Teoria e prassi nella geografia
postmoderna
Claudio Minca
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Geografia
La geografia come costruzione
di metafore
Postmoderno, postmodernismo,
postmodernità
Teoria e prassi nella geografia
postmoderna
Quella che segue è la versione ridotta dell'intervento di
Claudio Minca, docente all'Universita’ di Venezia,
presentato nel corso del Workshop su “Postmoderno e Geografia”
organizzato dalla Societa’ Geografica Italiana a Roma lo scorso 26
settembre
Molti sostengono che “Negli ultimi due decenni, in tutto il mondo,
il dibattito postmoderno abbia dominato la scena culturale e
intellettuale di molti campi del sapere”. Prima la critica
letteraria, le arti visive e l’architettura, poi la filosofia e le
scienze sociali, sono state letteralmente travolte da una grande
ondata innovativa, da una serie innumerevole di rivoli teorici e di
atteggiamenti critici che, non senza qualche difficoltà, sono stati
collocati sotto l’ombrello del postmoderno.
Il relativismo, la frammentazione e l’instabilità dei soggetti e
degli oggetti, la sfiducia nelle grandi cornici teoriche e il
rifiuto dei principi che hanno retto il pensiero moderno, sono
alcune delle caratteristiche che accomunano in parte questo
proliferare di posizioni critiche; caratteristiche che rendono
tuttavia oltremodo incerta la delimitazione dei confini di quello
che, perlomeno nei circoli accademici occidentali, è considerato da
molti uno dei fenomeni culturali più rilevanti degli ultimi
decenni.
La geografia umana, soprattutto nel mondo anglosassone, è stata
ampiamente coinvolta in questo fenomeno per certi aspetti
rivoluzionario: innanzi tutto, la ‘riscoperta’ della dimensione
spaziale nell’analisi sociale, favorita dall’avanzare del
pensiero postmoderno, ha implicitamente rivalutato il ruolo del
discorso geografico e parte della sua tradizione; in secondo luogo,
l’arrivo del postmoderno ha rappresentato per la geografia il
definitivo ritorno nel mainstream delle scienze sociali,
grazie soprattutto all’adozione dei principi e dei metodi della
cosiddetta social theory, un’adozione che ha consentito l’apertura
di un prolifico dibattito interdisciplinare.
Queste sono le ragioni che mi hanno spinto a lavorare a lungo su
questi temi. Ma vorrei aggiungere un’altra: il vero comune
denominatore dei diversi atteggiamenti postmoderni consiste nella
denuncia e nella codificazione della cosiddetta crisi della
rappresentazione. E la geografia, che di rappresentazioni del
mondo si è sempre occupata, non poteva non trovarsi al centro di
quello che definirei un radicale ribaltamento di prospettiva sui
principi che guidano la conoscenza all’interno del pensiero
occidentale -e quindi sul nostro modo di descrivere e rappresentare,
appunto, il mondo.
Per Benko e Strohmayer (1997a, p. xiii), curatori di un importante
collezione sul postmoderno “la geografia è uscita da questo
incontro [con il postmoderno e l’associata crisi della
rappresentazione] con un rinnovato senso della sua missione, delle
sue rivendicazioni, anche con un certo orgoglio”. Il ‘peso’ di
questa ritrovata ‘centralità’ della geografia si può misurare
in diversi modi: con lo spazio destinato ai geografi in vari volumi
dedicati al postmoderno, con il frequente riferimento alla
produzione geografica in opere riconducibili ai cosiddetti cultural
studies, con le innumerevoli metafore geografiche utilizzate nei
diversi campi disciplinari. Caren Kaplan, antropologa californiana
della scuola di Clifford, nel suo libro Questions of Travel
(1996) ha dedicato un intero capitolo alle Postmodern Geographies,
già all’inizio degli anni Novanta sosteneva che “ci sono molti
termini in circolazione oggi che stanno a dimostrare una particolare
attenzione alla geografia da parte dei cultural studies”.

Kevin Etherington, sociologo inglese di spicco,
riconosce alla geografia culturale il merito di aver posto lo spazio
al centro dell’analisi della societa’ portata avanti da numerose
discipline. E si potrebbe continuare a lungo con questa lista.
