La tv, ovvero il grande
oppressore simbolico
Pierre Bourdieu con Giancarlo Bosetti nel 1998
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In Francia il piccolo volumetto rosso libro di Pierre Bourdieu
"Sur la télévision", da poco uscito anche in Italia (per
Feltrinelli) ha già venduto centomila copie. Il sociologo del
Collège de France noto per la vastità e l'importanza delle sue
analisi sul sistema scolastico, sulla formazione del gusto, sul
ruolo delle élites (qualche titolo: "La distinzione",
"La misère du monde", "Ragioni pratiche") e per
la sua attenzione alla filosofia ("Méditations pascaliennes")
è da sempre schierato nella vita politica su posizioni di critica
sociale radicale, è - come si dice - un maître-à-penser
della gauche.
Si è attivamente impegnato nell'inverno del 1995 contro il piano
Juppé, è sempre in primo piano nella battaglia con gli immigrati e
per la revoca della legge Pasqua, non ha mai risparmiato critiche
neppure ai socialisti francesi. La sua ricerca è sempre davvero
anticonformista, nel senso più scomodo e disturbante della parola,
così come la rivista internazionale che dirige, "Liber".
L'ultimo disturbo ha voluto portarlo al mondo della televisione e
dei poteri che la guidano.

In questo libro "Sulla televisione"
lei sostiene che è necessario risvegliare la coscienza dei
professionisti circa la struttura invisibile dei media. Crede che i
professionisti, ma anche il pubblico, siano ancora così ciechi di
fronte a questi meccanismi?
Non credo che i professionisti siano ciechi. Credo che vivano in
uno stato di doppia coscienza: una visione pratica che li porta con
un certo cinismo a cercare di cavare il massimo vantaggio dalle
possibilità dello strumento mediatico di cui dispongono (parlo di
quelli potenti); e una visione teorica, moralizzante e piena di
indulgenza verso se stessi, che li porta a negare pubblicamente
quello che fanno, a mascherarlo, anche a se stessi.
Certo che in questo modo lei li irrita.
Me ne rendo conto dalle reazioni provocate dal mio libretto, che
essi hanno unanimemente e violentemente condannato. Basta vedere la
rassegna di queste reazioni che ha fatto una rivista americana,
"Lingua franca". Ma poi a conferma delle mie
critiche, guardi i commenti pontificali e ipocriti che si sono
prodotti a proposito del ruolo dei giornalisti nella morte di Lady
Diana. Questa doppia coscienza, molto comune presso i potenti (si
diceva già degli àuguri romani che non potevano guardarsi senza
ridere), fa sì che essi possano, da una parte denunciare come
dichiarazioni scandalose, come opera di un pamphlet velenoso,
l'oggettivazione scientifica della loro pratica e dall'altra
ammettere esplicitamente cose equivalenti, sia nelle conversazioni
private tra loro oppure a uso del sociologo che conduce l'inchiesta
sia nelle stesse dichiarazioni pubbliche.
Ma ammetterà che non la pensano tutti allo stesso modo.
La doppia coscienza è tipica dei professionisti che hanno una
posizione dominante, della Nomenklatura dei giornalisti importanti
legati da interessi comuni e da complicità di ogni genere. Presso i
giornalisti "di base" la lucidità è evidentemente
maggiore e si esprime spesso in maniera diretta. Tra questi il mio
libretto è stato accolto calorosamente, alcuni ne hanno fatto quasi
un segnale di riconoscimento. Quanto al pubblico che in Francia lo
ha accolto plebiscitariamente, le reazioni sono certo molto diverse
e vanno dall'adesione ingenua e superficiale alle manipolazioni
mediatiche (del tipo di quelle che hanno circondato il caso Lady
Diana) fino alla rivolta più totale contro questo nuovo oppio dei
popoli. Soltanto una indagine molto raffinata potrebbe consentire di
spiegare le diverse maniere di valutare lo stato delle cose nel
mondo mediatico.
Lei analizza la formazione del "campo giornalistico"
dal punto di vista del "campo sociologico". Sono due campi
incompatibili? La sociologia racconta solo la "verità" e
i media solo "menzogne"?
Questa sarebbe una dicotomia tipica di uno stile giornalistico è
volentieri manicheo. Va da sè che che ci sono dei giornalisti che
producono della verità e dei sociologi che producono menzogne. In
ogni "campo" c'è di tutto! Ma senza dubbio in proporzioni
diverse e con diverse probabilità. Detto questo, il lavoro del
sociologo consiste nel far saltare per aria proprio questi schemi. I
sociologi possono fornire ai giornalisti consapevoli e critici (ce
ne sono molti ma non necessariamente ai posti di comando delle
televisioni, delle radio e dei giornali) degli strumenti di
conoscenza e comprensione, eventualmente anche di azione, che
permettano loro di lavorare con qualche efficacia nel tentativo di
venire a capo delle forze economiche e sociali che pesano su di
loro. Attualmente sono molto impegnato, attraverso la rivista Liber,
nel creare delle connessioni internazionali tra giornalisti e
ricercatori e a sviluppare delle forze di resistenza contro forze
di oppressione che pesano sul giornalismo e che il giornalismo
fa pesare su tutta la produzione culturale e, per quella via, su
tutta la società.
