Il grimaldello della ragione
Marco D'Eramo
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Il grimaldello della ragione
L'ultimo maestro
Questo articolo è apparso il 25 gennaio su "il
manifesto"
Ieri è morto un maestro che odiava la nozione di maestro. Uno di
quei rari umani che ai propri lettori e discepoli regalano occhiali
magici con cui guardare il mondo, la società, gli individui, le
motivazioni: sono lenti mentali che consentono all'improvviso di
scorgere impensati paesaggi, inopinate configurazioni umane, ci
offrono alla comprensione quel che prima appariva terra incognita.
Ieri ci ha lasciato Pierre Bourdieu, a soli 71 anni. E la magia che
regalava a chi lo leggeva, gli parlava, studiava con lui, era la
magia più antica, più sovversiva, più trasgressiva del mondo:
quella della buona, vecchia ragione.

Non è esagerato affermare che se Immanuel Kant
sottopose la ragione umana al tribunale della ragione, Pierre
Bourdieu ha cercato per tutta la sua operosissima vita di sottoporre
le ragioni della società al tribunale della ragione sociale: uno
dei suoi volumi più ponderosi, La distinzione(1979), porta
un sottotitolo inequivocabilmente kantiano, Critica sociale del
giudizio. Il suo colossale progetto di analisi della società
umana, del suo strutturarsi in campi, e delle loro reciproche
interazioni, ha un'ambizione globale e un procedimento sistematico.
Un progetto che si è articolato - oltre che in più di trenta
volumi - in quella straordinaria opera collettiva che è stata ed è
la rivista che lui ha fondato nel 1976 e da allora ha diretto, Actes
de la recherche en sciences sociales.
In un'epoca che esalta la ragione frammentaria e il pensiero debole,
Pierre Bourdieu è andato contro corrente: il suo è davvero un
pensiero forte. In questo senso, hanno ragione le biblioteche
universitarie statunitensi che collocano le sue opere negli scaffali
della filosofia piuttosto che della sociologia, disciplina sotto cui
è di solito etichettato. Un'etichetta che per decenni gli ha
ostruito l'ingresso nella cultura italiana, così ostile alla
sociologia: da destra - a causa dello storicismo idealista
gentiliano e crociano che vedevano nella sociologia solo una volgare
spremuta di positivismo determinista; e da sinistra - per cui la
sociologia era solo la risposta capitalista a Marx.
Contro questi luoghi comuni, il sociologo Pierre Bourdieu ha sempre
rivendicato la sua ascendenza marxiana: "Marco, ma cosa ho
fatto per tutta la vita se non articolare l'idea marxiana per cui la
società è strutturata in classi?" mi è sbottato un giorno,
in una stanzetta della Maison des Sciences de l'Homme, a Boulevard
Raspail a Parigi. Fin troppo modesto. In realtà il compito che
Bourdieu si è prefisso è stato quello di dirimere il nodo teorico
che la tradizione marxista ha sempre lasciato irrisolto e che nel
marxismo volgare è noto come "rapporto tra struttura e
superstruttura" ("e solo il fatto di chiamarlo così rende
il problema insolubile", notava Bourdieu).
Già il suo primo studio, del 1961 (Sociologie de l'Algérie)
riguarda la materialità economica dello scambio simbolico in
Kabilia. Vi si vede subito l'allievo di Karl Marx, Max Weber, e
soprattutto Emile Durkheimer, che dimostra come - con buona pace del
buonismo polanyano e del terzo settore - il dono è sempre
falsamente disinteressato, perché attende sempre di essere
ricambiato.
Siamo negli anni '60, con Jean-Paul Sartre a sostenere che
"l'intellettuale è un tecnico del sapere pratico" e Louis
Althusser a descrivere la riproduzione ideologica come opera di
apparati. La rivoluzione copernicana di Bourdieu sta nel sostituire
alla domanda sartriana "cosa è un intellettuale?", la
domanda "come si diventa intellettuali?", e quindi
"che interesse ha una persona a diventare intellettuale?".
