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Il pensiero serve a criticare i potenti



Pierre Bourdieu



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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 58 (Gennaio- Febbraio 2000) di "Reset

Non intendo coprirmi di ridicolo nel descrivere lo stato dell'universo mediatico davanti a persone che lo conoscono meglio di me: persone che sono tra le più potenti del mondo, il cui potere non è solo quello del denaro, ma quello che il denaro può esercitare sulle menti. Questo potere simbolico che, nella maggior parte delle società, era distinto dal potere politico o economico, è oggi raccolto nelle mani delle stesse persone, che detengono il controllo dei grandi gruppi di comunicazione, vale a dire l'insieme degli strumenti di produzione e di diffusione dei beni culturali.

Vorrei poter sottoporre queste persone molto potenti ad un interrogatorio sul genere di quello che Socrate faceva subire ai potenti del suo tempo (in quel genere di dialogo, egli chiedeva con molta pazienza ed insistenza, ad un generale celebre per il suo coraggio che cosa fosse il coraggio; in un'altra circostanza, chiedeva ad un uomo noto per la sua compassione che cosa fosse la compassione, e via di seguito; mettendo ogni volta in evidenza quanto poco essi sapessero di se stessi).

Non essendo nelle condizioni di procedere in questo modo, vorrei porre un certo numero di domande che queste persone certamente non si pongono (in particolare perché non ne hanno il tempo) e che si condensano tutte in una sola domanda: padroni del mondo, siete in grado di controllare il vostro impero?

Oppure, più semplicemente, sapete veramente quello che fate, quello che state facendo, conoscete tutte le conseguenze di quello che state facendo? Domande molto imbarazzanti, alle quali Platone rispondeva con la sua celebre formula che può indubbiamente essere applicata anche in questo caso: "nessuno è cattivo di proposito"

Ci viene detto che la convergenza tecnologica ed economica del settore audiovisivo, delle telecomunicazioni e dell'informatica e la conseguente confusione delle reti rendono del tutto inoperanti e inutili le protezioni giuridiche del settore audiovisivo (ad esempio le regole relative alle quote di diffusione di opere europee); ci viene detto che la profusione tecnologica derivante dalla moltiplicazione delle reti tematiche numeriche risponderà alla domanda potenziale dei consumatori di tutti i generi, che per tutte le domande verranno predisposte offerte adeguate; in poche parole, che tutti i gusti verranno soddisfatti. Ci viene detto che la concorrenza, soprattutto quando è associata al progresso tecnologico, è sinonimo di "creazione" (ad ognuna delle mie affermazioni potrei abbinare decine di referenze e di citazioni, tutto sommato assai ridondanti).

Ma ci viene anche detto che la concorrenza di nuovi protagonisti, molto più potenti, provenienti dalla telefonia e dall'informatica è tale che l'audiovisivo fa sempre più fatica a resistere; che le cifre relative ai diritti, in particolare in materia di sport, sono sempre più elevate; che tutto ciò che i nuovi gruppi di comunicazione tecnologicamente ed economicamente integrati producono e fanno circolare, vale a dire messaggi televisivi, libri, film o giochi televisivi - in sintesi tutto ciò che viene raggruppato sotto il nome di "acchiappa tutto" (catch all) dell'"informazione" - deve essere trattato come una merce simile alle altre, a cui devono essere applicate le stesse regole valide per qualsiasi altro prodotto; e che questo prodotto industriale standard deve quindi obbedire alla legge comune, la legge del profitto, ben al di là di qualsiasi eccezione culturale prevista da limitazioni regolamentari (come il prezzo unico del libro o le quote di diffusione). Ci viene infine detto che la legge del profitto, vale a dire la legge del mercato, è eminentemente democratica, in quanto sancisce il trionfo del prodotto che il pubblico accoglie con favori plebiscitari.