Questo per quanto riguarda l’impatto per così dire ‘esterno’
alla disciplina; ma vi sono naturalmente impatti ‘interne’
altrettanto importanti. Il postmoderno e la cosiddetta geografia
postmoderna (termine assai problematico, a dir il vero) negli
ultimi 15 anni hanno trovato una collocazione e una legittimazione
definitiva nell’assetto disciplinare. Lo dimostra non soltanto la
vastissima produzione di articoli sul postmoderno che a partire dal
1986 - anno in cui è uscito il primo articolo di geografia che
riportava nel titolo il termine postmoderno (Dear 1986) - ha
progressivamente conquistato spazi sulle riviste internazionali più
accreditate (Dear 2000), ma anche il ruolo assegnato al postmoderno
nei principali volumi concepiti per ‘cartografare’ la geografia
umana angloamericana degli ultimi decenni.
Phil Cloke, Chris Philo e David Sadler, già nel 1991, ad esempio,
nel loro Approaching Human Geography - un testo adottato nel
corso introduttivo alla storia della disciplina in molte università
anglosassoni - dedicavano l’intero ultimo capitolo al postmoderno,
che veniva presentato come la frontiera riconosciuta della ricerca
geografica contemporanea; pari peso è stato assegnato al
postmoderno da altri tre volumi particolarmente importanti per la
geografia di lingua inglese, se non altro per la notorietà e l’influenza
dei loro autori: Derek Gregory (1994), in Geographical
Imaginations si richiama al dibattito sul postmdoerno in
geografia sostanzialmente in tutti i capitoli; Richard Peet (1998),
in Modern Geographical Thought dedica un intero capitolo ai
rapporti tra geografia e post-strutturalismo, decostruzione e
postmoderno, legittimando implicitamente così la loro rilevanza nel
quadro storico della disciplina; Ron Johnston (1997), nella nuova
edizione del classico Geography and Geographers, ha inserito
un aggiornatissimo capitolo sul cultural turn, cioè sulla
cosiddetta ‘svolta culturale’ in geografia, nel quale riconosce
al postmoderno e alle sue articolazioni il merito di aver cambiato
la geografia contemporanea.
Nell’ultimo decennio, inoltre, sono usciti (e continuano ad
uscire) numerosi libri di geografia che adottano la prospettiva
postmoderna e non solo il termine; le coordinate culturali del
dibattito sul postmoderno sono quindi ormai date per acquisite e si
sta in realta’ passando da qualche anno, a partire da quelle
coordinate, a fasi diverse di approfondimento come l’interesse per
la geografia postcoloniale o per la new cultural geography stanno a
dimostrare.
Ma vediamo di analizzare brevemente quali sono stati gli apporti
più importanti di questo filone di ricerca. La geografia
postmoderna ha messo innanzi tutto in evidenza la dimensione
soggettiva del geografo, sottolineando come il concetto di autorità
e il punto di osservazione da cui partono le nostre
proiezioni/esplorazioni del mondo sono elementi chiave per
comprendere lo sviluppo di qualsiasi discorso geografico. Ha anche
mostrato come la forza dell’Autore si sia a lungo retta sulla sua
capacità - nella maggior parte dei casi inconsapevole perché
trasferita sul piano epistemologico - di nascondere la propria
posizione e di rendere il proprio operato innocente, cioè
scientifico, salvo poi soggiacere con relativa serenità agli
imperativi paradigmatici.
Recuperando Foucault ha saputo porre la questione dei rapporti tra
sapere geografico e potere, mentre dai filoni d’impronta
derridiana ha importato l’analisi testuale e l’attenzione nei
confronti della scrittura come atto politico-culturale. Abbiamo
anche imparato da queste geografie come l’identità (territoriale,
culturale, nazionale, ecc.) abbia sempre costruito i propri contorni
e i propri contenuti sulla base di rappresentazioni che narravano e
sanzionavano la ‘differenza’; una lettura in grado di sovvertire
radicalmente la visione dicotomica del tipo dentro/fuori che
tristemente anima ancora oggi parte del dibattito politico in Europa
e in altre parti del mondo.