La risposta, Bourdieu la cerca allora nelle inchieste sugli iscritti
alle Grandi Scuole francesi, sulle loro origini, le loro pratiche
culturali.
Da qui nasce Les héritiers: les étudiants et la culture
(1964) scritto con il primo dei suoi discepoli, Jean-Claude Passeron,
in cui si dimostra come nella società borghese il titolo di studio
costituisce l'equivalente di quel che nel feudalesimo era il titolo
nobiliare. Simili i meccanismi d'inflazione: all'inizio il titolo
più elevato era barone; poi - per compensare l'inflazione di baroni
- si dovettero creare i conti, poi, i duchi, poi gli arciduchi, poi
i principi. Così, a sancire l'appartenenza alla classe dominante,
un tempo bastava la maturità classica (indispensabile allora per
essere ammessi al corso allievi ufficiali), poi servì la laurea;
ora, con l'inflazione di lauree, serve un titolo post-universitario.
E se i cadetti della nobiltà venivano mandati nel clero o nelle
colonie, quelli delle famiglie borghesi diventano giornalisti,
fotografi, pubblicitari.
Come si vede, quella di Bourdieu è nello stesso tempo una
sociologia dei beni simbolici e una disanima dei meccanismi di
riproduzione della classe dominante. Ed è facile capire quanto sia
stato importante questo libro quando è scoppiato il maggio '68 e
gli studenti parigini se lo sono trovati là, bello e pronto, a
descrivere i meccanismi di selezione e riproduzione contro cui
lottavano. Les héritiers è stato alla Sorbona quello che a
Berkeley fu L'uomo a una dimensione di Herbert Marcuse.
Les héritiers è la prima di una lunga serie di ricerche in
cui Bourdieu disvela le costellazioni di gusti, pratiche culturali,
strategie professionali che formano le traiettorie sociali di ogni
persona e a loro volta ne vengono determinate. Anche dai suoi
discepoli, gli è stata spesso rivolta l'accusa di determinismo (una
delle migliori caratteristiche di Bourdieu come maestro è che tutti
i suoi migliori allievi, e coautori dei suoi libri, alla fine lo
hanno criticato, ne hanno preso le distanze, e hanno seguito la
propria via sociologica: così Passeron, così Jean-Claude
Chamboredon, Luc Boltanski...). Ma è un determinismo che, per poter
essere efficace, deve farsi meno cogente, più elastico: una delle
sue fonti epistemologiche è Gaston Bachelard, che non è proprio un
positivista.

Così, al posto del capitale inteso in senso
puramente economico, Bourdieu introduce tre forme diverse di
capitale, a) economico, b) culturale e c) sociale, e mostra le
interazioni, i travasi tra questi tre capitali. Anche le posizioni
di classe si articolano: gli intellettuali vanno visti di volta in
volta come frazione dominata della classe dominante oppure come
frazione dominante della classe dominata, e il viavai fra queste due
posizioni è di per sé un fattore determinante delle loro pratiche.
E' inutile qui mettersi a fare il Bignami della complessissima
teoria sociologica di Bourdieu. Basti un esempio: per Bourdieu la
percezione che ognuno di noi ha della propria posizione sociale non
coincide mai con questa posizione: cioè, ognuno ha un'immagine
alterata, errata di sé nella società. Il punto è, dice Bourdieu,
che la distanza tra la nostra percezione di noi e la nostra reale
posizione cresce man mano che scendiamo nella scala sociale: è
così che, per esempio, un impiegatuccio parla con disprezzo del
"popolino". E poiché noi agiamo in base al punto da cui
pensiamo di partire, questo divario spiega come mai gli errori di
strategia non sono mai cantonate individuali ma tendenze sociali.
