Quel nostro buon demone, che
ci fa «riuscire»
Roberta de Monticelli
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fragilità
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Così la concepivano i greci
Da Aristotele a Freud
Oggi è meglio di ieri
se non è ancora la felicità.
Conosceremo un giorno la bontà
del suo volto, vedremo ognuno sciogliere
come un fumo il suo inutile dolore.
(Umberto Saba)
Vorrei introdurre questa riflessione con l’aiuto di un’immagine,
che è anche una candida verità letterale. La rubo a un autore che
ammiro, e che mi scuserà di averla lievissimamente abbreviata: ogni
paesaggio ha un cielo. La commenteremo in seguito, o forse si
commenterà da sé.
Ogni paesaggio ha un cielo, fosse pure quello apocalittico che ci
hanno mostrato ossessivamente sugli schermi televisivi a partire
dall’11 settembre 2001.
Le domande dell’attualità
L’attualità sembra, in un caso come questo, rendere più
difficile il compito del filosofo. Come parlare della felicità
senza, in un modo o nell’altro, offendere il buon gusto, oggi? Non
ci sono cose più urgenti di cui parlare, la pace, o quel minimo di
giustizia nell’ordinamento del mondo, senza cui qualunque
riflessione sulla felicità sembra frivola? Queste, in sostanza, le
domande che di questi tempi mi sono state rivolte.
Mi sembra che il filosofo debba resistere a due tentazioni. La prima
è quella dell’accademismo. Tentare di superarla è accogliere una
delle ragioni ispiratrici di questo «festival», forse. Chiunque di
noi, qualunque sia la sua professione, ha il dovere di chieder(si)
ragione. Non solo di quello che accade, ma anche di quello che
ciascuno di noi fa, pensa, sente, in relazione a ciò che accade. La
filosofia, strumento di riflessione, è un bene comune. Il filosofo
deve tenerlo in efficienza, disponibile per tutti. Il suo primo
contributo non sarà altro che un gesto di incoraggiamento alla
riflessione, che egli rivolgerà a ciascuno: «Fermati. Rifletti».
Un gesto che è stato chiamato epochè, «sospensione» : non
tanto e non solo del giudizio, quanto del meccanismo
stimolo-reazione che vige già nelle meno ispirate fra le
conversazioni correnti, e che risulta magnificato in quelle «fatte
a caldo» su fatti drammatici come quelli che ci colpiscono in
questi giorni. Sorprendentemente, la meccanicità e opacità della
reazione emotiva - il cui segno è la cattiva retorica - accomuna in
questi casi troppo spesso l’uomo della strada (ma ce ne saranno?)
e il grande giornalista.
La seconda tentazione è quella della chiacchiera. Aggungere rumore
al rumore, pur di essere presenti al presente. Il filosofo dovrebbe
essere dotato di un profondo senso della realtà, ma non dovrebbe
confondersi con un opinion maker. A rigore, dovrebbe per mestiere
fare il contrario: disfare opinioni, là dove appunto sono solo
tali: infondate. Essendo alla ricerca piuttosto di conoscenze -
cioè di opinioni vere e fondate.

Come si sfugge a queste due tentazioni? Applicando anzitutto a se
stessi il gesto che incoraggia alla filosofia: fermati, rifletti.
Rompendo il meccanismo stimolo-risposta. Nel nostro caso, lo stimolo
è la domanda che ci rivolgono: come è possibile parlare di
felicità, oggi? L’immediata reazione consisterebbe nel dare per
scontato quello che la domanda presuppone, che insomma sappiamo cosa
intendere per «felicità». E nell’affrettarsi a rispondere,
cercando buone ragioni per parlarne o per non parlarne.
Invece l’interruzione filosofica del meccanismo consiste in due
mosse : la prima è prendere sul serio la domanda, ogni domanda.
Darsi tutto il tempo di ascoltarla e riascoltarla. La seconda nell’evitare
di dare per scontato che sappiamo ciò che intendiamo con una
parola,e provare a dirlo.
