Franco Rella, Figure del Male, Feltrinelli, pp.198, L.29.044,
Euro 15.00
In ogni discorso intorno al male il rischio è la retorica,
la banalizzazione o peggio ancora il fraintendimento. Il “male”,
infatti, può avere a che fare con l’etica o riferirsi a una
qualche forma di sofferenza; interessare il singolo o la coscienza
collettiva. Venire associato a peccato, infelicità o malattia.
Essere insomma il risultato d’un comportamento riprovevole in
senso morale o l’espressione di uno stato patologico; come pure
rappresentare la cifra d’una negatività radicale intorno a cui i
filosofi hanno così a lungo dibattuto.
Varie sono dunque le Figure del male - per dirla col titolo
dell’ultimo saggio di Franco Rella -, ovvero di questa “strana
creatura del caos”, come ebbe a chiamarlo con felice metafora
Goethe. Creatura proteiforme e paradossale, se si riflette sul fatto
che per secoli i Padri della chiesa hanno considerato, al negativo,
il malum un defectum boni: una mancanza di bene. Male
in quanto assenza, allora, o al contrario presenza che permea e
attraversa ogni ambito, come scrive Leopardi nello Zibaldone,
sostenendo che “tutto è male”? E la morte - dato concretissimo
del nostro fatale venir meno - non è anch’essa espressione
massima della negatività, dell’abisso vuoto in cui gli esseri
viventi sono annichiliti?

Eppure forse è opportuno resistere al paradosso
e abitarlo. Forse, come suggerisce di fare Rella, l’incomprensibile
deve venire accettato proprio perché incomprensibile. Oscuro e
indecifrabile, il male rappresenta dunque l’enigma per antonomasia
del nostro esistere, del nostro patire. Ma nell’esplodere della
malvagità, nello scandalo d’un innocente martirizzato, nel dolore
più estremo; quando insomma l’attrito fra io e mondo si fa
lacerante, ecco prodursi un varco, uno iato che potremmo chiamare
“il tremendo del sacro, in cui la nuda vita, la vita scorticata di
tutto si trova di faccia a ciò che la ferisce”.
Rimane, aperta e irrisolta, la domanda che tutte le filosofie da
sempre si sono poste: cosa è in grado di opporre il pensiero di
fronte al male, alla sofferenza? Specie dopo Auschwitz, il luogo in
cui è tramontata per sempre ogni teodicea: ogni illusione sulla
giustizia divina. Sarà che a partire dall’Olocausto tutti, ebrei
e non, abbiamo dovuto misurarci con l’assenza di dio, se non con
la sua impotenza. Anche la teologia così si trova costretta a
ribadire il carattere misterioso del male che peraltro,
sottolineava Ricoeur, una volta compreso non sarebbe più tale.
Male: figura cangiante dai mille e mille volti, che ha finito per
rappresentare persino la finitudine stessa, l’entropia, la morte
termica, il ni-ente: il venir meno dell’essere. E ancora -
scendendo di tono e misurandoci con un presente all’insegna del
ripiegamento su un privato sempre più apatico -, oggi, nell’ambito
dell’espressione artistica o del pensiero, il male può annidarsi
nel gesto minimalista, nel narcisismo, nel disimpegno, nell’apoliticità,
nell’indifferenza al destino altrui. Così, concordo pienamente
con Rella, l’oblio del male: “l’afasia di fronte alle sue
forme” costituisce una grave “deresponsabilizzazione di fronte a
ciò che è per noi essenziale, decisivo”. Come condivido,
seguendo Lévinas, il fatto che probabilmente l’unico modo per
opporci al male è il riconoscere e il prendersi cura dell’altro
attraverso un’agape, un amore caritatevole che è a
fondamento dell’etica.
Ancora: la consapevolezza da parte dell’uomo di essere (l’ha
detto bene Rilke) tra le cose caduche “il più caduco”, la
coscienza della nostra comune fragilità e vulnerabilità, la
prospettiva stessa dell’ineludibile declino insito in ogni
vecchiaia sono altri aspetti, altre proiezioni di quell’Ombra,
di quella figura archetipica con cui Jung descrisse allegoricamente
il lato oscuro e terrifico dell’esistere. Ma una cosa va subito
detta: non illudiamoci minimente che il male sia sempre e solo fuori
di noi, oltre e altro da noi. Sarebbe il più pericoloso degli
abbagli. Come l’illusione di sconfiggere un giorno il male (la
malattia, la violenza, la morte); peggio: di esorcizzarlo o
rimuoverlo negandolo o proiettandolo sul mondo, sul prossimo o su
qualche consolatoria figura demoniaca (Bin Laden).
Resta il problema della difficoltà a figurarci, al di là delle
immagini tradizionali (diaboliche o infernali che siano), l’irrappresentabile
del male. Così forse, di là dalla ragione discorsiva, è la parola
poetica o narrativa l’unica in grado di dire l’indicibile della
negatività. Poiché, sostiene infine Rella, “la letteratura è un’uscita
dal principio di non contraddizione che domina il pensiero logico”;
anzi essa comporta una sottolineatura e un prendersi carico della
contraddizione stessa, facendo sì che attraverso e tramite questo
cruciale straniamento noi si possa cogliere “l’impensato della
vita quando essa si incontra con la morte”.