“fè”come femmina e fecondità
Salvatore Natoli con Elisabetta Ambrosi
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Questo articolo è apparso sul numero 68 (novembre-dicembre 2001)
di Reset.
Nei suoi testi, lei ha sempre intrecciato un approccio
filosofico-storico al tema con una indagine
filosofico-fenomenologica sulla sua essenza. Cominciamo dalla
seconda: come si possono tratteggiare, in senso fenomenologico
appunto, i suoi caratteri strutturali della felicità?
Sì, partiamo dal primo punto, per tracciare con grande libertà il
tratto generalissimo della felicità. La parola viene dal latino felicitas
che risale alla radice indoeuropea fe, che indica qualche
cosa che, in generale, ha a che fare con la fecondità: da fe
vengono infatti i termini fecundus, femina (in quanto
generante), fetus, e, attraverso una modificazione fonetica, filius
in quanto allattato dalla femmina. L’idea è quindi legata a
quelle di generatività, espansione, sviluppo. Ecco, partendo dall’etimologia,
identifico la felicità nel sentimento della propria espansione
illimitata. Allora, se si parla di illimitata espansione, essa
non sta tanto nella sazietà, o non nella volgare soddisfazione, ma,
fondamentalmente, nella crescita. Quindi, perché vi sia felicità,
c’è bisogno di quel minimo che permette una implementazione, uno
sviluppo, perché la sazietà riempie, addormenta.
Prendiamo due assi cartesiani. Da un lato, l’asse che va in alto,
che rappresenta il sentimento della propria illimitata espansione
come un sentimento dell’ascesa. Ci sono situazioni nella vita in
cui questo capita, quando si è presi da un evento in genere
imprevisto che ci eccita, ci sollecita, che ci fa espandere.
Normalmente, nella tradizione occidentale (e non solo) tale idea ha
la sua immagine fondamentale nell’orgasmo, come sentimento
costante dell’ascesa. Ma anche nell’amore c’è questa medesima
dimensione, la capacità di potenziarsi reciprocamente. Questo
sentimento esiste, tuttavia, anche come sentimento di fusività col
mondo, per esempio tramite le sollecitazioni più fisiche più
elementari, come il contatto con gli elementi, con il vento, con l’aria,
con l’acqua: il corpo si sente espandere, si sente legato
armonicamente in modo circolante con il tutto, e cresce. Notare bene
però che cresce col mondo, non senza di esso, allo stesso
modo in cui nell’amore, sia in quello strettamente sessuale, sia
quello totale, si cresce con l’altro.
É difficile che ci sia felicità se c’è sviluppo contro:
ci deve essere sviluppo con. Altrimenti, è accompagnata da
amarezza, perché toccata sempre da irrequietezza: infatti, la
felicità è sia sentimento dell’ascesa sia della
pacificazione, e una delle sensazioni che la caratterizzano è
proprio l’acquietamento, non come sazietà ma come sentimento
della quiete, come l’ “immergersi in”, il riposare nell’altro
(che può essere l’abbraccio dell’altro, il grembo della natura
madre, etc). Ecco, si tratta di forme di espansione che hanno una
gamma piuttosto ampia, dallo strettamente fisico a quello che
potremmo chiamare il mentale, visto che lo spirituale può essere
una parola equivoca.

Noi possiamo ascendere, ma, poiché non siamo una
potenza illimitata, inevitabilmente dall’acme si cade giù: ma
questo non vuol dire che si piombi nell’infelicità, ma che si
rientra in una media vita: ma, poiché la vita continua, possiamo
immaginare che ci sia una ripresa. E allora la felicità, da
esperienza vissuta, diventa tema di un desiderio. Ecco che,
concludendo, essa non è più solo il sentimento di una espansione
in alto, ma è la possibilità di espandersi lungo tutto il corso
della vita, e quindi da questo punto di vista si muove anche su una
ipotetica linea orizzontale. E allora, in una vita ‘riuscita’,
la curva non sale di colpo, a picco, ma, si innalza lentamente, tra
alti e bassi. Da questo punto di vista, la felicità diventa tema
della virtù.