Prendere sul serio la domanda. Nessuno mi è venuto a chiedere, ad
esempio: è ancora possibile l’allegria? il buonumore? il piacere?
Avremo ancora qualche buon momento? C’è un senso, implicito,
della domanda che non si lascia catturare sostituendo «felicità»
con questi altri termini, e in generale la riduce a una domanda
sciocca, o di cattivo gusto. Ad ascoltare bene la domanda ci si
accorge invece che, dato uno scenario apocalittico, qualcosa sembra
messo in questione: e precisamente una possibilità implicitamente
sentita come essenziale (attenzione, solo in quanto possibilità)
alla condizione umana, che viene chiamata «felicità ».
Essenziale, un po’ come il cielo, che è contenuto in ogni
paesaggio. La domanda ci chiede allora se uno scenario apocalittico
può modificare la condizione umana essenzialmente, come «togliendo
il cielo al paesaggio».
Ora, uno scenario apocalittico non è cosa di oggi o di ieri. L’intera
storia umana ne è costellata. Ma per sapere allora se c’è o no
un’essenziale possibilità umana che gli scenari apocalittici
mettono forse in questione, qualcosa che la storia (ma in verità
anche la natura, il caso, la nostra individuale fragilità e
finitezza) minaccia costantemente di ridurre a un’utopia, eppure
qualcosa che sembra, a quanto pare, stare a cuore a ciascuno, e che
viene chiamata «felicità», ebbene, dobbiamo proprio capire meglio
che cosa possiamo intendere con questa parola. Quale specie di
possibilità essenziale della nostra condizione.
Quello che non è
Credo che la grande tradizione greca ci aiuti a mettere a fuoco ciò
che intendiamo ancora dire. Il nome greco di «felicità» è eudaimonia.
La parola allude al buon demone che governa la persona felice. Che
vuol dire, questo?
Forse possiamo meglio afferrarlo cercando di dire anzitutto cosa la
felicità non è. Cominciamo ad escludere candidati molto naturali,
in apparenza. Diciamo in primo luogo che non è uno stato d’animo.
O, più in generale, uno stato emotivo. Benché sia certo in
relazione con tutti i possibili stati emotivi. Vediamo.
Invece della parola corrente «stato d’animo», usiamo un concetto
un po’ artificioso, ma più generale: vissuto della sfera
affettiva, o emotiva. In questo campo vige oggi fra i filosofi una
gran confusione e un singolare appiattimento terminologico, anche
rispetto al linguaggio comune. Cerchiamo di differenziare quindi al
meglio possibile le specie di questo genere, seguendo le distinzioni
che linguaggio e senso comune ci consentono di fare. Dunque la
felicità:
a) Non è uno qualunque degli infiniti piaceri dei sensi, che sono
cosa ottima e gradita, ma, lo sappiamo bene, possono coesistere con
una condizione profondamente infelice. A volte li si va a cercare
per fuggire un confronto con se stessi o le circostanze, altre volte
si constata quanto il loro puntuale bene non incida sulla condizione
in cui ci si trova se è negativa - angoscia o noia restano tali
anche dopo un buon pranzo. Uno stato d’animo positivo potrà
invece, a seconda dei casi, esserne intensificato o no. Lo stesso
può dirsi delle sensazioni vitali complessive : il benessere ad
esempio, il senso di freschezza e salute.... Sappiamo bene che la
felicità può ben coesistere con la stanchezza, la spossatezza, e
perfino il dolore fisico.
b) Non è uno stato d’animo in senso proprio o un umore, come la
serenità, o l’allegria. Può nutrire stati d’animo
lieti, ma può anche coesistere con i loro opposti, ad esempio la
preoccupazione, l’ansia per una prova da superare. Può
resistervi. In generale, toglie peso e potere sulla nostra
vita agli stati d’animo e alle loro fluttuazioni. La felicità
stabilizza.
