La geografia come costruzione di
metafore
Giuseppe Dematteis
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La geografia come costruzione
di metafore
Postmoderno, postmodernismo,
postmodernità
Teoria e prassi nella geografia
postmoderna
Quella che segue è la sintesi parziale dell'intervento di
Giuseppe Dematteis, docente al Politecnico di Torino, presentato nel
corso del Workshop su “Postmoderno e Geografia” organizzato
dalla Societa’ Geografica Italiana a Roma lo scorso 26 settembre
Va anzitutto tenuto presente che tra le rappresentazioni spaziali
quelle geografiche hanno una rilevanza particolare perché
riguardano uno spazio-ambiente, quello della Terra, che è comune
non solo a tutti gli esseri umani, ma all’insieme dei viventi e
alle loro aggregazioni territoriali di vario livello. In realtà si
tratta di uno spazio molto complesso, la cui struttura e il cui
funzionamento restano tuttora in larga misura al di fuori delle
nostre conoscenze e quindi della nostra capacità di controllo.
E’ per questo motivo che la geografia ha sempre avuto per oggetto
ciò che non conosciamo, o che conosciamo molto parzialmente, di cui
però dobbiamo darci una rappresentazione, in quanto spazio della
nostra vita. Fin all’età moderna la geografia è stata il
contenitore enciclopedico dell’insieme di queste conoscenze
limitate. Il loro aumento vertiginoso nel corso dei due ultimi
secoli ha fatto sì che esse si organizzassero autonomamente in
differenti branche disciplinari e ciò, invece di decretare la fine
della geografia, ha a mio avviso rivelato la sua vera funzione, che
non è quella enciclopedica.

E’ invece quella di selezionare e connettere tra
loro in un disegno mentale sintetico i fatti pertinenti,
localizzandoli in uno spazio che rappresenta la superficie
terrestre. Per pertinenti intendo quei fatti le cui manifestazioni
materiali - le cui apparenze, se vogliamo - sono capaci di evocare
al tempo stesso i caratteri oggettivi dei fenomeni (quelli indagati
dalle diverse discipline scientifiche) e la soggettività dei loro
significati, economici, sociali, culturali, politici, oltre che
ideologici, etici ed estetici. In tal modo, con il linguaggio
elementare delle cose che stanno sotto i nostri occhi, la geografia
riesce a parlarci di tutto in modo semplificato e indiretto.
Questo è ciò che in precedenti lavori ho chiamato metafora
geografica o ruolo metaforico della geografia, che è qualcosa di
più e di diverso (nel senso di più specifico) dalla componente
metaforica e metonimica presente in ogni linguaggio e discorso.
Tutto ciò fa della geografia uno strumento molto utile e al tempo
stesso molto rischioso (“uno degli studi più pericolosi”
avvertiva giustamente E. Reclus). Utile perché ci permette di
ordinare mentalmente lo spazio-ambiente in cui viviamo, anche se lo
conosciamo malamente. Rischioso perché, se questa rappresentazione,
che ha essenzialmente una funzione connettiva e metaforica, viene
presa alla lettera (se si guarda il dito invece della luna indicata
dal dito), si riduce il mondo ricco e aperto della vita a un insieme
limitato e fisso di cose e di relazioni necessarie tra cose.
Questo fu appunto, a mio avviso, l’errore della geografia
positivistica di fine Ottocento e di quella teorico-quantitativa di
metà Novecento. Entrambe hanno tentato un’ insensata quanto
impossibile omologazione della disciplina ai paradigmi delle scienze
analitiche, col risultato di ridurre le relazioni aperte, di tipo
semantico, che sono la sua ragion d’essere, a improbabili rapporti
di causa-effetto.
Poiché questo fu fatto in nome di un riscatto del sapere geografico
da una condizione pre-scientifica , nel senso di pre-moderna, vien
da pensare che la modernità abbia fatto più male che bene alla
nostra disciplina. Di qui i recenti entusiasmi di molti geografi per
un postmoderno capace di liberare la geografia dalla camicia di
forza paralizzante impostale dalla modernità.
In questo mio intervento intendo avanzare l’ipotesi che non sia
tanto la razionalità moderna ad aver nociuto alla geografia, quanto
l’applicazione che ne hanno fatto i geografi, per chiedermi se non
stiamo facendo lo stesso errore con le odierne seduzioni del
postmoderno.
Anzitutto va tenuto presente che, se il metodo analitico-deduttivo e
il rigore referenziale-definitorio sono propri della scienza
moderna, ciò non significa che questi siano i soli requisiti della
conoscenza moderna, ma solo quelli che hanno saputo rendere
particolarmente efficace e consono al modo di produzione
capitalistico il nostro rapporto strumentale con l’ambiente
esterno. E’ vero che quest’ultimo obiettivo e quindi lo sviluppo
tecnologico hanno caratterizzato la modernità, ma ciò non ha certo
eliminato l’importanza di altre forme di conoscenza. Dopo Cartesio
e Galileo anche l’umanità più moderna ha continuato a imparare
molto sia dal vissuto quotidiano e dalla sua sedimentazione nei
saperi contestuali locali, sia da saperi più universali come il
mito, la poesia, l’esperienza del sacro, il racconto storico e
letterario e vari altri, tra cui la geografia come descrizione
elementare e necessariamente ambigua della varietà e dell’unità
del mondo.
