le proprie misure sul mondo per disporne a suo
piacimento.
Va infine appena notato - ma è una considerazione densa di
implicazioni - che l’estetica del Postmoderno è elettivamente
metropolitana: il suo senso sarebbe incomprensibile al di fuori di
un ben determinato orizzonte, che è quello urbano dell’Occidente
più ricco e avanzato nei consumi. Non si rileva nessuna reale
attenzione per i temi “globali” (natura, risorse, tecnica,
sacro), sacrificati a un’attenzione solipsistica e alle esigenze
di consumo e di rappresentazione (immagine) di specifici gruppi o
individui.
Se un pensiero ha senso nel collocarsi consapevolmente nell’orizzonte
più ampio in cui tutti gli eventi in una determinata epoca si
situano (linguaggio, ideologia, “essere”, economia, ecc.) e
tanto più in un’epoca come la nostra, che manifesta un’indubbia
unità del mondo, facendo del pianeta un unico villaggio il cui
linguaggio universale è quello tecnico, il Postmoderno viceversa si
concentra su microragioni irrelate, a partire da un malcompreso
decostruzionismo che enfatizzava l’irriducibilità dei punti di
vista singolari. Non solo quindi la teorizzazione dell’impossibilità
di tornare alla totalità e a un fondamento condiviso (“la morte
del fondamento e il principio dell’‘erranza’ dei soggetti
costitutivamente ‘nomadi’”), ma un sostanziale disinteresse
per ciò che rende possibile la produzione del mondo in cui siamo,
compresa la chiusura irrelata nelle proprie prospettive individuali
o, per converso, il nomadismo attraverso il grande supermercato
delle merci culturali.
3) Differenze culturali e traduzione. Si è veduto come il
discorso postmoderno tragga impulso proprio dal riconoscimento delle
specificità linguistiche, costumali, culturali dei vari gruppi e
individui. Se questo riconoscimento non vuol cadere immediatamente
in un’incomunicabilità ultrarelativistica, ma nemmeno pacificarsi
nell’ideologia dell’universale comunicazione, del dialogo senza
resti, della (con-)fusione relazionale, occorre riflettere sul
concetto filosofico di traduzione e di dialogo tra culture.
Per il Postmoderno non si tratta certo di ritrovare e valorizzare le
differenze e le identità locali di fronte al confusivo franare
degli ultimi brandelli di singolarità nel gran calderone del
sincretismo planetario, nel senso di quella valorizzazione delle
proprie radici, delle proprie tradizioni consistente nel rimanere
presso ciò che Spengler chiamava “il paesaggio materno della
cultura”, e quindi a salvaguardarne l’irripetibile fisionomia.
La salvaguardia dei propri tratti singolari, se è concepita nei
termini di differenzialità e dialogo con l’altro, conduce a un
effettivo pluralismo, molto più dell’utopia universalistica e
generalizzante su cui si è edificata la modernità. Tuttavia sembra
illusorio pensare di essere definitivamente usciti dal moderno
basandosi sul proliferare delle pratiche discorsive: piuttosto,
forse, si è nella fase estrema dell’epoca, con un’esasperazione
insolubile delle sue contraddizioni.
La tarda modernità corrisponde, da un punto di vista filosofico,
alla fase del nichilismo del nietzschiano “ultimo uomo”, molto
più che a un suo oltrepassamento. Il che, da un altro punto di
vista, è confermato dalla persistenza del modello dello ‘sviluppo’
e dal dominio tecnoscientifico. Nel Postmoderno invece si afferma
una concezione “debole” - nel senso che questo aggettivo ha
assunto nel cosiddetto “pensiero debole” -, che guarda all’identità
come a un gioco relazionale, a uno scambio dialogico fra spazi e
stili culturali differenti, nell’orizzonte tardo-moderno di un
mondo dove non ci sono più autenticità culturali, ma svariate
forme di contaminazione, di sincretismo, di mescolanze, di babelismo:
identità dunque inevitabilmente relazionali, miste, inventive, in
perenne nomadica transizione.
Nel mondo globalmente interconnesso, che parla in realtà un unico
linguaggio, quello della tecnica occidentale, sembra chimerico
attardarsi nel mito regressivo della riscoperta e difesa di
identità originarie: se l’opera occidentale di deculturazione ha
davvero prodotto il deserto del nichilismo, cioè lo sradicamento, a
confrontarsi saranno frammenti di identità, stili locali, echi
culturali, ma in forma di inevitabili mescolanze, ibridazioni,
sincretismi. È ciò che, secondo Latouche, si starebbe verificando
nel Terzo e Quarto Mondo, con l’emergenza delle “economie
informali”, o di quelle “modernità locali” di cui parlano gli
antropologi; o con l’affermarsi di fenomeni sempre più diffusi,
anche nelle nostre latitudini, di sincretismo culturale e religioso,
possibili proprio in quel planetario supermercato delle merci e
delle immagini attuato dalla tecnica.
Prendendo atto che in questo scenario è impossibile perseguire la
difesa di identità forti, ormai cancellate, il Postmoderno ritiene
che sia, al contrario, opportuno favorire il dialogo e la
compresenza, negli stessi luoghi, di forme ed espressioni culturali
diverse, in nell’orizzonte del consumo. Avviene una ritrascrizione
delle proprie e altrui tradizioni in un gioco di citazioni, incroci,
rimandi e mescolanze in cui le specificità e i tratti differenziali
sono cancellate a favore di un dissolutivo effetto d’immagine:
niente è più “originario”, ma tutto diventa esotico, anche la
propria cultura d’appartenenza. Per l’atteggiamento
neotradizionale la baita a blockbau e lo stupa, il macinino
della nonna e l’étagère indonesiana sono esotiche e
tradizionali allo stesso titolo, poiché il mondo della tarda
modernità vive nello sradicamento di tutte le radici e le
appartenenze culturali, comprese le proprie.
In questo quadro, il concetto di traduzione diventa la posta in
gioco per una reale comprensione di che cosa voglia dire “dialogo”
tra culture. L’essenziale dell’idea filosofica di traduzione,
quale è espressa da Walter Benjamin, è che esiste dell’intraducibilità,
ossia che non può darsi un’equivalenza completa, un trapasso
senza residui da un sistema di segni (un linguaggio) a un altro. Il
nucleo di intraducibilità, si potrebbe dire, è ciò che preserva
ogni idioma e cultura, ogni testualità, dall’essere assimilato e
risignificato interamente in un linguaggio estraneo, e quindi dall’essergli
omologato. Il presupposto, che si basa su un fatale fraintendimento
dell’ermeneutica gadameriana, dell’idea di comunicazione
interculturale che anima l’ideologia del nostro tempo è viceversa
quello di una comunicabilità senza residui, che di fatto si
attua nella produzione di uno slang universale in cui tutte le
differenze risultano vanificate.
Questo aspetto è parallelo a quello della vanificazione tendenziale
delle differenze territoriali, delle identità di paesaggio
ritrascritte in una indistinzione di stili e codici resa possibile,
innanzitutto, da quel linguaggio davvero universale e totalmente
performante che è la tecnica, la quale diventa sempre più
massicciamente la forma in cui la razionalità occidentale che
dispone dello spazio e del tempo in base alle proprie esigenze
manipola e ricombina, come in un gioco, le differenze con il loro
ineliminabile spessore storico, simbolico, valoriale, identitario.
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