c) Non è un’emozione, vale a dire una risposta involontaria a
eventi e situazioni dotati di una qualche importanza vitale: come
una gioia, un’improvvisa speranza, l’accendersi dell’entusiasmo,
l’esultanza che fa danzare, un profondo godimento estetico. Non
coincide con nessuna di queste emozioni, e non ha il suo contrario
nelle emozioni negative: tristezza, sconforto e paura, abbattimento,
e così via. Benché certamente tutte le emozioni la riguardino, in
ultima analisi : a titolo di promessa, annuncio, minaccia.
d) Non è un sentimento, cioè una disposizione del sentire che sta
alla base di stati d’animo ed emozioni, e comporta un consentire
più o meno profondo all’essere di ciò che lo ispira, o un più o
meno profondo dissentire da questo. Non è un sentimento,
benché sia indubbiamente nutrita dai sentimenti positivi -
amore, amicizia, gratitudine, rispetto, stima, benevolenza,
venerazione - e li alimenti a sua volta; mentre senza dubbio inibisce
quelli negativi, l’odio, l’invidia eccetera.
e) Non è una passione, ovvero una piega profonda, un abito del
volere, un suo concreto profilo, che può determinare un destino,
una vita, come ad esempio l’ambizione, la brama di potere, la
passione di verità o di giustizia. Benché ogni passione sia a suo
modo un’interpretazione di un desiderio di felicità che sembra
pervaderci dalla nascita alla morte. E benché la felicità
intrattenga indubbi rapporti con le passioni: è cioè compatibile
solo con quelle cui va il nostro consenso mentre è
incompatibile con quelle che ci mettono in conflitto con noi
stessi. Sul fenomeno del conflitto bisognerebbe fermarsi a lungo a
meditare, in rapporto alla felicità.
Già questo solo dato, l’uomo, a differenza di tutti gli altri
animali, puo’ entrare in conflitto con se stesso, può dissentire
aspramente con se stesso, e deve prendere posizione in questo
conflitto, sembra mettere fuori gioco ogni caratterizzazione
biologica, etologica e sociologica della felicità. Perché la
possibilità di non consentire alla propria vita, qualunque
sia lo stato di soddisfazione dei bisogni vitali, lo stato di
adattamento e di gratificazione sociale, è data a ciascuno di noi.
Né è in nostro potere essere felici se non consentiamo a noi
stessi, o consentirvi se non siamo felici.
La felicità dunque non è alcuno dei vissuti della sfera affettiva,
nelle loro diverse categorie. Ma tutti questi vissuti la
riguardano. Come ? Tutti questi vissuti hanno certamente una
valenza positiva o negativa, sono piacevoli o spiacevoli, ci fanno
sentir bene o male - sono «felici» o no. Eppure la felicità non
si riduce al polo positivo dell’affettività. Infatti non è
dalla parte dei vissuti stessi, ma di ciò che essi annunciano. Non
è essenzialmente un modo del sentire, ma è dalla parte della cosa
sentita. La felicità è ciò che è in questione dovunque ci
sia una vita affettiva personale. È la cosa che gli affetti
segnalano assente o presente, vicina o lontana, a venire o perduta.
Fu definita come ciò che ciascuno desidera.
E questa fu una mossa assai importante in filosofia, che colse certo
una verità perché non possiamo negare questo paradosso: la
desideriamo, anche se non siamo certi di sapere cos’è, o se c’è.
Fu però anche una mossa che orientò in un modo estremamente
unilaterale lo studio degli affetti - stati di corpo e d’animo,
umori, emozioni, sentimenti, passioni - privilegiando a lungo, e
fino ad oggi, il desiderio sul sentire nell’analisi
e spiegazione della vita affettiva.
Un tentativo di definizione
Riassumendo: abbiamo finora provato a dire che cosa la felicità non
è. Non è alcuno degli affetti, eppure, abbiamo detto, è ciò
che è in questione in tutti gli affetti. Così come ogni
paesaggio include un cielo. Preferiamo questa formula - e questa
immagine - alla ben più classica, agostiniana definizione negativa
: ciò che nessuno possiede, e ciascuno desidera.
