Quante voci per domare le
nostre fragilità
Zygmunt Bauman con Elisabetta Ambrosi
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Questo articolo è apparso sul numero 68 (novembre-dicembre 2001)
di Reset .
Nel suo bel testo, Il teatro dell’immortalità. Mortalità,
immortalità ed altre strategie di vita, la ricerca della
felicità da parte dell’uomo è intesa come ricerca di
immortalità e di aspirazione alla permanenza: tuttavia, queste
ultime conducono spesso al rifiuto della fragilità della condizione
umana. Esistono allora “strategie di immortalità” che non siano
disumane? E se ciò non è possibile, come mettere la consapevolezza
dei nostri tragici limiti con la felicità (Ricoeur parla a
proposito di una costitutiva “tristezza del finito”)?
Credo che il rifiuto dell’accettazione della finitudine, della
brevità e della insignificanza della condizione umana sia la più umana
di tutte le caratteristiche della nostra specie, e che tutti gli
altri aspetti di tale specie seguano tale rifiuto. L’ ‘essere
nel mondo’ degli uomini consiste in un essere ‘davanti al mondo’,
cioè spinti da concezioni che non si accordano con il mondo così
come esso è, e lottando con tutte le proprie forze perché il mondo
si avvicini quanto più possibile ad esse. Trascendere i limiti
invalidanti posti dalla mortalità umana costituisce proprio una
delle concezioni suddette - la più audace ed eroica, che è anche l’archetipo
di tutte le altre forme di trascendenza - un modello dal quale tutte
le altre derivano

Come è possibile essere insieme coscienti dei
nostri tragici limiti e felici? Dall’ ‘essere coscienti’ non c’è
fuga, ma ci sono due strade principali attraverso cui ciò può
essere fatto convivere con la felicità. Si può ‘disinnescare’
il ‘veleno’, al quale la consapevolezza di tali “tragici
limiti” si accompagna, estromettendo quest’ultima dal centro
della nostra attenzione e vivendo la vita intera come una serie di
soddisfazioni che durano istanti - di cui la morte è solo la fine
della serie; oppure si possono sfidare i “tragici limiti” e fare
dell’arco della nostra vita uno strumento per infrangerli.
Entrambe le strade sono molto ricercate, e ogni cultura fornisce
beni che possano andare incontro a questa doppia richiesta.
Entrambe le richieste (e le offerte culturali che ad esse si
accompagnano) possono essere combinate insieme in proporzioni
diverse. Nella storia occidentale, è possibile distinguere tre tipi
di combinazioni. Nel mondo antico, l’accesso all’immortalità
era un questione di classe. Imprese, pensieri e virtù immortali
erano riservati a coloro che stavano in alto - ai plebei si
offrivano panem et circenses. Nel Medioevo cristiano, l’immortalità
era un destino per tutti, piuttosto che una condizione da
guadagnare: ma la felicità eterna - la salvezza piuttosto che la
dannazione - doveva essere guadagnata, e tale ‘risultato’ poteva
essere conseguito da ciascuno, indipendentemente dalla sua
condizione sociale.
Nella modernità la prospettiva dell’immortalità continuò ad
essere rivendicata per tutti: ma come immortalità personale
era riservata a pochi eletti, mentre una durata impersonale -
una sorta di ‘immortalità per delega’, attuata attraverso la
sopravvivenza collettiva - era ciò in cui il resto delle persone
poteva sperare. Ma come nell’epoca precedente, la vita terrena,
spaventosamente breve, costituiva l’unico lasso di tempo nel quale
la sorte delle cose eterne veniva confrontata e decisa - il che
faceva sì che la brevità della vita fosse trasformata da una
maledizione in una grande opportunità e in un veicolo dell’unica
felicità che veramente contasse.
Ai nostri giorni sembra che stiamo ritornando alla formula del panem
et circenses. Come l’acuto critico Neil Postman
appropriatamente ha scritto - “ci intratteniamo fino alla morte”
(we entertain ourselves to death); e cioè ci intratteniamo
finché la morte non pone fine a tutte le angosce dalle quali i
divertimenti costituiscono una via di uscita.
In Le sfide dell’etica, lei ha invocato una nuova forma
di responsabilità che non faccia perno sulle prescrizioni: ma dove
trovare le risorse per essere responsabili per l’altro (e al tempo
stesso felici)?
L’impulso a prendersi cura di un altro essere umano non è un
prodotto culturale e sopravvive anche nelle più drastiche ‘fluttuazioni’
culturali. All’interno della prospettiva “liquida” della
modernità l’esercizio della responsabilità verso l’Altro (o
gli altri) non fornisce più un ancoraggio in direzione di una
durata che sia più lunga della vita. La ‘banconota’ costituita
dalla prontezza a prendersi cura degli altri tende ad essere
scambiata con una manciata di piccole monete, ossia da brevi
incontri casuali, che come altri fugaci svaghi cercano di sopprimere
la memoria delle “cose eterne”, piuttosto che essere sviluppati
nel tentativo di servirle e ottenerle. A differenza della banconota,
gli spiccioli sono per un uso immediato; il loro potere di acquisto
è piccolo, e viene speso senza pensarci troppo e senza alcun
rimpianto.
La nostra è una società globalizzata. Non crede che il
sentimento di una insicurezza corrosiva - che noi fronteggiamo
quotidianamente - possa condurci direttamente all’impotenza e alla
frustrazione, e così all’irresponsabilità? Cosa possiamo fare
per sostenere psicologicamente la sensazione di perdere il
controllo, e al tempo stesso non ricadere nella nevrotica ricerca di
stabilità? In altre parole: come rimanere coscienti dei propri
limiti, in un mondo che ha spazzato via ogni limite
spazio-temporale?