Dunque il travestimento “scientifico” della geografia non era
per nulla necessario, visto che la sua funzione conoscitiva era e
continua ad essere un’altra, non analitica e tuttavia del tutto
compatibile con la modernità. Come aveva già acutamente osservato
un critico del riduzionismo geografico come E. Dardel, il progresso
delle scienze analitiche non sminuisce il ruolo della geografia, ma
al contrario lo potenzia. A mio avviso ciò avviene perché la
conoscenza scientifica, pur nella sua parzialità, permette di
selezionare meglio i fatti pertinenti e aumenta lo “spessore”
della descrizione geografica, nel senso che carica gli elementi di
essa (le cose rappresentate) e le loro relazioni di sempre nuovi
significati. Si pensi ad esempio al ruolo che ha avuto nella
geografia regionale, fin dal XVII secolo, il concetto di bacino
idrografico e poi, più recentemente, quello di ecosistema. Oppure,
se vogliamo stare nel campo delle scienze demografiche ed
economiche, concetti come quello di transizione demografica, di
vantaggi comparati, di economie di agglomerazione e così via.
Ma se l’alternativa geografia/modernità è infondata, altrettanto
assurda mi pare l’idea che il superamento della modernità possa
liberare la geografia da qualche genere di oppressione che non siano
le camice di forza inventate dai geografi stessi. Se, come mi pare
che continui a fare il resto della comunità scientifica, ignoriamo
queste sovrastrutture, non c’è motivo perché la geografia non
debba continuare a svolgere il suo ruolo metaforico-connettivo, a
mio avviso insostituibile, anche in un’auspicabile epoca
postmoderna, nella quale una miglior coscienza della complessità
del mondo potrà tutt’al più liberare i geografi da quell’ossessiva
“invidia della fisica” che ha prodotto l’inutile paradigma
riduzionista.
Mi auguro tuttavia che la giusta reazione a quest’ultimo, avviata
più di trent’anni fa dalla geografia umanistica sulla scia di
illustri antesignani, come appunto Dardel (e in Italia D. Gribaudi
su posizioni esistenzialiste e fenomenologiche, e L. Gambi su
posizioni storiciste), non abbia a cadere nell’opposta ed
altrettanto sterile “invidia della semiotica”. Si tratta
purtroppo di una malattia tipica del postmodernismo, e in
particolare di quella parte di esso secondo cui il mondo si riduce a
segni e quindi non ci sono fatti ma solo interpretazioni.
Questa nuova forma di riduzionismo libererebbe la geografia dalla
necessità di occuparsi della geosfera , della biosfera, dell’organizzazione
politica ed economica dello spazio terrestre e simili, per porre al
centro del suo discorso la semiosfera, unica realtà, che
contiene e rappresenta tutte le presunte altre. Come ha fatto notare
M. Ferraris, se così fosse, un semiologo puro potrebbe facilmente
sostituire un biologo o un economista, mentre è più facile che
capiti il contrario, cioè che uno specialista di qualche altra
disciplina (per esempio un geografo) possa fare della semiologia
applicata.
Stupisce che su posizioni di riduzionismo semiologico si vengano di
fatto a trovare molti cantori del superamento della modernità, dal
momento che dovrebbe essere a tutti nota la definizione di Heidegger
del moderno come riduzione del mondo a immagine. Ma non vorrei qui
cimentarmi con cose che vanno troppo al di là delle mie limitate
competenze. Stando alle manifestazioni del movimento postmoderno in
geografia e in architettura-urbanistica, che meglio conosco, la mia
impressione è che l’indubbia crisi della modernità sia stata
vista unicamente dal versante delle rappresentazioni soggettive e
quindi all’interno di un circuito autoreferenziale, alla cui
origine troviamo di nuovo qualcosa di molto moderno, come la
separazione tra il mondo interno dei soggetti e quello esterno della
natura.
In realtà i grandi problemi di oggi, che derivano dalle
applicazioni della razionalità moderna, sono qualcosa di più della
crisi del paesaggio, della cartografia, dei modelli econometrici,
delle ingegnerie politico-istituzionali e simili. Essi derivano
dagli effetti che le applicazioni tecnologiche delle scienze “dure”
hanno avuto e hanno sulla geo-biosfera, nell’ambito di rapporti
intersoggettivi regolati dalla competizione economica e rivolti all’accumulazione
di capitale finanziario attraverso una crescita continua dei
consumi.