Ma per precisare questa vaga formula, «in questione», dobbiamo
procedere e provare a dire che cos’è. Lo anticipiamo con un’altra
formula, troppo breve: la felicità non è uno stato d’animo, ma
una condizione oggettiva. Reale.
Da cosa lo si vede ?Affidiamoci dapprima ai suggerimenti impliciti
nel linguaggio comune. Felice può essere una cosa, non
necessariamente una persona. Una cosa felice, è una cosa
riuscita. Un discorso, ad esempio. Un’impresa, una prova.
Riuscita, o adeguata, conforme al suo scopo: un’espressione è
più o meno felice. Riuscita o adeguata al suo fine, ma non solo:
felice è, in un senso ulteriore, una cosa che ha il potere di
infondere vita, di «ricreare», di fare attingere anche a noi,
anche per poco a una condizione d’essere più piena, più
perfetta. In cui ci sentiamo «più vivi».
Felice in questo senso può essere un incontro, ma questo potere
delle cose felici può averlo una sonata perfetta, un bel verso, o
anche solo un paesaggio, una casa di campagna. È il potere di
risvegliare in noi una possibilità d’essere che è
essenzialmente nostra, di attivare in noi un più profondo consenso
all’essere e anche a ciò che siamo. Una quiete accesa, un consentire:
a cosa? A una pienezza d’essere che anche nel nostro
caso chiamiamo felicità. Una nostra possibilità d’essere che è
sempre là, alla quale sarà forse dato ritornare. Come «è sempre
là» un luogo amato, un’opera, un paesaggio.
Così, si dice, le gioie sono molte, ma la nostra felicità è
sempre una, simile a se stessa. Così, le gioie vanno e vengono con
gli eventi, ma la felicità non va e viene: siamo noi a decadere,
magari irreversibilmente, da questa condizione. Una cosa
felice è in effetti una cosa che attinge a una pienezza d’essere
- e a una vocazione a permanere - che fra i viventi è sempre
minacciata.
«Felicità», nel senso che qui abbiamo dato a questa parola -
traduce la parola greca eudaimonia, una della parole centrali
della filosofia greca antica e poi di quella che Padri e Dottori
cristiani nutrirono, oltre che della loro nuova vita, della fonte
antica. Se la « riuscitezza » è idea profondamente greca, se la
cosa perfetta, o felice, « muove » altro suscitando amore e vita,
senza veramente «donarla», il potere di far vivere può intendersi
come potere propriamente creativo del felice solo in base a
questa nozione nuova, non greca, di creazione: idea centrale
di una teologia che non è quella di Aristotele.
Ma noi ora lasciamo perdere la storia delle idee e tentiamo una
definizione della cosa, per provvisoria e imperfetta che sia.
Felicità è la condizione che rende una cosa più conforme alla sua
essenza. O, se non si ama questa parola, che la fa pienamente esser
se stessa.
La « bontà del suo volto » e l’impersonalità del male
Vediamo le conseguenze di questa definizione. C’è anzitutto una
conseguenza che ha un’aria paradossale, ma si tratta di un
paradosso illuminante. Una cosa felice è una cosa che fa bene, e in
questo senso è una cosa buona. La condizione felice è una
condizione buona, non solo nel senso della «riuscitezza» o
perfezione, ma anche nel senso della vita che suscita, del bene che
diffonde. Un essere felice è in mano al proprio demone (è
«conforme alla sua essenza»): ma il proprio demone è un buon
demone. Come può esser vero questo in generale ?
Se si vuol dare alla nozione di felicità il suo vero senso, bisogna
guardare con attenzione e fino in fondo. Dovunque veramente riesca
a vivere, di noi, ciò che di noi è unico, là fiorisce la buona
vita, che non solo ha, ma dona felicità, o ne dona più di
quanta ne prenda. Il caso ovvio, quello a cui siamo più abituati,
è quello dell’artista: che può essere benedetto o «maledetto»,
ma se è vero ed è lui, lascerà più ricco il mondo che ha
trovato. Non c’è dubbio che qui unum, verum, bonum
convertuntur!
