Così la concepivano i greci
Antonella Astolfi
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Questo articolo è apparso sul numero 68 (novembre-dicembre 2001)
di Reset .
Nel mondo greco esistono molteplici tipologie di approccio al
problema della felicità. Ci sembra possibile rintracciarne
almeno tre, ben distinte fra loro e riconducibili alle
preoccupazioni metafisiche proprie dei rispettivi orientamenti
filosofici; un primo modello, di ascendenza stoica, consiste nel
considerare la felicità al negativo, come assenza di dolore e
libertà dalle passioni, in quanto il dominio di sé rappresenta il
presupposto indispensabile in vista dell’esercizio dell’attività
filosofica e del raggiungimento della verità.
Il legame fra verità e felicità è però esplicitamente stabilito
già da Platone, che connette l’essere felici alla contemplazione
dell’Idea di Bene e gli fornisce così un fondamento metafisico;
per Platone, dunque, la felicità non va confusa con la serenità o
con l’equilibrio interiore e comunque non consiste in uno stato d’animo
meramente soggettivo e indeterminato, ma va collegata con la
conoscenza del principio dotato di maggior pregio ontologico:
infatti, il Bene di cui parla Platone è un valore assoluto, un
parametro immutabile e, in quanto tale, non relativizzabile a
seconda del contesto sociale o della contingenza storica.

In questo senso, la felicità connotata
platonicamente è anzi astorica ed implica forti coloriture mistiche
perché si basa su una contemplazione della Verità come criterio di
giudizio assoluto rispetto a cui i singoli beni non sono che copie:
ora, dal punto di vista platonico le copie sono utili in quanto
suggeriscono il rimando all’Idea corrispondente confinata nell’Iperuranio,
ma restano pur sempre imperfette e, di conseguenza, suscettibili di
svalutazione rispetto al principio.
Anche per Aristotele la felicità risiede nella contemplazione: nel
decimo libro dell’Etica a Nicomaco, lo Stagirita la
definisce come “il fine delle cose umane” e la attribuisce all’uomo
libero nella sua capacità di esercitare la virtù, escludendo gli
schiavi proprio per il fatto che essi non partecipano di una vita
degna degli uomini. Subito dopo, Aristotele provvede a chiarire cosa
intenda per contemplazione e scrive che il contemplare si
accorda con la parte più alta e nobile dell’anima, l’intelletto;
inoltre, l’attività contemplativa è più continua di qualsiasi
altra azione, rende autosufficienti ed è mescolata al piacere,
come, d’altra parte, la felicità. Infine, lo Stagirita stabilisce
l’equazione fra contemplazione e felicità, sostenendo che gli
uomini dovrebbero comportarsi in accordo con la parte più divina
dell’anima e dunque, per diventare immortali, vivere secondo l’intelletto.
A differenza di Platone, però, Aristotele non concepisce l’attività
contemplativa in riferimento a un principio assoluto, fondativo e
fondante la conoscenza e la realtà e anzi introduce, nella sfera
pratica, il concetto di circostanzialità dei beni,
riconoscendone implicitamente la pluralità. Quest’operazione è
funzionale a costituire una società felice, intesa come livello
intermedio e tramite verso la contemplazione propriamente detta; in
questo senso si potrebbe leggere anche l’affermazione aristotelica
secondo cui la felicità non è una disposizione perché, se così
fosse, apparterrebbe automaticamente anche a chi dorme per tutta la
vita, vivendo alla stregua delle piante.
Con questa frase, Aristotele potrebbe voler dire che la felicità
non appartiene deterministicamente a tutti, ma va conquistata
mediante l’esercizio della virtù e della socialità umana,
il che, per un filosofo, significa in primo luogo disponibilità
alla discussione. Infatti, è noto che, per Aristotele, chi vive la
vita delle piante è il negatore del principio di non
contraddizione, cioè colui che si preclude ogni possibilità di
parlare e di entrare in relazione dialettica con i suoi simili. La
felicità dipende dal filosofare, che però, a sua volta, è un’operazione
complessa e richiede disponibilità continua alla discussione,
ammissione della possibilità di abbandonare le proprie convinzioni,
qualora si rivelino erronee: anche in questo consiste il
dispiegamento della socialità umana, l’unica condizione che
consente all’uomo di differenziarsi davvero dagli dèi e dai
bruti, convivendo felicemente con i propri simili.
Bibliografia essenziale:
Platone, Fedro, Rusconi 1994.
Platone, Repubblica, Mursia 1990.
Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. M. ZANATTA, Milano,
Rizzoli 1991.
Aristotele, Metafisica, trad. it. G. REALE, Milano, Rusconi
1993.
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