Le varie diramazioni del grande e aggrovigliato albero postmoderno
tuttavia non hanno solo celebrato la differenza e l’ambivalenza,
ma hanno finalmente dato voce a molti attori sociali che troppo a
lungo sono rimasti silenti, sommersi dal potere pervasivo di una
visione lineare e univoca dello spazio geografico. Le tattiche e le
provocazioni decostruzioniste, così come le strategie delle
correnti femministe vicine alla riflessione postmoderna, ci hanno
insegnato a lavorare sui margini per colpire il cuore dei discorsi
egemoni, ci hanno mostrato che la resistenza è possibile ed ha una
sua dimensione spaziale, che può trovare ospitalità nel discorso
geografico.
Abbiamo infine appreso che la visione apparentemente universalista e
lineare del moderno non può vivere senza uno sfondo rispetto al
quale stagliarsi, non ha senso senza una differenza rispetto alla
quale tracciare confini, non può imporsi senza avere un nemico da
domare. Il progetto della ‘prima modernità’ ha infatti bisogno
di spazi nei quali plasmare la società a propria immagine e
somiglianza, ma paradossalmente, come tutte le immagini, senza
sfondo, questi spazi rischiano di dissolversi nell’aria (Berman,
1985). L’esito piu’ evidente e’ che lo spazio geografico
non ci pare piu’ quello di una volta, non siamo piu’ sicuri
se sia una misura del mondo, un contenitore di cose geografiche, o
piu’ semplicemente una prospettiva, una cornice che ‘chiude’
cognitivamente la realta’ raccontata dalle metafore che la nostra
disciplina ha partorito.

La proliferazione di linguaggi, temi, discorsi,
esperimenti che ha caratterizzato il ‘dopo-1986’ lascia
perplesso più di un critico. La perplessità può avere origine da
diverse motivazioni: potrebbe essere legata alla paura di perdere il
controllo e l’autorità sul discorso disciplinare; oppure potrebbe
essere associata a una sensazione di confusione e di mancanza di
progettualità che rischia di lasciare il discorso geografico libero
da referenti solidi (quelli moderni?) e da salutari agganci con la
tradizione; o ancora, potrebbe nascere dalla consapevolezza che l’alternarsi
di mode e di nuove ‘scoperte’ (di autori parigini) in realtà
non sfugga affatto alla dialettica interna al potere accademico,
come l’atteggiamento postmoderno vorrebbe spesso far credere.
Lascio a voi la responsabilità di prendere posizione nei confronti
di queste tre ‘perplessità’ rispetto alle quali non ho il tempo
di fare le mie osservazioni.
Nonostante queste critiche importanti la geografia postmoderna gode
di grande credibilità in ambiente accademico. Ora, se la
credibilità di una corrente di pensiero si valuta generalmente all’interno
della comunità immediata di riferimento (la geografia nazionale in
questo caso), essa si misura anche sulla base di altri tre
parametri: la sua rilevanza sociale, la sua ‘penetrazione’ in
altri ambiti disciplinari e il consenso che riscontra sul piano
internazionale.
Ora la geografia post-strutturalista e/o postmoderna anglo-americana
sembra essersi affermata in tutti e tre i terreni ‘esterni’,
oltre che su quello ‘nazionale’: da Los Angeles a Londra il
numero di studenti in geografia sta rapidamente crescendo, i
geografi vengono consultati dai governi locali e nazionali, vengono
invitati ad esprimere la loro opinione su questioni cruciali di
politica internazionale o che riguardano lo sviluppo urbano; l’influenza
dei loro lavori sulle discipline ‘sorelle’ sta aumentando; la
geografia anglo-americana nei consessi internazionali è sempre più
la geografia, le sue riviste sono lette in tutto il mondo dai
geografi delle altre comunità nazionali e dominano, apparentemente
incontrastate la riflessione teorica internazionale. A ciò si
aggiunga che la geografia umana ‘critica’ (di cui le correnti
post-moderne o affini sono un genuino prodotto) oggi corrisponde,
per una parte significativa del mondo accademico anglosassone, alla
geografia umana tout court, come si può facilmente desumere
dai temi accreditati nelle riviste che ‘contano’ e soprattutto
dal profilo culturale dei loro direttori.