Ma c’è anche un argomento a contrario. C’è una
formula che Hannah Arendt applicò al caso di un noto funzionario
nazista, Eichmann, nel quadro di un reportage sul suo processo,
svoltosi a Gerusalemme. La formula della banalità del male. Vale
a dire, in effetti, della sua atroce impersonalità. Quello
che più sconcerta nella fenomenologia di quell’individuo è
precisamente il vuoto «interiore», l’assenza di sé. Questo
personaggio incapace di parlare se non per clichés, incapace di
sentire la differenza di peso fra strage degli innocenti e il
proprio benessere di funzionario obbediente. Ma Eichmann non era né
un idiota né un uomo necessariamente dotato di minor personalità,
poniamo, di Hitler.
Il punto cruciale è proprio questo. La mostruosa ipertrofia del
lato appetitivo, pulsionale e reattivo della personalità ridotta
a zero nella dimensione del sentire, dove ciascuno di noi misura
ciò che più profondamente e ciò che meno profondamente lo tocca e
lo commuove, e felicemente consente all’esistenza e identità
di un altro. In questo felice consentire, che noi chiamiamo amore, e
solo in esso, «vive», con la sensibilità ai valori e alla loro
differenza di rango, con il più e il meno di ciò che ci sta a
cuore, il «cuore» stesso, l’essenza individuale di ognuno.
Così che veramente si può dire infine che sempre il proprio demone
si risveglia nel consenso, nel riconoscimento e nella
riconoscenza nei confronti di un altro, e della sua esistenza: e
sappiamo bene che nulla è più segretamente elettivo, più
intimamente proprio di un amore, quale ne sia la forma, nulla ci fa
sentire vivi e prossimi a sé, finalmente capaci di consentire anche
a sé, come questo profondo consenso ad altro da sé. Ad alcuni
questo risveglio non è concesso, non è concesso l’unico modo di
salvare sé, che è di felicemente perdersi nella riconoscenza
per altro, crescendo nell’approfondire la conoscenza di questo
altro e in essa fiorendo.
Noi sappiamo che Hitler era fra l’altro un pittore fallito, un
«imbianchino». La sensibilità che si ritrae dal valore
dell’altro: questo è l’odio, il moto contrario a quello dell’amore,
è il moto infelice che ci riduce e ci uniforma ai
livelli impersonali del sentire (là dove l’ideologia e la
retorica hanno presa) rendendo inaccessibili al sentire e al
conoscere le sfere di valore che l’odio rifiuta. L’odio è il
disconoscimento di identità dell’altro, che spegne il doloroso
dissenso con se stessi nell’atrofia del cuore, nell’indifferenza.
E allora inevitabilmente un simulacro d’identità verrà a
piantarsi sopra il vuoto di sé, dando luogo al fenomeno dell’esteriorizzazione
uniforme.

Certo, questo fenomeno, che è anche espressivo e simbolico -
bandiere, emblemi - corrisponde a un livello dell’identità
personale, l’identificazione alla comunità di appartenenza e alla
sfera di valori che la costituisce. Anche l’amor di patria è cosa
buona quando è cosa vera, radicata nel proprio essere, memoria,
lingua, cultura, tradizione. Che questo livello di identità
personale che è l’appartenenza comunitaria non sia assolutamente
il più profondo, è di per sé evidente: nessuno è essenzialmente
e solo, poniamo, «un tedesco» o peggio «un occidentale». Ma non
è certo questa sentita appartenenza, la maschera al posto del
volto. Perché l’«identità di uniforme» si trasformi nel
sentimento identitario « ultimo », perché si produca questa
terribile illusione, fonte di tragedie personali e storiche, occorre
già che l’adesione non venga da un pieno ma da un vuoto, non si
fondi sulla fioritura di un’intima felicità d’essere ma sul
cemento identitario dell’odio, non sulla spontaneità sorgiva dell’esser
sé ma sul reattivo disconoscimento di identità altrui, il
cui inquietante pronome personale è sempre e solo Noi. Ecco perché
un profondo dissenso si leva entro alcuni di noi nei
confronti di chi, semplice opinion maker, si arroga oggi
facoltà di imporre, a mo’ di guerresco ultimatum, un’identità
di uniforme come ultima e intima sostanza di «noi», e barbaro chi
non ci sta. No, in questo senso non siamo «tutti americani».
