Controfuochi su Hollywood
Massimiliano Panarari
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Non risulta mai facile capire se e in quale misura un’opera d’arte
si riveli influenzata da un’idea o un pensiero. E ciò accade, in
particolare, nell’arte cinematografica, quando le immagini in
movimento si sposano con i concetti, i sogni con le concezioni, le
impressioni con le intuizioni e le simbologie.
Se esiste una cinematografia profondamente e intimamente affascinata
dalla malia del pensiero - peraltro comprensibilmente, considerato
il ruolo che rivestono le idee in quel paese - questa è sicuramente
quella francese, dove l’industria dell’audiovisivo, reputata “questione”
e “priorità” nazionale, tanto da venire abbondantemente
foraggiata dall’erario pubblico e da ricorrere nei discorsi dei
ministri all’Assemblea nazionale come componente fondamentale dell’identità
collettiva destinata all’esportazione, fornisce un orgoglioso
baluardo contro lo strapotere planetario di Hollywood, ennesima
manifestazione dell’ipoteca anglosassone gravante sul processo di
globalizzazione (nondimeno molto gradita dalle giovani generazioni d’Oltralpe).
Lo “chauvinisme” culturale dei nostri vicini ha
consentito loro di mantenere un proprio profilo, decisamente elevato
(anche troppo secondo i detrattori, avversari dell’allure
melanconica ed esageratamente intellettuale di certi film),
ritagliandosi una nicchia di qualità sul mercato dominato dagli action
movie e dalle storie romantiche partorite dagli studi
cinematografici sulle colline di Los Angeles.
Sembra esattamente questo il caso de Il gusto degli altri,
il lungometraggio di Agnès Jaoui, film discusso e discutibile, ma
da considerare probabilmente alla stregua di uno dei prodotti più
riusciti del cinema d’essai degli ultimi anni, non univocamente
apprezzato dalla critica, ma capace di suscitare un sostanzioso - e
inaspettato - gradimento nel pubblico. Un film di idee, sorretto a
giudizio di alcuni da una autentica elaborazione
sociologico-filosofica, svolta in termini di divertissement
come deve essere proprio dell’arte (secondo una certa estetica,
ovvio...), il che apre il dibattito, come si direbbe in un
lungometraggio di Nanni Moretti: il pensiero orienta davvero, in
certi casi, in maniera palese e conclamata le manifestazioni
artistiche?
Taluni hanno ravvisato nelle schermaglie psicologiche, negli
intrecci e nella stessa costruzione della trama del film la presenza
disseminata e fugace di pensieri in verità forti e pesanti,
riconducibili al sociologo che da parecchio tempo a questa parte
egemonizza la scena culturale transalpina, e non solo. Ovvero,
Pierre Bourdieu, l’odiato/amato (e per lo più detestato
visceralmente) argomento prevalente delle battaglie e del
chiacchiericcio che attraversano la République des lettres parigina,
e oggi, all'indomani della sua scomparsa, sempre più l’intellettuale
di riferimento per eccellenza della sinistra e dei movimenti sociali
planetari che rifiutano l’omologazione delle coscienze imposta dal
neocapitalismo mondializzato e dal neoliberismo trionfante.
Un vero e proprio simbolo per alcuni e una terribile ossessione per
molti altri, ma comunque una delle figure che hanno maggiormente
segnato la sociologia della cultura contemporanea e che più
condizioneranno la teoria politica prossima ventura, autore
estremamente complesso e di lettura non facile, da un po’ di tempo
a questa parte, in coincidenza con la sua recente missione di guru
della nuova contestazione e dell’extrême-gauche morale
(come la chiama Jacques Julliard), convertitosi in volgarizzatore di
una parte del corpus delle proprie stesse tesi.
Identikit di un “intello” engagé.
Pierre Bourdieu, nato nel 1930, militare di leva nell’Algeria
che combatteva per la decolonizzazione (esperienza destinata a
segnarlo radicalmente e a offrire di fatto il primo dei suoi oggetti
di riflessione e studio - con i libri Sociologie de l’Algérie
del 1956, Travail et travailleurs en Algérie, insieme a
A. Darbel, J. P. Rivet e C. Seibel, nel ’63, e Le déracinement.
La crise de l’agriculture traditionnelle en Algérie, insieme
a A. Sayad, del ‘64 - oltre che di impegno politico), ha
raggiunto anche la consacrazione accademica (dopo essere stato,
naturalmente, avversato in seno alla congregazione universitaria)
con la chiamata nel 1981 a ricoprire la cattedra di Sociologia
presso il Collège de France.