Ad ognuna di queste "idee" potremmo contrapporre non già delle idee, per evitare di essere considerati degli ideologi persi nelle nuvole, bensì dei fatti: all'idea di straordinaria differenziazione e di diversificazione dell'offerta potremmo contrapporre la straordinaria uniformazione dei programmi televisivi, il fatto che le numerose reti di comunicazione tendono sempre più a diffondere lo stesso tipo di prodotti, giochi, soap opera, musica commerciale, romanzi d'amore, sul genere telenovela, serie poliziesche che non traggono alcun beneficio (è vero proprio il contrario) ad essere francesi, come "Navarro", o tedesche, come "Derrick", altrettanti prodotti nati dalla ricerca del massimo profitto a fronte di minimi costi; oppure, in un campo del tutto diverso, la crescente omogeneizzazione dei giornali e soprattutto dei settimanali.

Altro esempio: alle "idee" di concorrenza e di diversificazione, potremmo contrapporre la realtà della straordinaria concentrazione dei gruppi di comunicazione, concentrazione che - come indica la più recente fusione, quella di Viacom e di CBS, vale a dire di un gruppo orientato verso la produzione dei contenuti e di un gruppo orientato verso la diffusione - dà vita ad un'integrazione verticale grazie alla quale la diffusione prevale decisamente sulla produzione.
Ma l'elemento più importante è che le preoccupazioni commerciali e, in particolare, la ricerca del massimo profitto nel breve termine, tendono a diffondersi sempre più anche all'insieme delle produzioni culturali. Ad esempio, nel campo dell'edizione di libri, che ho studiato da vicino, le strategie degli editori, e specialmente dei responsabili dei grandi gruppi, sono orientate senza ombra di dubbio verso il successo commerciale.

Ed è qui che dovremmo iniziare a porre alcune domande. Ho appena parlato di produzioni culturali. E' ancora possibile, oggi, e sarà possibile per molto tempo ancora parlare di produzioni culturali e di cultura? Quelli che fanno il nuovo mondo della comunicazione, e che sono fatti da esso, amano parlare del problema della velocità, dei flussi d'informazione e delle transazioni che diventano sempre più rapide, e hanno indubbiamente parzialmente ragione se pensano alla circolazione dell'informazione e alla rotazione dei prodotti. Detto questo, la logica della velocità e quella del profitto che si uniscono nel perseguire il massimo profitto nel breve periodo (con l'Auditel per la televisione, il successo di vendita per il libro oltre che, ovviamente, per il giornale, il numero di spettatori per il film) mi sembrano incompatibili con l'idea di cultura. Quando, come diceva Ernst Gombrich, le "condizioni ecologiche dell'arte" sono distrutte, l'arte e la cultura non tarderanno a morire.

A riprova di quanto affermo potrei accontentarmi di menzionare ciò che è diventato il cinema italiano, che fu uno dei migliori del mondo e che sopravvive solo grazie ad una manciata di cineasti, o il cinema tedesco, o il cinema dell'Europa dell'est. Oppure potrei parlare della crisi che registra dovunque il cinema d'autore, causata in particolare dalla carenza dei circuiti di diffusione. Per non parlare poi della censura che i distributori possono imporre a certi film, tra cui il più famoso è l'episodio che riguarda Pierre Carles (Autore di un film "Pas vu, pas pris", che contesta la realtà mediatica odierna e che sembra sia stato "censurato", tanto che non ha ancora trovato un canale di distribuzione, n.d.t.). O ancora il destino dell'emittente radiofonica culturale, oggi messa in liquidazione in nome della modernità, dell'Auditel e delle connivenze mediatiche.

Ma possiamo veramente capire che cosa significa la riduzione della cultura allo stato di prodotto commerciale solo se cerchiamo di ricordare in che modo si sono costituiti gli universi di produzione delle opere che oggi consideriamo universali nel campo delle arti plastiche, della letteratura o del cinema. Tutte le opere esposte nei musei, tutte le opere letterarie diventate dei classici, tutti i film conservati nelle cineteche, sono il prodotto di universi sociali che si sono costituiti poco a poco affrancandosi dalle leggi del mondo ordinario, e in particolare, dalla logica del profitto.