A proposito della virtù: la nostra civiltà occidentale ha
sempre istituito un legame forte tra virtù e felicità (nel mondo
antico, come in quella medioevale e moderno), nesso che è stato
messo ampiamente in discussione, in vari modi, dalla riflessione
contemporanea (ciò è dovuto, ovviamente, anche alla crisi di un
concetto univoco di virtù). E allora, che legame c’è tra questi
due aspetti?
La virtù ma non va intesa nel senso più biecamente tradizionale,
come inibizione, fatica, che poi viene premiata da una felicità che
viene dopo, e che, in taluni casi, nelle concezioni più religiose,
viene dopo la vita. Nel mondo greco la virtù era intesa come io la
ripropongo, cioè come arte, perché la parola greca per dire
virtù è areté. Essa è perciò, sostanzialmente, la
capacità di guadagnare abilità, le più varie, e le più ricche
possibili. Quindi tutto il nostro corpo, tutto il nostro spirito,
tutta la nostra mente devono essere attivati. Al tempo stesso, la
virtù potenzia le capacità: da questo punto di vista, allora, la
felicità non sta in un oggetto esterno, in una cosa, ma nella capacità
di mettersi in sintonia con tutte le cose, a seconda del
momento, a seconda della circostanza.
Questo vuol dire che non ci deve essere sordità nei sensi, non ci
deve essere torpore nell’intelligenza, ci deve essere curiosità,
attenzione nei confronti del mondo. L’uomo non può produrre
artificialmente quegli attimi di cui parlavamo all’inizio, che
sono stati di grazia, e non li può neanche confinare in qualcosa
che da fuori li generi (come può essere la ricchezza, o un corpo):
essi accadono al modo in cui il campo magnetico attrae qualcosa.
Allora se noi abbiamo ampliato le capacità, siamo nella condizione
di avere più attimi di felicità di quanti non ne abbia chi ritiene
che essa risieda in qualcosa di esterno o pretenda l’attimo senza
questa libertà dell’autocreatività. La felicità dell’attimo
non viene negata, ma entra nella vita, e la vita non dimentica,
trattiene, quindi anche gli attimi vissuti non sono soltanto tema di
una nostalgia, ma sono un eterno presente che ci fa amare la vita
ancora di più.
E tuttavia le capacità sono legate a condizioni esterne, a
circostanze in qualche modo casuali. La consapevolezza della
fragilità del bene è particolarmente acuta oggi: la riflessione
contemporanea sottolinea quasi senza tregua il carattere contingente
dell’esistenza. Esiste pertanto un rapporto stretto tra felicità
e fortuna, nel senso di caso? E come si concilia con il tema della
virtù?
La felicità e la fortuna sono strette insieme: non a caso eudaimonia
vuol dire buona sorte: dire, come facevo prima, che la felicità è
qualcosa che ci coglie, più che qualcosa che noi afferriamo, vuol
dire affermare l’esistenza di una relazione imponderabile tra il
dentro e il fuori, tra il quali si stabilisce un contatto. E come ci
sono esperienze di favore, ci sono quelle che contraggono i sensi:
ecco il dolore. Il dolore è certo un elemento che coarta la
felicità. Posso parlare di un dolore in senso lato, casuale, come
una malattia, che può venire o meno; oppure ci può essere un
dolore provocato da una discrasia tra le volontà degli uomini:
bisogna dunque distinguere tra un dolore che viene dalla natura e
che è imponderabile, e un dolore che in fondo discende direttamente
o indirettamente dal male che gli uomini si infliggono. Allora sì
che c’è un elemento di caso, perché questa sintonia può
scattare o meno.

Però, se noi colleghiamo questo discorso a quello
della virtù, ci accorgiamo subito che la dimensione del caso è
meno determinante di quanto si pensi. Perché se riprendiamo la
figura del campo magnetico, allora le scintille, i contatti, di cui
parlavamo, accadranno più facilmente nella misura in cui le nostra
virtù sono potenziate, e quindi quello che sembra un puro di caso,
di fatto diventa qualcosa di più frequente per noi, perché noi ci
siamo disposti nei confronti del mondo in un atteggiamento di
apertura, lo sappiamo ascoltare. La virtù è perciò quella
capacità che chiama sviluppo, che fa accadere ciò che ci fa
crescere.