Un incarico inequivocabilmente prestigioso, peraltro piuttosto
sovraordinato e super partes rispetto agli scontri intestini
ed alle lotte che sconvolgono le tribù degli universitaire
e, pertanto, non utilizzabile per alimentare baronie e clientele
accademiche, ma in grado di regalare ulteriore visibilità a chi ha
voluto contrastare violentemente e smascherare la natura castale ed
opaca della supremazia delle élite di ogni natura -
dedicandovi libri divenuti celeberrimi, su tutti Les héritiers,
scritto insieme a J.-C. Passeron nel 1964, La
réproduction, nuovamente con Passeron, del 1970, Homo
academicus del 1984 e La Noblesse d’État dell’88.
E ha dato vita a sua volta (attirando così gli strali dei
detrattori e le accuse di incoerenza) a un piccolo (ma efficacissimo
e capillare) controsistema mediatico-culturale per la resistenza e
la “guerriglia” intellettuale al perverso inattaccabile
intreccio di interessi e complicità che affratella i poteri da cui
è governata la società francese, come pure tutte le altre del
mondo occidentale e post-industriale. La galassia bourdivine
(il neologismo coniato per indicare quanto proviene da Bourdieu e
dai “suoi”, affiancatosi al più giovanilistico bourdieuman
- per designare un individuo colto e disposto a lottare con
decisione per le sue idee - a conferma di quanto peso eserciti
questo sociologo nella “battaglia delle idee” d’oltralpe)
trova così i suoi pilastri nella casa editrice Liber-Raisons d’agir,
officina continua di volumetti e pamphlets per la critica
della società odierna, rigorosamente concepiti all’insegna di un
criterio di leggibilità e comprensibilità, al fine di “fare
proseliti” e divulgare adeguatamente le “armi della critica”
con cui opporsi all’ideologia del mercato globale.
E nelle riviste Actes de la recherche sociale e Liber,
da lui dirette, come pure nella dichiarata simpatia di giornali
quali le Monde diplomatique (sua tribuna per antonomasia), Charlie
Hebdo, Les Inrockuptibles (da cui venne chiamato, tra l’altro,
a fare il caporedattore di un numero speciale prenatalizio che si
proponeva quale collezione di interviste a nuove figure sociali,
secondo lo spirito della Miseria del mondo di dare voce a
coloro che non ne dispongono) e, per certi versi dell’estremamente
modaiolo e cool Technikart (la “bibbia” dei trentenni branchés
e in rivolta generazionale per conquistare spazi nella società,
loro negati dalla generazione sessantottina), nonché delle pagine
culturali del quotidiano Libération, nonché di taluni
giornalisti progressisti delle redazioni della capitale.
Ma scontando, per converso, la dura ostilità dell’intero
apparato mass-mediatico ufficiale e di quello legato alla sinistra
moderata e liberale. Per poi divenire rapidamente l’eroe ed il
paladino di gran parte dei fenomeni sociali innovativi che sorgono
spontaneamente in seno alla società francese, ove Bourdieu
individua la sola speranza ed il solo antidoto all’antipolitica ed
alla dittatura del mercato, in questo recuperando una curiosa
sintonia con il suo grande antagonista teorico, l’altro grande
della sociologia, Alain Touraine (anch’egli attestatosi negli
ultimi tempi su posizioni di critica feroce dell’ultralibéralisme),
da cui comunque, a scanso di equivoci, lo dividono sempre moltissime
cose, a partire dal giudizio sul governo Jospin, che per il primo si
rivela ostaggio ed asservito, come tutti i partiti socialdemocratici
al governo in Europa, alla parte più retriva e conservatrice dei
poteri forti.
Sola promessa in circolazione risultano, dunque, fenomeni come i Motivé-e-s,
la lista laboratorio ispirata dal gruppo rap Zebda (impegnato, da
oltre un quindicennio, prima della definitiva consacrazione
musicale, sul terreno del lavoro sociale nella disastrata periferia
nord della città), la quale, in occasione delle ultime elezioni
municipali di Toulouse, ha ottenuto quasi il 20% dei voti, con un
programma fondato su vari principi e istanze di gauche de la
gauche ma, al tempo stesso, su di una visione assai chiara di
cosa fare per riportare soprattutto gli immigrati ed i ceti popolari
sacrificati sull’altare del “turbocapitalismo” a partecipare e
a riappropriarsi coscientemente di forme di democrazia diretta (il
tutto all’insegna di un mélange che mette insieme José
Bové e Attac - l’associazione per la tassazione dei capitali
delle transazioni finanziarie internazionali, la famosa “tassa
Tobin” - al sociologo di Controfuochi).