Non lavoro nell’ambito del counseling business: come
sociologo, cerco di comprendere le condizioni nelle quali i miei
compagni umani vivono le loro vite, il modo in cui cercano, nel bene
e nel male, di far fronte a queste condizioni, e, in maniera più o
meno cosciente, di cambiarle nel tentativo di fronteggiarle. Come
sociologo, non posso andare oltre a ciò, altrimenti avrei false
pretese.
Credo tuttavia che la convinzione più invalidante (una di quelle
che dovrebbe essere sconfessata subito) è l’idea che non ci
sia altra alternativa; che la nostra storia abbia raggiunto la
sua fine con l’attuale forma di globalizzazione, evidententemente
unilaterale Al contrario, possiamo fare molto, se ripudiamo la
credenza per cui ognuno di noi è abbandonato alle sue risorse; e se
cerchiamo onestamente di costruire agenzie etico/politiche sulla
stessa scala delle forze economiche extraterritoriali, globali.
Questo è l’unico rimedio (almeno l’unico a lungo termine) all’
“impotenza della frustrazione” che viene giustamente segnalata
come uno dei più grandi pericoli del nostro tempo. Non ci sono
soluzioni veloci, tagli facili e iniezioni istantanee, e soprattutto
non ci sono “soluzioni biografiche” all’incertezza e alla
insicurezza, che hanno radici nei sistemi e che, in quanto tali,
possono essere affrontatate solo collettivamente.
Una globalizzazione incontrollata (sia a livello politico che etico)
è la prima causa di molta sofferenza umana. Grazie all’istantaneità
e alla completezza dell’informazione, noi siamo tutti testimoni di
tale sofferenza - siamo tutti dei ‘testimoni oculari’ ora. La
moderna tecnologia ci consente anche una azione virtualmente
instantanea, relativamente non limitata dallo spazio. Tuttavia,
finora c’è un flebile collegamente tra ‘tele-visione’ e ‘tele-azione’.
La trasformazione dei testimoni solitari in attori collettivi è la
sfida etica del nostro tempo, e il compito più arduo.
É senz’altro vero che sia i valori che durano sia la non fissità
(cioè sia la sicurezza sia libertà, per capirci) sono qualità di
vita egualmente preziose, e che non è affatto piacevole né
particolarmente deisderabile sacrificare uno per la salvezza dell’altro.
Ed è altrettanto vero i due aspetti non sono facili da conciliare.
Non riesco a pensare ad una risoluzione perfetta dell’antinomia.
Possiamo solo cercare un ‘assestamento’, una combinazione dei
due, precaria e manifestamente non del tutto soddisfacente, e
comunque mai definitiva e sempre revocabile.
Per concludere: come la politica può rispondere a queste
contraddizioni? Ci sono ‘strategie politiche per la felicità’
(o questa espressione deve essere considerata contraddittoria)? Come
trovare quella “gioia dell’agire” di cui parla Hannah Arendt,
cioè la gioia di agire insieme, senza ricadere nella tentazione dei
comunitarismi e evitando i rischi del liberalismo ‘atomistico’?
Non creda ai politici quando le promettono la felicità. Ciò va al
di là del loro potere, e, a pensarci bene, non c’è da sperare
che essi abbiano tale potere. Ciò che la politica può e dovrebbe
fare è costruire, servire e proteggere un assetto sociale nel quale
la ricerca umana della felicità non sia ostacolata. La politica è
un processo di continua traduzione tra problemi private e questioni
pubbliche. Quando questa traduzione si arresta (come succede oggi),
né le istanze pubbliche (cioè la ricerca di un assetto favorevole
al perseguimento della felicità) né i problemi privati (cioè la
cura delle sventure sofferte individualmente) possono essere
soddisfatti e risolti.
Come ripristinare, restaurare la “gioia dell’agire (condiviso)”
ormai perduta? Non credo che ci sia un formula a prova di tutto, ma
solo un metodo basato su tentativi ed errori. Le trappole del
tribalismo sono vere, come lo sono quelle della ritirata nei rifugi
e nelle fortezze private. Non ci siamo mai trovati in questa
situazione prima d’ora: la globalizzazione può sembrarci una
maledizione, una sciagura, ma potrebbe anche rivelarsi una
benedizione, un vantaggio. La globalizzazione mette all’ordine del
giorno la grande opportunità di tutta l’umanità,e cioè
un essere insieme, una comunione che abbracci l’intera specie
umana e copra l’intero pianeta, la nostra casa comune. Solo quando
(e se) riusciremo ad afferrare questa opportunità, potremo evitare
sia la Scilla del tribalismo che le Cariddi dei diversi
individualismi del ‘non me ne curo’. Sembra che la strada sia
lunga. Ma non c’è altra via possibile.
Chi è Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman è professore emerito di Sociologia nelle Università
di Leeds e Varsavia. Da molti anni dedica i suoi studi
all'interpretazione della modernità e del passaggio all'epoca
post-moderna, di cui ha esaminato in chiave sociologica e culturale
alcuni aspetti fondamentali quali l'Olocausto, la dimensione
dell'incertezza e il processo di globalizzazione. Tra le sue opere: Modernità
e Olocausto (Bologna 1992); La decadenza degli intellettuali
(Torino 1992); La società dell'incertezza (Bologna 1999); Dentro
la globalizzazione (Roma-Bari 1999); La solitudine del
cittadino globale (Milano 2000); Liquid Modernity
(Cambridge 2000); The Individualized Society (Cambridge
2001); Voglia di comunità (Roma-Bari 2001).
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