Si dirà che tutto questo dipende appunto dalle rappresentazioni
della scienza, della politica e dell’economia che hanno
caratterizzato il mondo moderno; ed è vero. Ma proprio per questo
motivo, per superare la modernità non è sufficente decostruire
tali rappresentazioni, svelando il falso determinismo su cui regge
il mondo da esse prodotto, ma occorrerà anche dire come si può
costruire un mondo diverso.
Come afferma Hilary Putnam , “la decostruzione senza ricostruzione
è irresponsabilità”. Nel nostro caso è addirittura la negazione
che possa esserci responsabilità. Se infatti perché una
rappresentazione sia “vera” è sufficiente che essa sia in
qualche misura condivisa, cioè se non esiste una realtà esterna di
riferimento, con chi e rispetto a che cosa saremmo responsabili
scegliendo una geografia piuttosto che un’altra, tra quelle che
possono raccogliere consensi?
Allargando il discorso, ci sarebbe molto da dire sull’irresponsabilità
dei geografi e forse anche della geografia, come rappresentazione
del mondo priva, in apparenza, di ogni velleità prescrittiva,
dunque senza rischi per i suoi autori ( a differenza di altre
scienze più normative, come l’economia o l’urbanistica). Qui
però il problema non è se il geografo debba dare o non dare
ricette per cambiare il mondo, ma se possa anche esimersi di cercare
di capire come funziona e quindi di mettere in scena e di connettere
tra loro gli oggetti che possono caricarsi dei significati
pertinenti a questo scopo.
La mia conclusione al riguardo è che una geografia che voglia
andare oltre la modernità deve porsi il problema di come descrivere
le relazioni tra semiosfera e geo-biosfera, in quanto mediatrici
necessarie di rapporti sociali. Questo sembra ormai valere per
tutte le scienze umane, se non vogliono ridursi a semplice
descrizione a posteriori di un mondo che, nella più genuina
tradizione moderna, continua ad essere plasmato dalla combinazione
perversa di totalitarismo economicista e riduzionismo
tecnico-scientifico. Come osserva Michel Serres i grandi
intellettuali oggi sono gli scienziati e i tecnologi che, operando
sugli oggetti, trasformano la società e la cultura, mentre i
filosofi e le scienze umane sono ridotti a descrivere queste
trasformazioni dopo che sono avvenute.
Per governarle e gestirle, egli aggiunge, “la sociologie n’y
suffit plus sans la géographie, ni l’économie sans climatologie”.
In altre parole : proprio perché tutto dipende dalle
rappresentazioni, occorre che esse siano in grado di comprendere e
regolare i processi di trasformazione del pianeta e quindi, per
quanto riguarda la geografia, di mettere in scena i fatti pertinenti
a quei rapporti di territorialità, attraverso cui la nostra
società, trasformando la Terra, trasforma se stessa.
La relazione prosegue con l’esame di tre tipi di
territorialità positiva: quello che deriva dall’ interazione (“orizzontale”)
tra i soggetti che operano su uno stesso territorio; quella che
deriva dall’interazione (“verticale”) di questi con le
potenzialità del territorio stesso, in modo da trasformarle in
risorse; quella che attribuisce valori simbolici a forme (paesaggio)
e oggetti (“patrimonio”) propri di un territorio, trasformandolo
in memoria identitaria e “codice genetico” di un gruppo sociale
localizzato. Questi tre tipi di rapporto col territorio, quando
operano congiuntamente, accrescono l’autonomia del gruppo sociale
(Raffestin) e quindi la sua capacità di riprodursi nel tempo dando
risposte innovative agli stimoli e alle minacce esterne. Questi sono
i processi che nel passato hanno dato origine alla diversificazione
geografica delle culture, ciò che, al pari della biodiversità, è
una ricchezza essenziale per assicurare continuità ai processi
evolutivi. Questo patrimonio culturale diversificato è minacciato
oggi da una globalizzazione al servizio dell’accumulazione di
capitale finanziario, che orienta la ricerca scientifica e la
tecnologia unicamente verso il consumo e la produzione di merci. Il
rapporto coevolutivo delle società locali con i diversi ambienti
naturali e storici, viene così sostituito da rapporti a scala
planetaria, che producono un’unica cultura omologante. Secondo l’autore
una geografia che voglia essere veramente postmoderna dovrebbe
rappresentare questa crisi e, pur stando entro i limiti di una
descrizione metaforico-connettiva che le sono propri, dovrebbe anche
suggerire un diverso modo di orientamento e di impiego della
conoscenza scientifica e della tecnologia, molto più sensibile alla
complessità e alla varietà degli ambienti e dei sistemi
territoriale. Dovrebbe essere una geografia del valore aggiunto
territoriale specifico che ogni territorio, a partire dal livello
locale, ma attingendo al patrimonio universale della conoscenza,
può offrire a un’evoluzione diversificata del pianeta, al tempo
stesso biologica e socio-culturale (il riferimento è alle
concezioni di autori come G. Bateson, N. Eldredge, M. Cini e altri).
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