Una formula di educazione alla politica ed alla consapevolezza di
sé nettamente debitrice delle teorizzazioni e della pratica dell’ultimo
Bourdieu, che guarda con enorme simpatia ai movimenti sociali (dai
disoccupati agli immigrati senza documenti ed irregolari fino agli
antiglobalisti, in ogni caso i “sans”, i deprivati delle
società della “fortezza Europa”) quali colonne - in verità
molto instabili e troppo disomogenee, come osservano parecchi
intellettuali della sinistra riformista e liberale da lui
stigmatizzata con veemenza - per restituire un senso alla politica.
Bourdieu vedette della settima arte. Il sociologo, che un
dossier di CafféEuropa di qualche tempo fa considerava
proiettato “in orbita”, sembra davvero aver raggiunto
attualmente una fama stellare, tanto da incrociare da un po’ di
tempo a questa parte anche le traiettorie delle arti visive e del
cinema, a riprova di una sua penetrazione all’interno di un
immaginario ben più largo ed esteso - dalle piazze francesi che
alcuni anni fa insorsero contro la riforma previdenziale disegnata
dal cosiddetto plan Juppé ai raduni del popolo
antiglobalizzazione da Praga sino a Porto Alegre - di quello del
personaggio che agita i sonni ed alimenta le polemiche dell’intellighentsia
della Ville Lumière. Convertendo, in tal modo, uno degli
intellettuali più antimediatici - per ragioni teoretiche, ancor
più che di idiosincrasia personale - della contemporaneità in un
irrinunciabile oggetto di attenzione spasmodica (e di denigrazione
reiterata) da parte degli stessi mezzi di comunicazione.
Se il film cui si faceva prima riferimento - Les goût des autres
- viene indicato quale campionario per immagini di quella
lettura del gusto estetico come psicoanalisi sociale e
sedimentazione della differenziazione tra le classi che lo studioso
aveva sviluppato ne La distinzione (libro pubblicato
originariamente nel 1979 e sottotitolato, non a caso quasi
kantianamente, Critica sociale del gusto), il festival di
Cannes di questo anno presenta addirittura un documentario che vuole
restituire “in presa diretta” l’intreccio di vita, prassi e
riflessioni di questa star - suo malgrado, direbbe il diretto
interessato - intellettuale. Nel corso delle sue quasi due ore e
mezzo di durata, il filmato, dal titolo inusuale e fortemente “programmatico”
di La sociologie est un sport de combat, accredita in modo
sostanzialmente apologetico ed agiografico l’immagine di un
Bourdieu vittima del sistema che egli si prodiga così intensamente
a condannare.
La molteplicità di situazioni pubbliche nelle quali il sociologo di
Raisons pratiques viene osservato e ripreso, pressoché senza
interventi della regia - da una videoconferenza con un pubblico d’oltreoceano
ad un’assemblea alla Casa della cultura di Mantes-la-Jolie, dalla
presenza in una marcia contro la mondialisation neoliberista
fino a svariati episodi della sua attività didattica - configura la
“giornata qualunque di un sociologo assolutamente speciale”
quale risulta essere il protagonista, in particolare grazie allo
sguardo ambiziosamente ed ideologicamente “oggettivo” e
vivisezionatore, ma come tale totalmente partigiano e schierato a
favore del suo soggetto di indagine, dispiegato dal realizzatore del
documentario, Pierre Carles. Il quale, trentottenne iconoclasta
regista ed autore dell’audiovisivo, con alle spalle studi di
sociologia (retroterra che ricompare regolarmente all’interno
delle sue produzioni) ed una passione per il giornalismo
investigativo e d’inchiesta (tra le cui fonti ispiratrici vanno
annoverati, a suo dire, i testi dei sociologi Patrick Champagne e
Alain Cardon, entrambi discepoli e sodali del “maestro”), vanta
una biografia personale di coraggioso dissacratore delle connivenze
dello show-business transalpino, che lo ha fatto
ripetutamente ostracizzare e censurare dai mass-media del paese.