Da questo punto di vista, per virtù non bisogna intendere solo l’apprendere
qualcosa in direzione dell’immediatamente utile, perché l’utile
è giocato sul rapporto costi-benefici, e quindi non ha mai
eccedenza, è tendenzialmente avaro (anche se tende al profitto!),
perché è in una logica strumentale. Mentre qui bisogna valorizzare
il ‘disutile’, nel senso del gratuito (che è ciò che
dà significato al lusso come all’arte). Il gratuito è l’andare
incontro al mondo nella sua novità: è quello che sostanzialmente
fa il bambino quando scopre il mondo: non c’è nel bambino un
programma di utilità, quanto piuttosto una curiosità nei confronti
del mondo. In questo senso - qui dò una versione secolarizzata del
Vangelo - bisogna interpretare così quello che dice Gesù: “se
non diventerete come questi bambini, non entrerete nel Regno dei
cieli”. Guadagnare questa innocenza nei confronti del mondo.
Alcuni tuttavia potrebbero ricordarle l’impossibilità di
recuperare una innocenza ‘originaria’. Da questo punto di vista,
la sua visione potrebbe essere definita troppo ottimistica..
No, è una visione realistica! Quella che può essere invece un’obiezione
vera è che ciò non può essere fatto dal singolo. Ci sono delle
situazioni che non possono svilupparsi perché non c’è una cultura,
una tradizione, una formazione, una società che lo permetta. Io non
nego che ci siano infelici. Da amante e studioso dei greci non
cancello la spietatezza della vita, e so che l’eccesso di dolore e
di male possono infelicitare molti uomini: ma dico anche che questa
infelicità, che pure esiste, poteva perfettamente non esserci.
Allora essa non è uno stato della vita, ma è conseguenza dell’assenza
di virtù, cioè di un male degli uomini. E allora ancora di
più c’è bisogno di una attenzione alla virtù, di un rapporto
non immediatistico e fruitivo nei confronti della felicità, ma
complessivo e realizzativo. E per questo si può parlare a ragione
di questo argomento quando sparano le bombe e c’è la guerra:
perché poteva perfettamente non esserci.
La felicità è apertura al mondo: ma ciò significa anche apertura
al rischio. Al tempo stesso, però, è evidente che, un altro senso,
essa è anche difesa dal rischio, ricerca di sicurezza. Ma
qual è il punto di equilibrio tra apertura al mondo e chiusura
finalizzata, possiamo dire, all’autoconservazione? Se mi chiudo in
me stesso rischio di non vivere emozioni splendide, legate al “mettermi
in gioco”, come l’amore, l’amicizia; ma se mi apro del tutto,
perdo i miei confini e rischio una sofferenza troppo alta: gli
stoici hanno messo bene in luce quest’ultimo aspetto, credo.
Lo stoico partiva dall’idea, contraria a quella che noi stiamo
sostenendo, e cioè che tutto accade secondo necessità, che nulla
è casuale, e che proprio per questo l’uomo può essere felice in
quanto è predisposto, perciò attrezzato, per essere all’altezza
di ogni evento, qualunque esso sia, compreso il dolore. Ma questo
tipo di ragionamento, quindi, porta all’estremo quello che io dico
moderatamente, perché sono un aristotelico: e cioè che di fronte
all’infelicità ci vuole più virtù, ma intesa come abilità. L’essere
all’altezza non vuol dire trattenersi, non è l’idea del
contenimento, del non rischiare troppo, del buon senso.
Ma quando possiamo dire che il rischio è calcolato nel modo giusto?
Quando teniamo conto non solo della natura esterna della cosa, dell’impresa
che vogliamo tentare, ma anche della capacità che noi abbiamo per
gettarci in questo rischio. Allora il contenersi, quella che i Greci
chiamavano enkrateia, cioè la temperanza, non è l’avere
paura del fare, ma dominare il più possibile la propria potenza,
nel senso di poterla investire, governare: per far questo, tuttavia,
io devo sapere quanta potenza ho, e quindi devo stare sempre sulla
linea che mi porta a spingerla e a non sprecarla. Il ‘giusto mezzo’
di Aristotele è stato abitualmente tradotto con la volgare idea di
medietà.