Lei parla della televisione come mezzo di "oppressione
simbolica". Ma non crede possibile un uso della televisione e
dei media che non sia oppressivo?
C'è un divario immenso tra l'immagine che i responsabili dei
media hanno e dànno di essi e la verità della loro azione e della
loro influenza. E' evidente che i media nel loro insieme sono un
fattore di depoliticizzazione, di istupidimento che agisce
ovviamente prima di tutto sui settori meno politicizzati del
pubblico, sulle donne più che sugli uomini, sui meno istruiti più
che sui più istruiti, sui poveri più che sui ricchi. E' una cosa
che si sa perfettamente attraverso l'analisi statistica delle
probabilità di formulare una risposta articolata a una domanda
politica o di astenersi. La televisione propone una visione sempre
più spoliticizzata, asettica e incolore del mondo, la televisione
molto più dei giornali, che essa però trascina, come è accaduto
anche a "Le Monde" nel suo scivolamento
verso la demagogia e la sottomissione ai vincoli commerciali.
Ci faccia qualche esempio.
L'affaire Lady Diana è una dimostrazione perfetta di quanto
sostengo nel mio libro, anche se qui c'è stato un passaggio agli
estremi. Qui abbiamo contemporaneamente il fatto di cronaca che
diventa un diversivo (in francese è anche un gioco di parole, faits
divers - fatti di cronaca - che fanno diversion,
Ndr), l'effetto Telethon, vale a dire la difesa senza rischi di
cause umanitarie vaghe, ecumeniche e soprattutto perfettamente
apolitiche. Anche Madre Teresa di Calcutta, che io sappia, non era
certo una progressista in materia di aborto o un campione nella
lotta per la liberazione della donna e rappresentava qualche cosa di
decisamente conveniente per questo mondo governato da banchieri
privi di stati d'animo, da gente che non vede di sicuro alcun
ostacolo a che pii difensori di cause umanitarie vadano a medicare
le piaghe, ai loro occhi inevitabili, che hanno contribuito a
provocare.

Ho la sensazione che con la morte di Diana, caduta
proprio dopo la festa papale della gioventù a Parigi e poco prima
della morte di Madre Teresa, sia salatato l'ultimo chiavistello. Un
titolo critico sullo stato dell'inchiesta circa l'incidente è
apparso sulla prima pagina del "Monde", solo quindici
giorni dopo il fatto, intanto al telegiornale i massacri
in Algeria o la situazione gravissima in Israele sono stati ridotti
a qualche minuto in coda, mentre forse le sorti del mondo si
decidono proprio lì.
Non c'è dubbio, professor Bourdieu, che lei, se usiamo la ormai
vecchissima distinzione di Eco tra "apocalittici" e
"integrati", è da mettere tra i primi.
Si può dire, sì. In effetti ci sono in giro molti
"integrati". E la forza del nuovo ordine dominante è che
ha saputo trovare i mezzi specifici per "integrare" (in
certi casi si potrebbe dire comperare, in altri sedurre, in altri
ancora, più rari, convincere) una porzione crescente di
intellettuali, e questo in tutto il mondo. Questi
"integrati" continuano spesso a viversi e a
raccontarsi come critici, come marginali o come dissidenti (o
semplicemente come di sinistra), secondo il vecchio schema. E ciò
contribuisce a dare una grande efficacità simbolica alla loro
azione a favore di una mobilitazione per l'ordine stabilito, per
quella cosa che si chiama "globalizzazione" e così via.
Perchè insiste tanto sul caso di Lady Di? In che senso conferma
all'estremo le sue tesi?
E' una dimostrazione perfetta, insperata nel peggio, di
quello che annunciavo nel libro. Le famiglie principesche e reali di
Monaco e di Inghilterra, come le altre, saranno conservate come una
sorta di serbatoio inesauribile di soggetti da soap opera e da
telenovela. In ogni caso è chiaro che il grande happening al quale
la morte di Lady Diana ha dato luogo si iscrive bene nella serie di
spettacoli che incantano la piccola borghesia di'Inghilterra come di
altre parti del mondo: queste sono grandi commedie musicali come Evita
o Jesus Christ Superstar, nate dal matrimonio del melodramma
e degli effetti speciali di alta tecnologia, feuilleton televisivi
lacrimevoli, film sentimentali, romanzi rosa da grande tiratura,
musica pop della più facile, divertimenti di tipo famigliare, in
breve tutti quei prodotti dell'industria culturale che televisioni e
radio conformiste e ciniche riversano per giornate intere, prodotti
che riuniscono il moralismo piagnone delle Chiese e il
conservatorismo estetico del divertimento borghese.