* * *
Fare geografia postmoderna, allora, vuol dire anche non smettere
mai di denunciare - e di combattere se è il caso - il
taken-for-granted, cioè quelle rappresentazioni di noi e degli
altri che considerano naturale e ovvio un sistema di relazioni
spesso palesemente asimmetrico. Accettare la sfida del postmoderno
significa imparare ad insegnare la differenza e a scrivere
sapendo che nel nostro fare geografia contribuiamo inevitabilmente a
costituirla e a definirla. La sensibilità postmoderna ci obbliga a
ricordare sempre le presenze e le assenze che il nostro discorso
produce e implica la definitiva ‘perdita dell’innocenza’,
cioè la consapevolezza del potere implicito in ogni relazione: con
i nostri studenti, con gli oggetti che descriviamo, con le culture,
le società e gli spazi che analizziamo, con gli altri geografi,
ecc.
É importante ricordare che un atteggiamento postmoderno non si
accontenta di studiare in modo nuovo cose geografiche altrettanto
nuove, ma comporta l’esplicitazione della nostra posizionalità e
l’utilizzo consapevole di stratagemmi per inchiodare il reale alle
nostre categorie, al nostro discorso, sapendo però che, un attimo
dopo, quello che abbiamo appena ‘fotografato’ è già diverso,
sapendo che stiamo semplicemente usando un dispositivo (anche
retorico) per ‘chiudere’ momentaneamente quel frammento di
realtà e renderlo cognitivamente gestibile.
Il postmoderno, infine, mostrandoci la natura contingente e
contestuale di tutte le forme di conoscenza, ci ha anche fatto
capire che soltanto partendo dall’analisi della natura parziale e
soggettiva delle nostre prospettive possiamo in realtà tornare
serenamente ad esplorare il mondo, senza la pretesa di conoscerlo
per com’è - perché questa pretesa si tradurrebbe in un atto
implicito di violenza nei confronti di chi parte da diverse
prospettive - ma piuttosto per riprendere ad attraversarlo
consapevoli che il nostro viaggio è un gioco, che si tratta di un
nostro infinito esperimento con le rappresentazioni che diamo di
esso, che queste rappresentazioni sono lo specchio della nostra
storia, del nostro linguaggio, del nostro rapportarci con ciò che
supponiamo stia fuori da esso.
L’esito di questo gioco non è naturalmente mai scontato, ma se le
regole che vi imponiamo hanno una loro coerenza interna e rispondono
ai nostri desideri e bisogni, ecco che possiamo tornare a progettare,
possiamo tornare ad ‘aprire’ il mondo ai nostri discorsi, quello
stesso mondo che una parte del pensiero moderno aveva tentato invano
di chiudere dentro la logica cartografica; possiamo tornare a farlo,
nonostante il postmoderno. Basta che i patti siano chiari e
che la posizione nostra e dei nostri interlocutori - cioè i campi
di riferimento extratestuale e intertestuale - venga esplicitata.
Del resto, è questa la via che il postmoderno ci ha mostrato per
non ricadere nel relativismo assoluto delle sue ali più estreme o,
ancora peggio, nell’efficacissimo ma micidiale determinismo dei
neopositivismi mascherati di realismo. E la geografia ha dimostrato,
e saprà certamente dimostrare, che per questo gioco ha tutte le
carte in regola, perché a lungo le sue metafore hanno sofferto
dentro le gabbie strette del pensiero strutturalista e si sono
ribellate al riduzionismo meccanicistico che il positivismo ha
cercato di imporvi: ce l’hanno insegnato qualche anno fa alcuni
geografi qui presenti, ben prima che questo diventasse patrimonio
comune nell’universo anglo-americano grazie all’avvento del
postmoderno e all’influenza post-strutturalista.
Bibliografia:
Benko, G. e U. Strohmaier, cura. (1997). Space and Social Theory:
Interpreting Modernity and Postmodernity. Oxford: Blackwell.
Cloke, P., C. Philo e D. Sadler (1991). Approaching Human
Geography. New York: The Guilford Press
Dear, M. (2000). The Postmodern Urban Condition. Oxford:
Blackwell.
Gregory, D. (1994). Geographical Imaginations. Oxford:
Blackwell.
Kaplan, Caren. 1996. Questions of Travel: Postmodern Discourses
of Displacement (Durham: Duke University Press).
Johnston, R.J. (1997). Geography and Geographers. Londra:
Arnold.
Peet, R. (1998). Modern Geographical Thought. Oxford:
Blackwell.
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