In realtà Aristotele dice che non lo si deve pensare come un medio
di un segmento di cui si conoscono gli estremi: se così fosse si
potrebbero fare delle ricette di felicità, e ci sono degli
imbecilli che lo fanno; ma bisogna pensarlo come ciò che si pone in
mezzo a qualcosa di illimitato: e allora non esiste il mezzo, ma
quest’ultimo va trovato di volta in volta. E infatti il luogo in
cui si trova il mezzo non è spaziale in Aristotele, ma è
temporale, è il tempo opportuno, è in ogni momento in cui tu ti
metti in gioco, però sapendo - in questo metterti in gioco - quanto
tu puoi.

Tutto questo lo si apprende con la vita intera:
ecco l’elemento cumulativo della virtù. Ecco perché la curva
cresce. E l’esempio che gli antichi portavano era bellissimo.
Quello del marinaio, cioè di colui che si può trovare di fronte ad
un imponderabile tempesta, ma, poiché di tempeste ne ha viste, la
sa avvistare, sa leggere le nuvole, e quindi non si fa trovare
disarmato.
Affrontiamo il tema del succedersi nel tempo di varie ‘visioni’
della felicità, che lei ha lungamente esaminato nei suoi testi. Non
sussiste una tensione costitutiva tra un approccio ‘fenomenologico’
alla felicità e uno di carattere filosofico-storico, dal momento
che la storia mostra idee/esperienze di vite riuscite non solo
diverse ma soprattutto contrapposte?
Da una parte esiste la felicità come esperienza, cioè
come vissuto, ed questo è l’aspetto più fenomenologico,
affettivo, quello che abbiamo esaminato finora; e poi c’è,
ovviamente, un nesso tra le epoche e le vite, nel
senso che ogni vita non è eterna, è collocata in un mondo storico
che ha una sua propria mentalità. La curva è della vita, ma la
vita è dalla storia, cioè le nostre vite sono dei punti, mentre le
epoche sono eternità. E tutto quello che abbiamo detto lei lo deve
trasportare mentalmente in un’epoca, che può essere la
contemporaneità, che può essere la cristianità: allora tutte
quelle cose sono vere, però la trama in cui si iscrivono, e quindi
il tipo di attenzioni e di aspettative, viene immediatamente
storicizzato nell’epoca. Anzi, uno dei limiti fondamentali del
nostro mondo è che noi per il nostro egoismo spezziamo i legami,
abbiamo legami tenui di fedeltà, di attenzione, e quindi
sostanzialmente siamo sradicati. Sradicati in primo luogo dalla ‘microstoria’,
costituita dalle molte vite, mio padre, il mio bambino, l’amico,
le mie generazioni.
Tuttavia, come ha scritto Nietzsche in Sull’utilità e il
danno della storia per la vita, per vivere bisogna anche saper
dimenticare, dal momento che lo storicismo è la prima fonte di
scetticismo (e che lo scetticismo è in qualche modo contrario alla
vita stessa!).
Dimenticare il proprio privato passato, cioè non essere legati
a ciò che ci impedisce di librarci in avanti, è una cosa
perfettamente inversa a ricordare il lontano passato, perché
ricordando il lontano passato scopriamo fondamentalmente una
riduzione fortissima della nostra soggettività: nella memoria
immemorabile delle epoche storiche, noi vediamo di più la nostra
finitudine, siamo anche meno affezionati a noi stessi, e quindi
guadagniamo anche quel profondo distacco che ci rende più liberi.
Allora il dimenticare di Nietzsche bisogna intenderlo così.
In ogni caso, come ha scritto Foucault, noi dobbiamo guardare al
passato in modo non storicistico. Lo storicismo guardava la storia
in modo continuista ed evolutivo. L’idea di progresso è la sua
forma più standardizzata: la storia come una linea continua, con un
carattere più o meno finalistico. Guardare al passato in modo non
storicistico significa invece capire che tra un’epoca e l’altra
ci sono delle cesure, e che le epoche sono costellazioni che
a un certo punto si esauriscono: ma nell’esaurirsi di un’epoca,
non si esaurisce la sua idea, e da questo punto di vista le epoche
sono costellazioni eterne. Cioè i greci, dal momento che sono
esistiti, come idea sono esistiti per sempre. E allora quando ci si
confronta con i greci, ci si confronta con una idea che rimane
incompiuta, e da cui noi preleviamo qualcosa, che serve a noi.