Dopo aver svelato nel 1994 il clamoroso falso dell’intervista a
Fidel Castro di Patrick Poivre d’Arvor (stella di TF1 e principe
di un certo giornalismo compiacente nei confronti dei potenti,
secondo i seguaci di Bourdieu, tanto da costituire il bersaglio
preferito degli strali e delle reprimende di Serge Halimi nel suo Les
nouveaux chiens de garde), Carles si è reso protagonista tre
anni dopo di un affaire di grande impatto sulla scena
mass-mediatica e sull’opinione pubblica con l’uscita nelle sale
cinematografiche del suo Pas vu, pas pris, vibrante atto di
denuncia contro il clima generalizzato di corruzione e complicità
nei confronti del potere che prende spunto dal suo reportage di una
dozzina di minuti dedicato a “televisione, morale e potere”,
già rifiutato da tutti i canali nazionali. E vigorosamente
sostenuto (sino al punto da approntare un entusiastico dossier di
sostegno su di lui) dall’Ata, l’Association des
téléspectateurs actifs, un ente pluralista, di volontariato ed
autofinanziato, nato nel 1994 sulla base di precetti e di una
impostazione molto bourdivine, per promuovere un’evoluzione
in senso umanistico del panorama audiovisivo e la diffusione di una
educazione alla fruizione degli strumenti che lo popolano, alla luce
dello slogan “informare per agire”, di una sorta di “cittadinanza
massmediatica attiva” e di una responsabilizzazione del
cittadino-teleutente riguardo alla posta in gioco implicata dall’uso
dei mezzi di comunicazione di massa.
Il film si presenta, dunque, quale testimonianza assai bendisposta
del mestiere dell’uomo di cultura, ripreso veramente all’opera,
dalla quale fuoriesce un’effigie, come anche il tutt’altro che
benevolo Nouvel observateur ha dovuto riconoscere a denti
stretti, che rovescia la vulgata dell’uomo triste e ripiegato
sulla complessità oscura di certe sue teorie, per rivelarsi
individuo dalla chiarezza esemplare quando parla in pubblico e dal
sarcasmo travolgente che risponde in maniera fulminante alla domanda
di Günter Grass sul perché non utilizzi questa dote dell’ironia
in suo possesso per rendere ancor più efficace la sua “sociologia
combattente”: “L’epoca non è divertente. Non mi viene da
ridere”. E dalla biografia intellettuale per immagini su di lui
realizzata da altri, Bourdieu, in questa incessante ed indiscutibile
capacità di sperimentazione che lo contraddistingue, ha saputo
passare ad una autobiografia intellettuale attraverso le parole
consacrando, davanti all’anfiteatro gremitissimo, una sua lezione
di quest’anno al Collège de France - istituzione di cui si
appresta prossimamente, all’età di settantuno anni, a divenire
professore onorario - alla propria “auto-socio-analisi”.
Un evento da citare perché ha riempito le cronache culturali della
stampa francese, offrendosi, coerentemente con la visione del
personaggio, alla stregua di un tentativo di verificare la nozione
tanto amata di riflessività nelle scienze sociali, applicandola al
suo percorso individuale, in uno sforzo difficile di “oggettivarsi”
e di scongiurare tanto l’autoincensamento compiaciuto che la
confessione intimista (prova ne era il riferirsi a se stesso come a il
e a P. B.), oltre che di collocare la propria opera in
dialogo ed in rapporto alla filosofia. Bourdieu, pronto a
dichiararsi affine a figure come Derrida, Foucault, Deleuze, ma non
ad abbracciare un postmodernismo relativista a cui viene
ingiustamente assimilato negli Stati Uniti e che trova deleterio,
preferendogli un razionalismo da onesto travailleur de la preuve,
è, infatti, per formazione un agrégé de philo, come
direbbero i francesi, al pari, in questo curioso gioco di rimandi,
del figlio Emmanuel, che la insegna all’università, ma si diletta
in qualità di sceneggiatore ed ha finito il suo secondo
cortometraggio, Le salaud, acido e corrosivo racconto sulle miserie
umane del mondo accademico.
Critica della ragion mediatica. L’engagement di
Pierre Bourdieu, senza partito che professa il dovere inaggirabile
per l’uomo di sapere della militanza politica e si pone quale
intellettuale organico ai ceti deboli e in lotta contro l’oppressione,
si estende alla critica del sistema dei media, nei quali ravvisa uno
degli elementi essenziali per l’edificazione ed il rafforzamento
della pensée unique. Le sue bestie nere coincidono con
coloro che, coniando uno slogan di notevole effetto e non alieno
dalla vena moralistica tipica di una certa cultura francese (con cui
ha rivendicato una continuità nelle Meditazioni pascaliane,
il suo libro recente dall’impianto maggiormente filosofico), ha
etichettato come fast thinker, ovvero gli pseudointellettuali
da salotto i quali, anziché dedicare fatica e tempo all’approfondimento
delle questioni, pontificano da giornali e tv, di cui si avvalgono
anche come parametri della loro malintesa popolarità e visibilità,
valore supremo a cui consacrano la loro attività, al servizio dei
gruppi dominanti. Al pari dei “doxographes”, i sondaggisti ed i
fabbricatori di opinioni altrui che simboleggiano perfettamente i
tratti di una società e di un’epoca veloce e superficiale, dove
la manipolazione delle coscienze da parte dell’ideologia unica
neoliberista si avvale dell’auditel come dei best-sellers e dei
films americani.