Per farmi capire meglio farò un esempio: leggendo i contratti dell'epoca, sappiamo che il pittore del Quattrocento ha dovuto lottare contro i suoi finanziatori affinché la sua opera cessasse di essere trattata come un semplice prodotto, valutata sulla base della superficie dipinta e sul costo dei colori utilizzati; egli ha dovuto lottare per ottenere il diritto alla firma, vale a dire ad essere trattato come un autore, e anche per quello che chiamiamo, da una data assai recente, i diritti d'autore (Beethoven lottava ancora per questo diritto); egli ha dovuto lottare per la rarità, l'unicità, la qualità; quel pittore ha dovuto lottare, aiutato dai critici, dai biografi, dagli insegnanti di storia dell'arte, etc., per imporsi come artista, come "creatore".

Ebbene è tutto questo che oggi viene minacciato, attraverso la riduzione dell'opera ad un prodotto e ad una merce. Le attuali lotte dei cineasti per il final cut e contro la pretesa del produttore di detenere il diritto finale sull'opera, sono l'esatto equivalente delle lotte del pittore del Quattrocento. Sono stati necessari quasi cinque secoli ai pittori per conquistare il diritto di scegliere i colori usati, il modo di usarli e, alla fine, il diritto di scegliere il soggetto, in particolare facendolo scomparire, con l'arte astratta, con grande scandalo dello sponsor borghese; parallelamente, per avere un cinema d'autore è necessario un contesto sociale, piccole sale e cineteche che proiettino film classici e che siano frequentate da studenti, sono necessari dei cineclub animati da professori di filosofia cinefili, che si sono formati grazie alla frequentazione di quel tipo di sale, sono necessari dei critici attenti che scrivano sui Cahiers du cinéma, dei cineasti che abbiano imparato il loro mestiere vedendo i film che recensiscono poi sui Cahiers, in sintesi, è necessario tutto un ambiente sociale nel quale un certo cinema assuma valore, venga riconosciuto.

Sono questi gli universi sociali oggi minacciati dall'irrompere del cinema commerciale e dal predominio delle grandi diffusioni con le quali i produttori debbono fare i conti, a meno che non siano essi stessi diffusori: al termine di una lunga evoluzione, essi sono oggi entrati in un processo di "involuzione"; sono il luogo di una retrocessione, dall'opera al prodotto, dall'autore all'ingegnere o al tecnico che utilizza risorse tecniche (i famosi effetti speciali) e divi, gli uni e gli altri molto costosi, per manipolare o soddisfare le pulsioni primarie dello spettatore (spesso anticipate grazie alle ricerche di altri tecnici, gli specialisti in marketing).

Reintrodurre il regno del "commerciale" in universi che sono stati costruiti poco a poco contro di esso significa mettere in pericolo le opere di maggior valore dell'umanità, l'arte, la letteratura e anche la scienza. Non penso che qualcuno possa veramente desiderare che ciò avvenga. Ed è per questo che, all'inizio, parlavo della celebre forma platonica: "Nessuno è cattivo di proposito". Se è vero che le forze della tecnologia alleate alle forze dell'economia, alla legge del profitto e della concorrenza minacciano la cultura, che cosa possiamo fare per contrastare questo movimento? Che cosa possiamo fare per rafforzare le possibilità di coloro che possono esistere solo nel lungo periodo, quelli che, come i pittori impressionisti del passato, lavorano per un mercato postumo?

Vorrei trasmettere la mia profonda convinzione (e capisco che mi ci vorrebbe molto tempo) che la ricerca del massimo profitto immediato, quando si parla di libri, di film o di pittura, non significa necessariamente obbedienza alla logica dell'interesse in senso stretto: identificare la ricerca del massimo profitto con la ricerca di un pubblico più vasto possibile significa esporsi alla perdita del pubblico di oggi senza conquistarne un altro, significa perdere il pubblico relativamente ristretto delle persone che leggono molto, frequentano molto i musei, i teatri e i cinema, senza acquisire in cambio nuovi lettori o spettatori occasionali.

