Da Aristotele a Freud
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Da Aristotele a Freud
Questo articolo è apparso sul numero 68 (novembre-dicembre 2001)
di Reset.
“Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è,
manifestamente, un’affermazione su cui c’è completo accordo; d’altra
parte si sente il desiderio che si dica in modo più chiaro che cosa
essa è. Forse ci si riuscirebbe se si cogliesse la funzione dell’uomo.
Quale, dunque, potrebbe mai essere tale funzione? È manifesto
infatti che il vivere è comunque anche alle piante, mentre qui si
sta cercando ciò che è proprio dell’uomo. Bisogna dunque
escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe
la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente, comunque anche
al cavallo, al bue e a ogni altro animale.

"Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività
della parte razionale dell’anima. Se è così, se poniamo come
funzione propria dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa
attività dell’anima e le azioni accompagnata da ragione) e
funzione propria dell’uomo di volerla attuare bene e
perfettamente; se è così, il bene dell’uomo consiste in un’attività
dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una,
secondo la migliore e la più perfetta. Ma bisogna aggiungere in una
vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol
giorno: così un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o
felice.”
(Aristotele, Etica Nicomachea).
“Ti scongiuro, caro Lucilio, fa la sola cosa che può darti la
felicità: disprezza e calpesta codesti beni che vengono dal di
fuori, che ti sono promessi da questo o speri da quello; mira al
vero bene e gioisci di ciò che ti appartiene. Mi domandi che cosa
ti appartiene? Se tu stesso e la parte migliore di te. Mi chiedi che
cos’è questo vero bene, e donde ha origine? Te lo dirò: nasce
dalla buona coscienza, dai pensieri onesti e dal retto operare, dal
disprezzo degli avvenimenti fortuiti, dal sereno e costante sviluppo
di un’esistenza che batte sempre la stessa via. Infatti, coloro
che saltano da un proposito all’altro o, peggio, si fanno
trascinare da una qualunque circostanza, sempre incerti e vaganti,
come possono avere una condotta sicura e stabile?”
(Seneca, Lettere a Lucilio).
“In qual modo, dunque, ho da cercarti, o Signore? Io ti cercherò,
affinché l’anima mia viva. Chè il mio corpo vive della mia anima
e la mia anima vive di te. Quando io cerco te, che sei il mio Dio,
cerco la felicità. […] Lungi, o Signore, dal servo tuo che si
confessa davanti a te, lungi l’affermazione che qualunque gioia
costituisca la felicità. V’è, infatti, una gioia che non viene
concessa agli empi, ma a coloro che disinteressatamente ti onorano,
dei quali tu formi la gioia. E la felicità è, appunto, questo
gioire in te, di te, per te: questa e non altra.”
(S. Agostino,Confessioni).
“In assoluto non possiamo conoscere né la felicità né l’infelicità:
tutto si mescola nella nostra esistenza, non proviamo nessun
sentimento allo stato puro, non viviamo mai due attimi successivi in
un’identica condizione. In che cosa può dunque consistere la
saggezza umana o la strada che conduce alla vera felicità? Non si
tratta tanto di limitare i nostri desideri perché, se essi si
riducessero al di sotto di ciò che possiamo, una parte delle nostre
facoltà resterebbe inutilizzata e ci sarebbe così preclusa la
possibilità di godere con tutto il nostro essere. Il segreto è
diminuire l’eccesso dei desideri rispetto alle facoltà e di
raggiungere un equilibrio perfetto tra potere e volontà.

"Più l’uomo mantiene la condizione naturale, più è esiguo
il divario tra facoltà e desideri e, di conseguenza, minore è la
distanza che lo separa dalla felicità. Uomo, racchiudi la tua
esistenza in te stesso, e non sarai più infelice! Resta al posto
che la natura ti ha assegnato nella catena dell’essere e nulla ti
obbligherà ad abbandonarlo: non recalcitrare contro la dura legge
della necessità e non stremare, cercando di resisterle, forze che
il cielo non ti ha certo concesso per dilatare e prolungare la tua
esistenza, ma soltanto per conservarla come e quanto è stabilito.
La tua libertà e il tuo potere si estendono fino al limite delle
tue forze naturali e non oltre. Il resto non è altro che
schiavitù, illusione, costrizione.”
(Jean Jacques Rousseau, Emilio o dell’educazione).
“Nessuno riterrà tanto facilmente vera una dottrina, per il
semplice fatto che essa rende felici o virtuosi: salvo forse i cari
‘idealisti’, che vanno in sollucchero per il buono, il vero e il
bello e lasciano sguazzare nel loro stagno ogni sorta di variopinte,
goffe e paciose idealità. Felicità e virtù non sono argomenti. Ma
anche da parte di spiriti pensosi ci si dimentica volentieri che il
rendere infelici e il rendere cattivi sono contro-argomenti
altrettanto poco validi. Una cosa potrebbe essere vera pur essendo
dannosa al massimo grado: anzi, potrebbe perfino appartenere alla
costituzione fondamentale dell’esistenza il fatto che chi giunge
alla perfetta conoscenza incontri l’annullamento. È tuttavia
indubitabile che ai fini della scoperta di certe parti della
verità i malvagi e gli infelici si trovano in condizioni di maggior
vantaggio e posseggono una più grande probabilità di successo; per
non parlare dei malvagi che sono felici - una specie di uomini che
viene passata sotto silenzio dai moralisti...”
(Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male).
“Il programma del principio del piacere: diventar felici, non può
essere adempiuto; tuttavia non dobbiamo, anzi non possiamo,
desistere dagli sforzi di approssimarne in qualche modo l’adempimento.
[…] Si possono prendere strade diverse in questa direzione; o
mettere innanzi il contenuto positivo della meta: conseguire il
piacere, oppure il contenuto negativo: evitare il dispiacere. Per
nessuna di questa strade possiamo ottenere tutto ciò che
desideriamo. La felicità, in quell’acceazione ridotta in cui è
considerata possibile, è un problema dell’economia libidica
individuale. Non vi è qui un consiglio che valga per tutti; ognuno
deve trovare da sé il modo particolare in cui può essere felice.
Questa dipende da quanto reale soddisfacimento egli può aspettarsi
dal mondo esterno e fino a che punto egli è disposto a rendersi
indipendente da esso; infine, anche da quanta forza crede di avere
per modificarlo secondo i propri desideri. In questo riguardo la
costituzione psichica dell’individuo, al di là delle condizioni
esterne, sarà decisiva.”
(Sigmund Freud, Il disagio della civiltà).
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