La stampa non è più il quarto potere, nell'epoca della
televisione?
La stampa, il giornalismo scritto, ha una posizione strategica. Essa
può oscillare dal lato delle forze del mercato, lasciandosi imporre
i temi, i soggetti, lo stile dalla televisione (come è sempre più
il caso, almeno in Francia). Essa può anche, invece di servire da
tramite per la televisione, lavorare per diffondere delle armi di
difesa. Io ho l'abitudine di dire che una delle funzioni della
sociologia è quella di insegnare una specie di judo simbolico
contro le forme moderne di oppressione simbolica. Il giornalismo
scritto dovrebbe essere in prima linea in questa battaglia contro
l'istupidimento. E se mi rivolgo ai giornalisti non è, come si
vede, per denunciarli, condannarli, colpevolizzarli, ma al contrario
per chiamarli a una battaglia comune, ritornando così alla
definizione ideale del loro mestiere come condizione indispensabile
per l'esercizio della democrazia. Non basta infatti produrre
giornali underground che rischiano sempre di rimanere per pochi
intimi. Bisogna che le ricerche dell'avanguardia siano rilanciate da
giornalisti inseriti nei grandi organi di stampa (e anche nella
televisione) e capaci di trasmettere e difendere, spesso al prezzo
di lotte e di astuzie, i messaggi più audaci, i più
anticonformisti, in tutti i campi. Stiamo per pubblicare, nella
serie "Liber-Raisons d'agir" un libro di Serge Halimi,
giornalista di Le Monde Diplomatique, intitolato I nuovi
cani da guardia, che spinge ancora più in là l'analisi
delle compromissioni giornalistiche con il potere.
Lei che ruolo immagina per gli intellettuali nel mondo
mediatizzato?
Non sono sicuro che possano giocare il gran ruolo positivo, quello
del profeta ispirato, che qualche volta tendono ad attribuirsi, nei
momenti di euforia. Già non sarebbe male che si astenessero dal
fare i complici e i collaboratori delle forze che minacciano di
distruggere le basi stesse della loro esistenza e della loro
libertà, vale a dire delle forze del mercato. Ci sono voluti più
secoli perchè giuristi, artisti, scrittori, uomini di sapere
acquistassero la loro autonomia in rapporto ai poteri politici,
religiosi, economici e potessero imporre le proprie norme, i propri
valori specifici di verità, nel loro proprio universo, nel loro
microcosmo e talvolta con successi variabili nel mondo sociale (con
Zola all'epoca dell'affare Dreyfus, con Sartre e i 121 all'epoca
della guerra d'Algeria etc.).
Queste conquiste della libertà sono minacciate dappertutto e non
soltanto dai colonnelli, dalle dittature e dalle mafie; sono
minacciate da forze più insidiose, più viziose, quelle del
mercato, ma trasfigurate, reincarnate in forme capaci di sedurre gli
uni e gli altri: qualche volta si tratterà della figura
dell'economista armato di formalismi matematici, che descrive
l'evoluzione dell'economia "mondializzata" come un
destino; qualche altra volta si tratterà della figura della star
internazionale del rock, del pop o del rap, portatrice di uno stile
di vita chic e insieme facile (per la prima volta nella storia le
seduzioni dello snobismo si sono attaccate a pratiche e prodotti
tipici del consumo di massa come i jeans, le t-shirt e la
coca-cola); per altri ancora si tratterà di un "radicalismo da
campus" battezzato come "postmoderno" e capace di
sedurre attraverso la celebrazione falsamente rivoluzionaria del
meticciato delle culture etc. etc.
Nessuna speranza?
Non è detto. Io dico c'è molto da fare per l'intellettuale come lo
concepisco. Vede, a qualcuno che gli diceva: "Morte agli
imbecilli", il generale De Gaulle, che per una volta citerò
anch'io, rispondeva: "Programma ambizioso!". Se c'è un
ambito nel quale la famosa "mondializzazione" che riempie
la bocca di tutti gli intellettuali "integrati" è una
realtà questo è proprio quello della produzione culturale di
massa, la televisione (penso in particolare alle telenovelas di cui
l'America latina ha fatto una sua specialità e che diffonde una
visione del mondo "ladi-dianesca"), il cinema e la stampa
per il grande pubblico. Questa "mondializzazione del
peggio" sono in grado di combatterla soltanto gli artisti, gli
scrittori e gli uomini di sapere (specialmente i sociologi), solo
loro possono e devono combatterne gli effetti più funesti per la
cultura e la democrazia. E, come vede, è un programma molto
ambizioso....
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