L’eterna fanciulla dalla voce
imperfetta
Enzo Siciliano
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L’eterna fanciulla dalla voce
imperfetta
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Questo articolo è apparso sul numero 43 di
Reset del dicembre 1997.
Di Elvira De Hidalgo scrisse Bruno Barilli nel Paese del
melodramma. Il ritratto che ne ha fatto è di una donna di
straordinaria sensibilità musicale, una Rosina (per il Barbiere
di Rossini) irripetibile, attrice e cantante sovrana. La De Hidalgo
è stata la maestra di canto di Maria Callas: certamente la
vocalità, un’idea espressiva o una confrontabile intelligenza
degli spartiti musicali, deve averle legate.
Anche Maria Callas ha interpretato Rosina, e ne ha fatto non la
soubrette smorfiosa che i soprani leggeri disegnavano negli anni
Quaranta con beata incoscienza o solo per l’orgoglio di gettare l’elasticità
delle proprie tonsille alla platea - ne ha fatto, di quel
personaggio, la sigla di un’ispida, astuta femminilità che non si
nega niente, anche con cinrsmo, pur di raggiungere il suo scopo,
guadagnarsi un marito nobile, ricco e ben portante.

Leggiamo questi foglietti sparsi, quasi residui di
cassetto, tracce di un carteggio fra maestra e allieva. L’allieva
si rammarica - gli anni sono passati, i ricordi sono ridotti a
brandelli - di non aver tenuto un taccuino delle lezioni ricevute.
In quelle lezioni, si capisce, era passata tanta vita, così
nutriente da non dover restare lettera morta.
D’altra parte si capisce che quel che doveva restare, anche in
questi fogli sparsi, è restato.
La De Hidalgo ormai è vecchia. La giovane allieva ha fatto fortuna,
vive nella gloria fugace e martoriante del jet set: alla propria
maestra offre sostegno materiale con la franchezza di chi ha
conosciuto tempi duri e non fa storie. Più che dipendenza di
allieva verso l’adulta, nelle parole di Maria, c’è trasporto di
sorella, quell’intesa solidale che scavalca persino i rapporti di
sangue e rende le persone vicine e unite in un’avventura comune e
che niente varrà a troncare.
È l’avventura del palcoscenico, del teatro, del canto, vissuta in
modi che non appartengono a questa o a quell’epoca, ma
appartengono da sempre a quell’esistenza randagia, condannata all’esilio
che è dei teatranti, attori e musicisti.
Maria si confessa. Racconta la storia brutale vissuta con Onassis,
un amore, un ripudio; poi la fatica per tornare a cantare; e l’insoddisfazione
perché la pienezza dei mezzi espressivi sta cedendo: sono lampi di
una vita in deriva che i foglietti, pubblicati da Reset,
lasciano trapelare.
Più di una amarezza rende difficile le giornate che Maria ormai
vive in solitudine, sul filo possibile che i tranquillanti tessono o
smagliano. Ma la posta l’avvicina all’anziana Elvira, la persona
che le ha passato in qualche modo il testimone.
Maria ha bisogno di una confidente: marca o conduce il rapporto con
la maestra di un tempo, a istinto, secondo uno schema che è quello
della commedia classica dove una giovane donna e una d’età vivono
a specchio ciò che il tempo rende impossibile, se ormai tutte le
speranze sono diventate mute.
Non voglio dire che Maria faccia qui letteratura. Al contrario, con
il suo italiano impastato di parole raccattate con vivacità da un
banale sentito dire altrui, non ne fa per niente. Così, le
figurazioni tipiche dove la vita sempre si condensa vanno a
coagularsi nel suo inchiostro con naturalezza e spontaneità.
Maria vive sconfitte e sforzi per tornare vittoriosa alle scene,
quelle del melodramma e quelle della mondanità di cui è comunque
protagonista. Elvira le fa da sponda. o. per noi che leggiamo queste
lettere, da servo muto, consolatorio.
Pasolini diceva che Maria Callas era rimasta sempre ragazza, una
ragazza ingenua e ambiziosa - e che in lei c'era un delicato,
singolare resto di infanzia che i successi, il clamore raccolto, la
sua arte, non avevano cancellato. Cosa che queste lettere provano
riga per riga.
I rotocalchi del tempo la chiamavano "tigre". Maria era
una tigre in scena, ma perché presa dal bisogno di difendere la
spirale del proprio perfezionismo, di scalare giorno per giorno gli
ostacoli che la qualità della sua voce e della sua intelligenza
interpretativa le ponevano. Maria Callas non aveva una voce
perfetta, ma i miracoli con quella voce erano possibili. Ad
ascoltarla in teatro trattenevi il respiro, per l'ansia che provavi
seguendola sul sentiero impervio dei significati espressivi dove la
vedevi avviata.
Dietro questa fatica si spalancava l'orizzonte delle incertezze,
della sofferenza - il terrore di non farcela di nuovo.
Eppure, in lei c'era anche il gesto di chi naturalmente vince e
domina, di chi riduce al niente qualsiasi difficoltà. Ma la
bellezza di quella voce, l'intensità di sentimento che comunicava,
consistevano nel mettere a nudo la fatalità di uno smacco sempre
possibile e dei rischi propri di ogni vita.
Per il resto, la "ragazza" era generosa, ardente, cieca
per tutto se non per la sua arte, destinata quindi a imprevedibili o
prevedibilissime sconfitte - le sconfitte di chi, nella custodia
gelosa del dono ricevuto dalla ntura, per affinarlo sempre di più,
non ha altro tempo per sé.
"Cara Elvira", dice una di queste lettere, "sto
abbastanza bene sotto le circostanze ma è come avessi preso una
botta enorme, e non riesco a respirare ancora". In queste
parole è chiuso l'abbozzo non casuale di un'autoritratto.
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