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Questo articolo è apparso sul numero 68 (novembre-dicembre 2001) di Reset.

“Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un’affermazione su cui c’è completo accordo; d’altra parte si sente il desiderio che si dica in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe se si cogliesse la funzione dell’uomo. Quale, dunque, potrebbe mai essere tale funzione? È manifesto infatti che il vivere è comunque anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è proprio dell’uomo. Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente, comunque anche al cavallo, al bue e a ogni altro animale.

"Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima. Se è così, se poniamo come funzione propria dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell’anima e le azioni accompagnata da ragione) e funzione propria dell’uomo di volerla attuare bene e perfettamente; se è così, il bene dell’uomo consiste in un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta. Ma bisogna aggiungere in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice.”
(Aristotele, Etica Nicomachea).


“Ti scongiuro, caro Lucilio, fa la sola cosa che può darti la felicità: disprezza e calpesta codesti beni che vengono dal di fuori, che ti sono promessi da questo o speri da quello; mira al vero bene e gioisci di ciò che ti appartiene. Mi domandi che cosa ti appartiene? Se tu stesso e la parte migliore di te. Mi chiedi che cos’è questo vero bene, e donde ha origine? Te lo dirò: nasce dalla buona coscienza, dai pensieri onesti e dal retto operare, dal disprezzo degli avvenimenti fortuiti, dal sereno e costante sviluppo di un’esistenza che batte sempre la stessa via. Infatti, coloro che saltano da un proposito all’altro o, peggio, si fanno trascinare da una qualunque circostanza, sempre incerti e vaganti, come possono avere una condotta sicura e stabile?”
(Seneca, Lettere a Lucilio).

“In qual modo, dunque, ho da cercarti, o Signore? Io ti cercherò, affinché l’anima mia viva. Chè il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te. Quando io cerco te, che sei il mio Dio, cerco la felicità. […] Lungi, o Signore, dal servo tuo che si confessa davanti a te, lungi l’affermazione che qualunque gioia costituisca la felicità. V’è, infatti, una gioia che non viene concessa agli empi, ma a coloro che disinteressatamente ti onorano, dei quali tu formi la gioia. E la felicità è, appunto, questo gioire in te, di te, per te: questa e non altra.”
(S. Agostino,Confessioni).

“In assoluto non possiamo conoscere né la felicità né l’infelicità: tutto si mescola nella nostra esistenza, non proviamo nessun sentimento allo stato puro, non viviamo mai due attimi successivi in un’identica condizione. In che cosa può dunque consistere la saggezza umana o la strada che conduce alla vera felicità? Non si tratta tanto di limitare i nostri desideri perché, se essi si riducessero al di sotto di ciò che possiamo, una parte delle nostre facoltà resterebbe inutilizzata e ci sarebbe così preclusa la possibilità di godere con tutto il nostro essere. Il segreto è diminuire l’eccesso dei desideri rispetto alle facoltà e di raggiungere un equilibrio perfetto tra potere e volontà.

"Più l’uomo mantiene la condizione naturale, più è esiguo il divario tra facoltà e desideri e, di conseguenza, minore è la distanza che lo separa dalla felicità. Uomo, racchiudi la tua esistenza in te stesso, e non sarai più infelice! Resta al posto che la natura ti ha assegnato nella catena dell’essere e nulla ti obbligherà ad abbandonarlo: non recalcitrare contro la dura legge della necessità e non stremare, cercando di resisterle, forze che il cielo non ti ha certo concesso per dilatare e prolungare la tua esistenza, ma soltanto per conservarla come e quanto è stabilito. La tua libertà e il tuo potere si estendono fino al limite delle tue forze naturali e non oltre. Il resto non è altro che schiavitù, illusione, costrizione.”
(Jean Jacques Rousseau, Emilio o dell’educazione).

“Nessuno riterrà tanto facilmente vera una dottrina, per il semplice fatto che essa rende felici o virtuosi: salvo forse i cari ‘idealisti’, che vanno in sollucchero per il buono, il vero e il bello e lasciano sguazzare nel loro stagno ogni sorta di variopinte, goffe e paciose idealità. Felicità e virtù non sono argomenti. Ma anche da parte di spiriti pensosi ci si dimentica volentieri che il rendere infelici e il rendere cattivi sono contro-argomenti altrettanto poco validi. Una cosa potrebbe essere vera pur essendo dannosa al massimo grado: anzi, potrebbe perfino appartenere alla costituzione fondamentale dell’esistenza il fatto che chi giunge alla perfetta conoscenza incontri l’annullamento. È tuttavia indubitabile che ai fini della scoperta di certe parti della verità i malvagi e gli infelici si trovano in condizioni di maggior vantaggio e posseggono una più grande probabilità di successo; per non parlare dei malvagi che sono felici - una specie di uomini che viene passata sotto silenzio dai moralisti...”
(Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male).

“Il programma del principio del piacere: diventar felici, non può essere adempiuto; tuttavia non dobbiamo, anzi non possiamo, desistere dagli sforzi di approssimarne in qualche modo l’adempimento. […] Si possono prendere strade diverse in questa direzione; o mettere innanzi il contenuto positivo della meta: conseguire il piacere, oppure il contenuto negativo: evitare il dispiacere. Per nessuna di questa strade possiamo ottenere tutto ciò che desideriamo. La felicità, in quell’acceazione ridotta in cui è considerata possibile, è un problema dell’economia libidica individuale. Non vi è qui un consiglio che valga per tutti; ognuno deve trovare da sé il modo particolare in cui può essere felice. Questa dipende da quanto reale soddisfacimento egli può aspettarsi dal mondo esterno e fino a che punto egli è disposto a rendersi indipendente da esso; infine, anche da quanta forza crede di avere per modificarlo secondo i propri desideri. In questo riguardo la costituzione psichica dell’individuo, al di là delle condizioni esterne, sarà decisiva.”
(Sigmund Freud, Il disagio della civiltà).

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