Questo è un modo in cui naturalmente non si pensa, ma è l’atteggiamento
epistemologico giusto. Nella felicità che io devo costruire ora,
quei modelli del passato, chiamiamoli con Foucault “arnesi”,
sono del tutto inutilizzabili, a meno che non ci sia in quella
proposta di vita qualcosa che, modificato, posso ‘adattare’ a
me, proprio come adatto un abito. Penso ad esempio alla teoria della
virtù. Ci sono virtù che noi abbiamo dato per scontate, finite: ma
è proprio vero o si tratta di riprenderle e di ridefinirle? Che in
una società come la nostra la magnanimità, oppure la pazienza, l’obbedienza
non servono più? Allora a volte la nostra cecità fa del passato un
falso bersaglio. O c’è il vizio storicista del continuismo, o c’è
il vizio del nostro presente di sentirsi unici e soli, in tutto il
tempo del mondo. Ma a questo punto si rimane prigioneri del proprio
presente.
Sì, ma, ad esempio, riproporre il concetto di virtù senza il
contesto escatologico, non è una operazione in qualche misura
impossibile, se non errata?
No. Prendiamo la carità. Nella tradizione cristiana è pensata come
amore divino: è solo perché c’è un amore infinito che noi
riusciamo ad essere caritatevoli. Si può dare una lettura non
cristiana di questo modello? Sì, perché il reciproco dono tra gli
uomini è un qualcosa che serve a tutti.
Ma dove trovare le motivazioni per essere caritatevoli?
Le risorse, anche emotive, nascono dalla comprensione profonda
del fatto che, se gli uomini tendono fondamentalmente o a trattenere
o a scambiare, non c’è mai quella sovrabbondanza che si fa carico
del dolore dell’altro, tranne che non lo si metta in logiche di
economia. Ci deve essere uno svuotamento di sé perché ci sia dono.
Questo è un modello cristiano! Perché gli uomini dovrebbero
seguirlo? Perché in questo gli uomini si realizzano, mentre se non
lo fanno ci perdono: ma questo sta in piedi come modello di condotta
indipendentemente dal fatto che Cristo sia Dio. Anzi io
rovescio il problema e dico: Cristo ha rivelato agli uomini una loro
possibilità. Non è Dio incarnato, ma è quell’uomo che ha
insegnato agli uomini come possono diventare Dio, cioè stare
meglio.
Da questo punto di vista, il Regno dei cieli ci sarà nel mondo se
saremo capaci di dono, quindi non verrà dopo. E allora l’escatologia
è tutta mondana. Lei pensa che, senza il cristanesimo come
esperienza storica, agli uomini questa cosa sarebbe venuta così
facilmente in mente? Probabilmente no: e allora lei capisce come in
quell’epoca, che pure è finita perché non siamo più epoca
cristiana, c’è qualcosa di inevaso che noi possiamo valorizzare
in modo del tutto originale.
Chi è Salvatore Natoli
Salvatore Natoli è professore di Filosofia teoretica presso
l'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Attento alla
ricostruzione delle linee fondamentali del progetto filosofico della
modernità, di cui sottolinea aporie e contraddizioni, ha
recentemente rivolto la sua attenzione al senso del divino
nell'epoca della tecnica e alla possibilità di un'etica che sappia
confrontarsi con il rapporto tra felicità e virtù e con gli
aspetti della corporeità e del sacro spesso sottovalutati dal
razionalismo classico. Tra i suoi libri ricordiamo: Ermeneutica e
genealogia (Milano 1980); L'esperienza del dolore (Milano
1989); La felicità. Saggio di teoria degli affetti (Milano
1994); Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo
(Brescia 1999); Progresso e catastrofe (Milano 1999); La
felicità di questa vita (Milano 2000).
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