Sappiamo che, almeno in tutti i paesi sviluppati, la durata della scolarizzazione è in costante aumento, così come aumenta il livello medio di istruzione, e crescono parallelamente tutte le pratiche fortemente correlate con il livello di istruzione (frequentazione dei musei o dei teatri, lettura, etc.); possiamo conseguentemente ritenere che una politica economica d'investimento nei confronti di produttori e prodotti cosiddetti "di qualità" potrà essere redditizia, anche dal punto di vista economico, per lo meno a medio termine (purché si possa tuttavia contare sulla presenza di un sistema educativo efficace).

La scelta non è quindi tra la "mondializzazione", vale a dire la sottomissione alle leggi del commercio, quindi al regno del "commerciale" che è sempre il contrario di quello che si intende quasi universalmente per cultura, e la difesa delle culture nazionali o dell'una o l'altra forma di nazionalismo o di localismo culturale.

I prodotti kitsch della "mondializzazione" commerciale, quella del jeans o della Coca cola, o della soap opera, o quella del film commerciale di grande impatto che utilizza effetti speciali, o ancora quella della "world fiction", i cui autori possono essere italiani o inglesi, si contrappongono da tutti i punti di vista ai prodotti dell'internazionale letteraria, artistica e cinematografica, il cui centro è dovunque e da nessuna parte, anche se è stato a lungo e forse è ancora a Parigi, luogo di una tradizione nazionale di internazionalismo artistico, insieme a Londra e a New York.

Così come Joyce, Faulkner, Kafka, Becket o Gombrowicz, prodotti dell'Irlanda, degli Stati Uniti, della Cecoslovacchia o della Polonia sono "nati" a Parigi, numerosi cineasti contemporanei come Kaurismaki, Manuel de Oliveira, Satyajit Ray, Kieslowski, Woody Allen, Kiarostami e tanti altri non esisterebbero come esistono senza questa internazionale letteraria, artistica e cinematografica la cui sede sociale si trova a Parigi. Senza dubbio perché è qui, per motivi strettamente storici, che il microcosmo di produttori, di critici e di ricettori colti necessario alla sua sopravvivenza si è costituito da tempo ed è riuscito a sopravvivere.

Lo ripeto, sono necessari diversi secoli per produrre dei produttori che producano per i mercati postumi. Quando, come spesso avviene, si contrappone una "mondializzazione" e un mondialismo che sarebbero a favore del potere economico e commerciale e anche del progresso e della modernità, ad un nazionalismo legato a forme arcaiche di conservazione della sovranità, si pone il problema in modo errato. Si tratta in realtà di una lotta tra un potere commerciale che tende ad estendere all'universo gli interessi particolari del commercio e di quelli che lo dominano e una resistenza culturale, fondata sulla difesa delle opere universali prodotte dall'internazionale denazionalizzata dei creatori.

E desidero concludere con un aneddoto storico che ha anche a che fare con la velocità, e che esemplificherà adeguatamente quelli che dovrebbero essere, a mio parere, i rapporti che un'arte affrancata dalle pressioni del commercio potrebbe mantenere con i poteri temporali. Si racconta che Michelangelo adottasse così poche forme protocollari nei sui rapporti con Papa Giulio II, suo finanziatore, che quest'ultimo era costretto a sedersi molto in fretta per evitare che Michelangelo si sedesse prima di lui. Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che ho cercato di perpetuare qui, molto modestamente, ma molto fedelmente, la tradizione inaugurata da Michelangelo, di distanza nei confronti dei poteri, e specialmente di questi nuovi poteri che sono la forza congiunta del denaro e dei mezzi di comunicazione di massa.


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