Ecco perché per tutti gli anni '70 e '80 nessuno ha vivisezionato
la retorica della sinistra (del "discorso dominato
legittimo") in modo più spietato di Bourdieu: perché la lente
davvero sovversiva degli occhiali che ci ha regalato è quella di
svelare le strategie di denegazione e di eufemizzazione: un artista
non potrà mai perseguire il proprio interesse se non è
sinceramente convinto del proprio disinteresse (l'arte per l'arte);
se appena è cosciente di voler guadagnare e fare carriera, non ci
riuscirà mai. Ma questo disvelamento è possibile solo se il
sociologo si pone 1) in rapporto autoriflessivo e critico con il
proprio essere sociologo, e 2) al di qua della politica.
1) In uno sguardo sospettoso con il proprio essere sociologo, per
non cadere nel tranello della meta-sociologia che si presenta come
la teoria sociologica di tutte le sociologie possibili. Da questo
punto di vista, la lezione introduttiva (La leçon sur la leçon)
che Bourdieu tenne al Collège de France nel 1982 costituisce nella
sua brevità un classico del pensiero che ha la stessa succinta
profondità di un'Epistola a Meneceo, e che tutt'oggi suscita
riflessioni ed echi vertiginosi.
2) Al di qua della politica, perché la guarda come un campo
relativamente autonomo, in cui gli agenti operano spinti dalle
proprie traiettorie sociali, dai propri habitus. L'impegno politico
del sociologo si rifiuta al libro inteso come comizio politico. Fa
politica senza dirlo, smontando le motivazioni sociali del discorso
militante e filosofico, come ha fatto Bourdieu in quel classico
della demistificazione del galateo filosofico che è L'ontologia
politica di Martin Heideger (1988) dove infine la
filosofia non viene letta come pretende di esserlo, cioè
ontologicamente, all'indicativo presente della terza persona
singolare ("l'esserci è"), ma contestualizzandola e senza
facili cortocircuiti, alla Farias, tra heideggerismo e nazismo. Il
sociologo fa politica ricercando sul campo i meccanismi della
"costruzione politica dello spazio" geografico e sociale,
come nella straordinaria, commovente opera collettiva del 1993, in
cui compaiono gli ultimi testi più densamente teorici: La
Misère du monde, un volumone di 950 fitte pagine che fu venduto
a 300 mila copie in Francia e tradotto in 13 lingue.
Però nell'ultimo decennio, Bourdieu è come venuto meno al proprio
precetto e i suoi libri non sono più stati intrisi di politica, ma
direttamente politici. E' stato un atteggiamento di prodigalità: ha
speso il suo nome, il suo prestigio, la sua energia per tutte le
cause, a cominciare da Attac, che tanti altri "maestri"
hanno disertato. Dopo aver polemizzato tanti anni con Sartre (e con
Foucault), Bourdieu ha come ripreso nelle proprie mani il testimone
che Jean-Paul aveva lasciato, quello dell'impegno. I suoi libri
però ne hanno perso interesse, hanno somigliato sempre più a
pamphlet, sempre meno a quegli appassionanti viaggi nell'ignoto
sociale cui Bourdieu ci aveva abituati.
Con lui, ieri si è chiusa definitivamente la grande stagione in cui
la Francia ha insegnato al mondo, da Sartre a Barthes, da Foucault a
Deleuze. Ma Bourdieu ha una dote specifica, un'ironia un po'
spaccona dovuta forse alle sue origini guascone (come d'Artagnan, è
nato nel Bearn), un modo sorridente di smontare la società umana,
con il ciuffo ribelle sulla fronte ampia e il bel viso aperto, come
quando per compiti ci dette a scelta questi due temi: a)
"Spiegare perché una persona ragionevole sarebbe pronta a
tutto, anche a vendere la madre per essere nominato decano di un
istituto di filologia romanza"; b) "Spiegare perché un
salumiere investe una quantità di milioni sufficienti a comprare un
altro negozio, solo perché suo figlio impari a memoria esametri
greci".
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