Ma, prendendo un po’ di distanza dall’attualità che pure non
può in certi momenti mancare di toccarci, il punto è che l’intuizione
della banalità del male non fa che prolungare nel Novecento l’antica
(e platonica, in effetti) intuizione del male come deficienza d’essere,
infelice incompletezza di vita, dolente e risentita impotenza a
fiorire, a divenire sé, a diffondersi e creare. Il male, infine, è
la vendetta di non esser niente: vendetta che sarà, quanto più
terribile, tanto più anonima e brutale. Il terrorismo non ha volto:
non lo ha per questa ragione metafisica. Tutte queste proposizioni
sono sono conseguenze, a nostro parere vere, della definizione «
ontologica » di felicità che abbiamo proposta. Come lo è la
seguente.
Se il male viene dall’infelicità, ovvero dal non essere, allora
ecco la proposizione che dovrebbe dissipare tutti gli equivoci dell’eudemonismo
morale. Solo il felice è buono. Ma poiché la felicità in questo
senso è un limite inaccessibile alla nostra finitezza, questa
affermazione equivale probabilmente a quest’altra: solo Dio, se c’è,
è giusto. Eppure questo valore di proposizione limite non dovrebbe
impedire di orientarci, anche eticamente, in terra: la felicità non
è premio alla virtù, né fine dell’agire bene (ecco l’equivoco
della sua caratterizzazione come «ciò che ognuno desidera»). La
felicità non sta alla fine dell’agire bene, e neppure sta nell’agire
bene come tale. La felicità sta all’origine dell’agire
bene, ne è l’origine. Per questo è grandissimo il merito
di chi, soltanto ricordandosi della felicità che non possiede, ed
onorandone la possibilità e l’esistenza, agisce, nondimeno, bene.
Io non so se un tale uomo, essendo solo un uomo, stia eticamente un
gradino al di sotto o un gradino al di sopra del santo. Che
è, senza dubbio, un felice.
C’è infine un’ultima conseguenza, che è in realtà la prima
verità per noi, o dal punto di vista dell’evidenza di cui tutti
disponiamo. La felicità, anche la nostra, ha sempre il volto di
qualcuno, ha sempre un nome proprio. L’inferno comincia ad aprire
le sue porte proprio sui vasti campi dell’imitazione, dell’invidia
mimetica, del volere avere, fare ed essere come gli altri dove il
desiderio o l’appetire suscita nei confronti degli altri
precisamente il contrario del felice consentire che è il
riconoscimento d’amore. L’invidia appunto, la gelosia e al
meglio, ma un meglio che ha certamente più valore economico che
morale, l’emulazione. È la ruée, l’ora di punta del
desiderio infelice, e la stazione dove tutti scendono ci è ben
nota. L’infelicità é la cosa più anonima e massificata
che ci sia. E’ la trista, diabolica maschera dell’Uguaglianza.
Fenomenologia dell’infelicità. Il risveglio del buon demone
Ma tutti, un po’, la conosciamo. Ed è allora proprio partendo da
quanto ciascuno conosce, che possiamo finalmente chiarire e
precisare in che senso la felicità è in questione in tutti
gli affetti, o quale sia il suo rapporto agli affetti.
Il contrario della felicità non è la tristezza, la sofferenza, il
dolore, perfino l’angoscia. No: ma l’apatia, l’indifferenza,
l’analgesia, l’aridità. Sono questi i tratti del
volto anonimo dell’infelicità. L’infelicità è il non
essere affettivo, il vuoto degli affetti, il grado zero del sentire.
