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La televisione specchio della storia



Italo Moscati con Piero Comandè



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Ci alziamo dal letto e il primo gesto riflesso è il "clic" del telecomando. Il televideo scorre velocemente: che cosa sarà successo? Ci aspettiamo un attentato, un massacro, una rappresaglia. Il palinsesto televisivo, la telecamera, la fiction fanno la storia, spesso in diretta: il crollo delle twin towers lo dimostra.

Ma l'occhio e l'orecchio faticano a lavorare insieme, non di rado codificano un messaggio che mortifica la ricchezza della realtà che le immagini ci consegnano. Si preferisce la spettacolarizzazione di questo o quel dettaglio della vicenda storica, oppure la costrizione delle immagini in una rete di parole che produce una storia generica e opaca.

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Sono temi che la guerra in Afghanistan ha reso, se possibile, ancora più attuali. La carenza di ampi servizi giornalistici, l'invadenza delle parole, rischiano di fare della storia in diretta la tappezzeria di una storia cieca e muta. Che fare?

Di questo e altro abbiamo discusso con il professor Italo Moscati, docente di Storia delle Comunicazioni di Massa all'Università di Teramo, scrittore e regista, che per la TV ha diretto i documentari "Passioni nere" ("La grande storia di Rai3"), "Cuore di TV", "Babylon TV" e "La guerra perfetta".

Lei parla spesso di strappare la "tappezzeria" delle trasmissioni televisive che si occupano di storia, che cosa vuol dire?

Per me la tappezzeria è quel flusso di parole che rispecchiano più la volontà di dominare l'inquietante presenza dell'immagine, che non di cercare di capire. Il linguaggio delle immagini è tutt'altra cosa dalla lettura del libro che ci ha consegnato la cultura umanistica. L'immagine in genere non parla da sola, ha sempre bisogno di un autore, parla in nome dell'autore. C'è un titolo e allora parla a nome di questo titolo. Quando i grandi fotografi mettono accanto alle loro opere la dicitura "senza titolo", in realtà danno già un'indicazione, a chi guarda, delle possibilità infinite di lettura che in qualche modo l'autore presuppone.

In che modo la televisione interviene sulle immagini della storia?

Con la televisione, il campo di ricerca dell'uso delle immagini e della parola diventa infinito ed è legato alla capacità dell'autore stesso di rendere creativo questo rapporto. Quello che dà fastidio è che l'apparato, sia esso Rai o Mediaset, si mette in mezzo tra questa creatività e le immagini, determinando una prevaricazione della parola sul visual. La televisione, specialmente quando si occupa di informazione e anche di storia, è ancora pedagogica. Invece non si consente che registi e storici si confrontino su temi come il revisionismo, sviluppando ognuno il suo concetto. In televisione prevale una via di mezzo, per cui alla fine non si prende mai posizione, la televisione deve essere sempre la "voce del padrone", cioè la voce che scioglie tutti i nodi invece di lasciarli semplicemente esporre a chi li ha studiati.

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Quali sono i confini di questa "pedagogia"?

Da questa manipolazione delle immagini deriva una pedagogia che illustra gli interessi stretti dell'azienda, che pur volendo essere attendibile opera in una dimensione così "privata" che le forzature sono inevitabili. In questo campo la televisione privata sembra un'imitazione di tutto quello che la Rai ha fatto in questi anni, espungendone la provocazione, il confronto, tutto ciò che è frattura e lasciandolo solo all'interno di contenitori dove i conduttori, sia in Rai che in Mediaset, finiscono per diventare dei "tutor" dello spettatore che cuciono, rabberciano, cercano l'equilibrio, rilanciano, assumendo la statura di figure gigantesche mentre in realtà sono, come noi, dei poveri uomini.

Lei ha diretto una serie di Combat film, utilizzando il materiale girato da cineoperatori americani durante la II guerra mondiale, ce ne può parlare?


