L'ultimo maestro
Alessandro Dal Lago
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L'ultimo maestro
Questo articolo è apparso il 25 gennaio su "il
manifesto"
Con la morte di Pierre Bourdieu, la Francia perde uno degli ultimi
maîtres-à-penser assoluti, quegli uomini che avevano fatto di
Parigi, per più di quarant'anni, il polo intellettuale per
eccellenza nell'immaginario occidentale - uomini del calibro di
Sartre, Barthes, Lacan e Foucault. Anche questo è un segno dei
tempi. Nonostante i tentativi, spesso anacronistici, di difendere la
propria preminenza culturale, la Francia sembra arrendersi
all'inevitabile dominio dell'inglese e dei suoi stili culturali. Era
proprio Bourdieu a rappresentare, con i suoi volumi in traduzione
che occupavano le migliori librerie di Londra o di Berlino e delle
università americane, l'ultimo richiamo internazionale della
cultura francofona.
Bourdieu poteva godere di questa fama globale perché, come era
avvenuto per Foucault (che non a caso l'aveva voluto al Collège de
France), interpretava un ruolo essenzialmente politico. Non era solo
il sociologo dei fenomeni intellettuali e culturali di massa -
scuola, arte, scienza - e dell'esperienza quotidiana - povertà,
disagio, dominio sessuale. Era soprattutto l'ultimo grande critico
della società liberale e delle manifestazioni o distorsioni
simboliche del capitalismo. Tutta la sua ultima produzione, come
appare dalle due riviste a cui si era consacrato ("Actes de la
recherche en sciences sociales" e "Liber") si
presenta come una denuncia, rigorosa e documentata ai limiti
dell'ossessione, dell'inganno capitalistico nelle sue forme
molteplici, subdole e avvolgenti.

Ciò gli era costato, nella Francia della
difficile coesistenza tra destra e sinistra governativa, una buona
dose di veleno pubblico. Negli ultimi anni erano usciti libelli
polemici - di ambiente universitario più che politico - in cui
venivano presi di mira il suo metodo, il suo supposto strapotere
nella repubblica francese delle lettere, la sua superbia. Un veleno
di cui Bourdieu, che era uomo molto sensibile, deve avere sofferto
molto e che l'ha spinto sempre di più verso l'impegno politico.
Fino a poco tempo fa, era l'infaticabile tessitore di reti
internazionali per l'animazione di una cultura politica
anti-liberista e per la costruzione di un'altra Europa.
Dire che il richiamo mondiale di Bourdieu era essenzialmente quello
politico significa raccontare solo una piccola parte della sua
storia. C'è, per cominciare, lo studente povero che conquista l'agrégation
alla prestigiosa Ecole Normale in un'epoca di imperante
heideggerismo - una corrente per cui Bourdieu provava una profonda
avversione (come risulta da diversi saggi degli anni '70 e '80 in
cui il linguaggio "profetico" di Heidegger viene smontato
fino alle sue origini di classe, il mandarinato borghese
dell'università tedesca). C'è il ricercatore sul campo in Algeria,
autore di alcune tra le più belle analisi dell'influsso del
colonialismo sulla cultura tradizionale (Sociologie de l'Algerie,
del 1958, e Le déracinement del 1964, con A. Sayad).
C'è l'analista delle istituzioni incaricate di trasmettere la
cultura dominante, dalla scuola all'arte, dall'università alla
letteratura, dalla fotografia ai salotti intellettuali (La
réproduction, 1970, La distinction, 1979, Homo academicus, 1984,
Les règles de l'art, 1992). C'è anche il teorico capace non solo
di rivisitare liberamente le categorie marxiane alla luce di una
sensibilità sociologica modernissima (i concetti legati
all'intuizione del "capitale culturale"). E soprattutto
l'infaticabile animatore di una cultura sociologica aperta, senza
pregiudizi, a quanto di meglio proveniva dall'altra parte
dell'Atlantico. Si deve a Bourdieu, per esempio, se la Francia -
condizionata da sociologi con la feluca come Aron, Touraine e Boudon
- ha potuto conoscere l'opera di un ricercatore atipico come Erving
Goffman.
Questa molteplicità, questa capacità di fare sociologia a 360
gradi - in un'epoca in cui la sociologia si stava
istituzionalizzando e banalizzando anche in Francia - appare
compiutamente in quella che, secondo me, è la sua opera più bella
e meno cosnosciuta da noi, La misère du monde, 1994. In questo
lavoro monumentale, che Bourdieu ha caparbiamente voluto e
organizzato, facendo lavorare i suoi collaboratori migliori e (oggi)
più noti (da Boltanski a Champagne, da Sayad a Wacquant), parlano,
sotto forma di interviste e storie di vita, gli uomini comuni, le
vittime del liberismo, dei pregiudizi e della violenza della
società opulenta: migranti, insegnanti, lavoratori pubblici,
operai, pensionati, casalinghe.
Un coro articolato di voci che sostituiscono la pretesa sociologica
di ricostruire la verità sociale dalla prospettive anguste dei
dipartimenti universitari. Nelle considerazioni finali, Bordieu si
spinge quasi a teorizzare un ritiro dello sguardo sociologico dallo
studio degli ultimi - gli anonimi, i marginali, i reietti. Una
posizione metodologica radicale che non va confusa con l'empirismo,
trattandosi piuttosto di un'intuizione della fecondità della
letteratura nella descrizione sociale. Sta di fatto, comunque, che
quest'opera di quasi mille pagine si fa leggere come una catena
aperta di romanzi-verità - talmente lontani dalle croste letterarie
da essere divenuti, in diversi casi, testi teatrali, e di successo.
Nessun editore italiano ha finora accettato, e forse nemmeno
pensato, di tradurlo. Ma, in un paese che pure disbosca foreste per
farci conoscere tante mediocrità di richiamo, c'è da sperare che
ora qualcuno ci ripensi.
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