O meglio, del sentire personale, di quel sentire in cui ci
si sente vivi. Non a caso un ultimo, ben noto paradosso è che
dell’apatia, dell’indifferenza, dell’aridità ci lamentiamo,
come fosse un dolore. Ma è peggio che un dolore, è il grado zero
della vita, è il non essere di un sé nel fastidioso vigere di
tutte le funzioni vitali, è una ben nota specie di morte, quella
dei morti viventi.
Quando, infatti, un poco di sollievo è dato a questa morte che si
lamenta ? Molto frequentemente, quando la serietà del reale ci
costringe a renderci conto di essere ancora capaci di un dolore
profondo, puro, non misto di amor proprio, risentimento, invidia,
desiderio insoddisfatto e altri starnazzamenti di un io che affoga.
È allora che si risveglia, certe volte pura possibilità, puro
cielo sul paesaggio, l’eudaimonia. È allora che torna in questione.
La felicità è la capacità di provare dolore, adeguatamente, a
causa di quello che ci sta più o meno a cuore, potendo ancora
consentire all’ordine delle cose che ci stanno a cuore: a
quello stesso che ci espone a sofferenze possibili. Questo ordine di
preferenze di valore, consentendo al quale confessiamo la nostra
identità profonda, noi lo chiamiamo senso. E infatti nulla
mette a più dura prova la felicità possibile che il dolore privo
di senso, il dolore assurdo. Se la felicità è una
possibilità ontologica della persona capace di sentire, è una
possibilità ontologica estremamente fragile. Fragile quanto l’esistenza
degli altri, quelli da cui dipende il senso della nostra, e i nomi
propri della nostra, ciascuno dei quali è come il segnaposto di un
universo di valori. Un’esistenza che, tuttavia, se ha avuto luogo,
se ha avuto senso, la morte può non cancellare.
La felicità è più in generale la piena attivazione, il vigere
dalla superfice all’estrema profondità, di tutti gli strati del sentire
che ci costituiscono. Non è questo il luogo per sviluppare la
teoria fenomenologica degli strati di profondità del sentire, cui
corrisponde la maggiore o minore importanza di un piacere o di un
dispiacere, di una gioia o di una pena, insomma dell’intimo ridere
o piangere che sempre al sentire si accompagna. La gioia di capire
Platone ha certamente su alcuni più peso e potere di motivazione,
quindi più forza di coinvolgimento della persona in scelte,
decisioni e azioni, di quanto non ne abbia il piacere di un buon
pranzo. E la felicità è anche, certamente, il potere di agire
secondo l’ordine di priorità, o di importanza vocazionale di un
sentimento di valore.
Molto felice è chi ha avuto la fortuna di avere la sua passione per
mestiere. È veramente un segno della confusione filosofica e morale
che impera in certi campi della vita contemporanea, che la misura di
«felicità» o «riuscitezza» venga calcolata in soldi, che sono
invece una delle misure del successo, ovvero di una cosa
totalmente diversa. Per fortuna in questo campo non siamo ancora «
tutti americani ». Neanche loro.
La luce e il riso. La parola ai poeti
Vorrei concludere queste riflessioni lasciando la parola ai poeti, e
facendoci guidare da loro verso una sia pur iniziale comprensione
dell’idea tenacemente sostenuta ma finora solo fenomenologicamente
argomentata in queste pagine: la felicità come possibile condizione
ontologica.
Ecco Dante in Paradiso, XXVII, 4-5 :
Ciò ch’io vedevo mi sembrava un riso
de l’universo; per che mia ebrezza
intrava per l’udire e per lo viso.
Questi sono certamente alcuni versi felici. Come felice è l’immagine
centrale: il riso dell’universo. Il riso è espressione
umana (principalmente, e comunque in Dante, dove la parola vale
spesso «sorriso») di letizia. Ma la metafora è tanto corrente
quanto antica. La troviamo già in Omero e in Eschilo, quando
Prometeo incatenato contempla il «sorriso innumerevole del mare».