Tutto l’opposto di quei caratteri - “libertà nei confronti dei
poteri, critica delle idee preconcette, demolizione delle
alternative semplicistiche, restituzione della complessità ai
problemi - che definiscono e distinguono l’intellettuale
autentico, denunciante la violenza simbolica e l’utilizzo
oppressivo del capitale economico e culturale. La critica e il
disvelamento dei meccanismi di dominazione della società odierna -
il contributo di Bourdieu per eccellenza alla cultura contemporanea,
che fa versare generosamente fiumi di inchiostro sulla sua
accostabilità ai maestri del disincanto, come Marx e Freud -
vengono così innestati senza sconti pure sulle architravi dell’industria
culturale, dal piccolo schermo (scandagliato impietosamente nel
pamphlet Sulla televisione, uscito a Parigi nel ‘96) al
grande (su cui scrive diverse pagine nei due volumetti di Contrefeux,
l’ultimo dei quali uscito quest’anno), dai distributori ai
critici, tutti integralmente subordinati alla logica del mercato,
negazione stessa della cultura, la quale presuppone in quanto tale
investimenti a lungo termine, peraltro non necessariamente in grado
di garantire un ritorno in termini di guadagno (come dimostra la
storia del cinema d’autore).
La concentrazione dei soggetti protagonisti dell’industria dell’infotainment
(dalla produzione alla distribuzione) nell’ambito di pochi
giganteschi agglomerati multimediali (da Time Warner-AOL a
Viacom-CBS), e l’omologazione delle scelte schiacciate e
ricondotte ad una manciata di “prodotti omnibus” vendibili sulla
superficie dell’intero pianeta senza distinzione, generano una
estetica discendente dalla volontà del massimo profitto a breve
scadenza, come predicato dai comandamenti di questo neoliberismo e
mercantilismo dell’apparato dell’intrattenimento. Al cospetto
dell’irruzione “barbarica” del cinema commerciale, con la
prevalenza spettacolare della tecnica (basti pensare alla continua
ricerca di effetti speciali originali per conquistare ed affascinare
il grande pubblico) ed il ruolo incrementatosi a dismisura del
divismo (ancora una volta per trascinare le masse in modo facile,
anziché dover escogiare contenuti di qualità), “le lotte attuali
dei cineasti per il final cut e contro la pretesa del
produttore di detenere il diritto finale sull’opera corrispondono
all’esatto equivalente di quelle dei pittori del Quattrocento”,
anch’essi intenti a guerreggiare contro l’ennesima dominazione,
quella della committenza.
Una battaglia, riconosce il sociologo, alquanto impegnativa e
complessa perché a rischio di apparire antidemocratica e contraria
snobisticamente ai gusti popolari - in realtà, forgiati
indebitamente da altri; si tratta, quindi, di inventarsi delle
azioni di resistenza e di immettere nella megamacchina del
divertimento a pagamento dei “granelli di sabbia”, come scriveva
per Télérama, il settimanale - di proprietà di un gruppo
editoriale cattolico - di critica ed informazione televisiva
intelligente e consapevole, che ospita spesso le opinioni di
Bourdieu.
Il tutto all’insegna di una concezione molto francese e molto
globale, al medesimo tempo, in un continente che non voglia essere
solo delle banche e delle monete e nell’età di una
mondializzazione che sappia anche esaltare i propri connotati di
cosmopolitismo e cittadinanza universale: ovvero, l’idea
repubblicana. Bourdieu pensa ed elabora forme di resistenza alla
globalizzazione neoliberista nel nome di una République rinnovata
e di un modello ed una civiltà europei da ripensare, senza alcuna
nostalgia reazionaria per il passato o la Nation (tipica dei réac
de gauche), anzi, nella consapevolezza che lo Stato-nazione,
tanto caro alla tradizione francese, si rivela sempre più un’arma
spuntata una volta messa a confronto con i processi e le dinamiche
planetarie in atto. Un’analisi impeccabile, ma poi, cosa fare? E
proprio qui risiede la difficoltà essenziale...
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