Ho dato il titolo di Combat film alla trasmissione, che non si poteva chiamare, come volevano, "Italia '44", sarebbe stato un modo per uccidere il materiale, mentre "Combat film" risultava più cinematografico, dunque più appetibile. Ho diretto la seconda serie della trasmissione, non la prima, quella che all'epoca della sua messa in onda suscitò tante polemiche. Scopo della seconda serie era di rimediare al disastro di quella che l'aveva preceduta, e ciò che mi premeva maggiormente correggere era l'assenza di rispetto per l'immagine che la prima aveva evidenziato.

Su quella serie erano stati versati commenti, opinioni d'ogni genere. Questo falso pluralismo è tipico della Rai, per cui per ogni argomento servono il prete, l'uomo di destra e di sinistra, lo psicologo, il sociologo e forse anche lo psichiatra. Io penso che le immagini vadano prese per quello che sono. Le persone titolate a parlarne sono quelle che riescono a capirle: chi con le immagini lavora, o gli esperti che hanno qualcosa di specifico da dire sull'argomento che viene presentato dalle immagini. Difendevo un approccio più rigoroso e scientifico rispetto all'opinione che amalgama il tutto per poi non ricavarne altro che la pedagogia del tamburo battente, fine a se stessa.

L'uso delle fonti audiovisive le ha posto particolari problemi?

Credo molto dipenda dalla capacità individuale di leggere i documenti e di guardare le immagini. Un documento di poche righe consente di sviluppare un discorso, se si è capaci di interpretarlo. Per l'immagine è lo stesso. Io non prediligo l'uno o l'altro formato, penso che entrambi siano utili.

In che misura l'attualità internviene sui mass media e sulle fonti?

Viviamo in una società che invece di arricchirsi di documenti si riempie di carte e così facendo finisce per impoverirsi. Nel 1944 c'erano i cineoperatori che raccontavano la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio l'avanzata degli Alleati in Italia, oggi non abbiamo troupe in Afghanistan. Le informazioni non vengono più dai giornali, ma dal Pentagono, o dagli accoliti di Bin Laden. Non ci sono operatori o registi che autonomamente ci possano dare vera documentazione.

Ci appare solo un cielo notturno solcato da razzi, non vediamo altro. Ne "La guerra perfetta", andato in onda recentemente su Rai Uno, ho cercato di mostrare come sia cambiata l'informazione dai tempi della guerra del Vietnam: allora vedevamo le troupe, gli elicotteri, i villaggi filmati passo passo ... oggi dopo Baghdad e la Somalia, vediamo solo una messa in scena del conflitto inb corso, oppure i soliti cieli solcati da stelle e lampi.

Sembra che la divulgazione storica abbia imboccato la via della "fiction"...

E' così. Se lei fa una trasmissione sul nazismo e vuole stupire, perché il nazismo interessa sempre per via del suo fascino perverso, deve calcare la mano con i miti del sangue, del sacrificio, del martirio in nome della razza: del resto i campi di concentramento sono qualcosa che sta molto vicino al genere horror. E poi c'è la "soap opera" che è il suo corrispettivo comico. Le storie d'amore di certi personaggi storici sono spesso proposte come fini a se stesse, senza far comprendere come si collocano nel quadro storico-politico. Si incoraggia anche il narcisismo di massa, e questo la televisione lo fa spesso e bene. Trasmissioni come "Novecento" ci fanno sentire tutti quanti più informati di quello che siamo in realtà; la gente si specchia lì e smette di documentarsi.

Sopravviverà la storia alla televisione?


La storia è una materia che in televisione finisce per esserci perché la televisione oggi è la storia stessa. La televisione ha fatto sì che nella rappresentazione complessiva della nostra storia siano presenti, oltre alle battaglie e agli scontri politici, il costume, la moda, l'intrattenimento, l'informazione. Tutto entra a far parte della storia quotidiana nella quale siamo coivolti.

Per il futuro sono ottimista. Penso che occorra non accettare tutto aprioristicamente, ma cercare di capire. I mass media ci fanno correre il rischio di diventare noi i loro strumenti, ma noi possiamo difenderci utilizzando una certa consapevolezza critica. E non possiamo ignorare che la televisione, cambiando, racconta la nostra storia.

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