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La dolce morte



Francesco Roat



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Marie de Hennezel, La dolce morte, Sonzogno Editore, pp.331, Euro 14,50

Il recente dibattito sull’eutanasia nel Regno Unito, a seguito di una discussa decisione da parte dei giudici inglesi di consentire ad una malata di porre fine alle sue sofferenze, e l’entrata in vigore in Olanda della legge che permette - sia pure a ben precise condizioni - l’interruzione della vita su richiesta (così recita il macabro gergo legale), possono rappresentare l’occasione propizia per interrogarsi sul significato e l’opportunità della cosiddetta dolce morte. A tale proposito giunge quanto mai opportuna la traduzione in italiano dell’ultimo libro di Marie de Hennezel: psicologa e psicoterapeuta, già autrice del notissimo saggio La morte amica, che ha lavorato per dieci anni con una équipe di cure palliative all’Istituto Montsouris a Parigi.

Ma in cosa consista davvero l’eutanasia ossia la buona o dolce morte, come vuole il significato etimologico di questo termine di derivazione greca, non tutti sono a conoscenza, confondendo il non accanimento terapeutico (ovvero l’interruzione di cure ritenute superflue o inutilmente dolorose) con il cosiddetto intervento eutanasico attivo su un soggetto che abbia chiesto il suicidio assistito. Però una cosa è l’eutanasia, cioè l’eliminazione di una persona - che vuol dire “uccidere”, stigmatizzata senza mezzi termini de Hennezel -, altra è l’insieme delle cosiddette cure palliative: rivolte ad accompagnare i malati gravi nella fase terminale della loro patologia alleviando attraverso precisi protocolli medici i loro dolori sia fisici che psichici.

A questo punto i lettori convinti che l’eutanasia rappresenti il male minore per un paziente non più in grado di sopportare un tumore all’ultimo stadio, o comunque desideroso di por termine ad una vita ritenuta ormai solo un fardello intollerabile, obietteranno che di atto sommamente caritatevole e pietoso si tratta. Tuttavia, forte della sua decennale esperienza ospedaliera presso i moribondi, la psicologa francese è convinta che la maggior parte delle volte in cui un paziente domanda ai sanitari di affrettare il suo exitus, egli non richiede tanto di morire, ma di venir aiutato ad alleviare la sua insostenibile sofferenza e soprattutto l’abbandono in cui giace, giacché in ospedale - il luogo dove oggi si registra la stragrande maggioranza dei decessi, in Occidente - si muore in solitudine.

Tesi confermata dal professor Chonichov, psichiatra americano, il quale, in una ricerca condotta fra persone in fin di vita, ha avuto modo di rilevare come ben l’80% di quanti richiedono l’eutanasia soffra di dolori mal curati e il 60% sia gravemente depresso. Dolori e depressioni però, sostiene altresì de Hennezel, non sono le uniche cause. Ad esse vanno aggiunte: “la perdita dell’autostima, la sensazione di essere un peso per gli altri, la vergogna di presentare un’immagine degradata di sé”, infine l’idea “che la vita non valga la pena di essere vissuta”. Quindi chi invoca dal suo prossimo la morte, non svelerà piuttosto un bisogno di amore e di rapporti, l’urgenza di essere aiutato a vivere altrimenti il tempo che gli resta?

Così optare per l’eutanasia, da parte del malato o del curante, non sarà abdicare alla compassione caritatevole del prendersi cura fino all’ultimo di una persona sofferente soggiacendo all’illusione infantile di onnipotenza per cui, non essendo in grado di eliminare l’offesa intollerabile della morte, si finisce col preferire la scelta di infliggerla a comando? E poiché sofferenza e decadenza sono aspetti, sia pure penosi, dell’esistenza, volerli a tutti i costi allontanare da sé non comporta una sorta di hybris, di tracotanza ed empietà che ci fa illusi, se non di esorcizzare la morte, di poterla controllare?

Affermano peraltro i sostenitori dell’eutanasia: della nostra vita decidiamo noi e vogliamo poter scegliere il libertà il momento di uscire di scena con dignità. Eppure questo rifiuto a vivere la morte (mi si consenta l’ossimoro) senza anticiparla artificialmente, che paradossalmente è un negarla, svela non solo la difficoltà ad accettare il venir meno ma anche quella di consegnarsi nelle mani degli altri: medici o familiari che siano. Forse, tenendo conto di come oggi le terapie antalgiche siano generalmente in grado di controllare in modo tollerabile il dolore, non bisognerebbe temerlo - come suggerisce con grande saggezza Marie de Hennezel riguardo all’opportunità di sperimentare (e non negare) il buono e il cattivo della vita - ma “lasciarsi pervadere dalle emozioni, provarle, viverle fino in fondo, per riuscire a superarle”; in quanto è tutto ciò che “permette di rimanere vivi, di non morire prima della morte”.

Le perplessità nei confronti dell’eutanasia riguardano infine un ulteriore e non marginale aspetto. Pure ammettendo che ad una persona sia lecito suicidarsi, resta aperto il problema delle implicazioni morali inerenti all’atto del provocare deliberatamente la soppressione di un vivente. Non sembri banale la sottolineatura che in tutte le religioni è fatto divieto di uccidere. Tale precetto, sostiene il dottor Bernard Lapointe, responsabile di un’Unità di cure palliative, sottintende da parte dei sanitari l’interdetto psicologico a considerarsi dei semidei attraverso un potere - quello di dare la morte, sia pure per fini nobili - che è comunque terribile da gestire. Lo dimostrano numerose testimonianze di medici profondamente turbati dall’aver praticato eutanasie (benché non manchino quelle di altrettanti entusiasti della legalizzazione della dolce morte).

Per non dimenticare un ennesimo aspetto allarmante, cioè il timore che le pratiche eutanasiche, una volta legalizzate, finiscano per essere richieste sotto la spinta di pressioni psicologiche da parte di familiari che non si ritengano più in grado di farsi carico di malati incurabili, o quello ben più temibile del disinvestimento in termini di risorse rispetto alle cure palliative, ancora così poco diffuse in tutta Europa. A questo riguardo vale forse la pena ribadire, a scanso di equivoci, come eutanasia attiva - che è somministrazione di sostanze letali - non equivalga certo a sospensione e/o riduzione di trattamenti curativi, giacché semmai tale opzione “si limita a permettere alla morte di riprendere i suoi diritti”.

 

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