Quando un raggio di luce ravviva un paesaggio, «animandolo»
o accendendolo di splendore e riflessi scintillanti, questo ci fa l’effetto
di un sorriso della natura. E questo dovrebbe meravigliare il
filosofo. Come mai questo accade, in fondo
Cosa succede quando un raggio di luce ravviva un paesaggio ? Niente
di nuovo, in fondo. Niente si vede che non si vedesse anche prima.
Eppure ogni cosa appare come rinnovata o rianimata, esaltata nella
sua natura. Appare più intensamente se stessa. Questo è l’effetto
della luce.
Non è affatto per caso, dunque, che noi associamo la felicità allo
splendore, che fa apparire ogni cosa più conforme alla sua essenza,
più simile a se stessa. Così come associamo il buio alla
condizione contraria, a un modo del non-essere. Il buio infatti
cancella le cose o le riduce all’ombra di se stesse, il buio
inoltre ci blocca, ci inibisce sensazione e movimento, ci paralizza.
Ancestralmente, è presagio e annuncio di morte, e non c’è
bambino che non ne abbia paura. Questo, con sguardo di bambina,
limpidissimo e profondo, ha visto Margherita Guidacci (ma perché
ancora è così malnota questa grande petessa del Novecento?) in una
delle poesie della sua ultima raccolta, che si intitola appunto Il
buio e lo splendore. La poesia è una sorta di inno ad Apollo,
cioè alla luce. Di che cosa, omericamente, lo loda e ringrazia ?
Rocce, piante, animali e acque, tutto
ridiviene se stesso, ritrovando
in te colore e forma, poiché tu
nuovamente ci crei per traversare
un nuovo giorno...
Come la luce le cose, così la felicità ci ricrea, rendendoci a noi
stessi. Ma come la luce, questa condizione non è in nostro potere
suscitarla. La luce elettrica non fa lo stesso effetto, sulle cose.
C’era un senso, infatti, a chiamarla eudaimonia. Nessun
uomo comanda a un demone, fosse pure il suo.
Conclusione all’ottativo
Ci sono momenti in cui è giusto e bello lasciare l’ultimo
sorriso, con l’ultima parola, alla felicità estetica. Ma ce ne
sono altri - e quello che viviamo è uno di questi - in cui l’infelicità
morale preme per aver voce, voce di preoccupazione o addirittura di
angoscia. O forse, dopo lunga riflessione, voce di desiderio.
Che a ogni identità, che a ogni singolarità, che a ogni unicità
sia consentito vivere. Che ogni singola vita, ma anche che ogni
singola tradizione e cultura possa fiorire nella sua unicità, nel
suo esser sé, nel suo buon demone. Nulla è contrario alla
possibilità di felicità di noi tutti e di ciascuno - alla nostra
possibilità di essere, e pienamente, ciascuno su questa terra,
insieme agli altri - quanto la violenza che nega il demone altrui e
ne fa un demonio, ma ancor prima, la violenza che umilia l’identità
e l’esistenza dell’altro, che lo costringe a non esser più
nulla. Perché la vendetta del nulla, di chi al nulla è ridotto,
non può non essere terribile.
Chi è Roberta De Monticelli
Roberta De Monticelli insegna Filosofia moderna e contemporanea
presso l'Università di Ginevra dopo essere stata visiting
professor in varie università europee. I suoi attuali interessi
di ricerca sono orientati verso un'interpretazione della tradizione
fenomenologica e dei modelli antichi presenti nei testi
fenomenologici, in particolare Agostino. Tra le sue opere: L'ascesi
filosofica. Studi sul temperamento platonico (Milano 1995); La
conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia (Milano
1998); L'avenir de la phenomenologie (Paris 2001); Dal
vivo. Lettere a mio figlio sulla vita e sulla felicità (Milano
2001). Ha curato le Confessioni di Agostino (Milano 1990) e
l'antologia di testi fenomenologici La persona (Milano 2000).
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