L’apprendista tredicenne
Francesco Roat
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Erri De Luca, Montedidio, Feltrinelli 2001, pp.142, Lire 23.000.
Confesso che, dopo aver letto lo splendido romanzo di De Luca Tre
cavalli (Feltrinelli, 1999), ho detto ad amici e conoscenti: “Ecco,
ci siamo, questo è il suo capolavoro. Sarà difficile per lui
scrivere altri testi così suggestivi, tanto essenziali e pregnanti.
Un autore, per bravo che sia, può mica sfornare sempre un libro
più bello dell’altro come ha fatto fin qui De Luca. Stiamo a
vedere cosa combina ancora; attendiamolo al varco della prossima
prova perché non penso riesca a far meglio di così”.
Invece mi tocca fare ammenda, e sono felice di farlo perché il suo
ultimo racconto, Montedidio, è una meraviglia di prosa
poetica in grado d’incantare il lettore dalla prima pagina all’ultima;
è una perla narrativa in forma di fiaba per adulti, scandita in
capitoletti brevi ma intensissimi; una sorta di poema senza le
cesure dei versi. E’ tutto questo e molto altro ancora: un testo
dal tono oracolare, un romanzo di formazione, una storia d’amore,
un racconto a tratti surreale ma ben ancorato alla fisicità, una
narrazione avvincente giocata sul registro personalissimo d’una
scrittura sontuosamente metaforica, icastica, allusiva, dove ogni
parola cade giusta nel rigo e ogni frase ha un ritmo musicale da
litania profana.
Innanzitutto il luogo dove è ambientata questa
storia, Montedidio, un misero quartiere napoletano in cui vive il
protagonista: ragazzino tredicenne dall’occhio destro “cecatiello”,
figlio di uno scaricatore portuale nonché apprendista presso la
bottega del falegname mast’Errico. E già il nome di questo
rilievo - di questo formicaio scavato nel tufo e affollato da un
turba di popolo sempre alle prese col comune rovello di mettere
insieme il pasto con la cena - rimanda a ben altro ambito, a ben
altro topos: quel monte di Dio del quale parlano i Salmi e a
cui, secondo le Sacre Scritture, ascenderà “chi ha le mani
innocenti e il cuore puro”.
Così, figura speculare rispetto al ragazzo che ogni sera sale sulla
sommità più alta del quartiere per le prove di lancio del suo bumeràn
è Rafaniello: un gobbo scarpaio ebreo scampato all’Olocausto: un
nano generoso coi “puverielli”, il quale, lungo l’ennesima
tappa del suo viaggio verso Gerusalemme, è finito a Napoli giusto
presso “un altro Montedidio, come un turista che ha sbagliato
prenotazione”.
Rafaniello si comporta come un santo e parla come un salmista;
inoltre ha un segreto di cui mette a parte il ragazzo: dentro la sua
gobba stanno crescendo le ali che un giorno gli permetteranno di
volarsene al vero monte di Dio. Però il giovane apprendista non ha
solo due guide che lo indirizzano nell’impervio cammino della vita
materiale e spirituale. Una terza e non meno significativa maestra
è Maria, coetanea dell’io narrante ma, com’egli afferma, “I
tredici anni suoi sono più cresciuti dei miei”. Sarà infatti
Maria “che sa le mosse delle donne” e già “sta in un corpo
arrivato” a iniziare il ragazzo alla sessualità e all’amore -
anzi all’ammore con doppia emme, perché detto in tal modo
suona “più tosto, più materiale” - ed è una vera pagina da
antologia quella in cui De Luca descrive così castamente e
sensualmente il loro primo rapporto.
A narrare, comunque, è sempre una voce infantile (non a caso il
libro si chiude nel segno d’un cambio di registro sonoro da parte
dell’apprendista): la voce dell’innocenza, della presenza e dell’autenticità,
mediante una parlata a tratti popolaresca e dai felici innesti
dialettali; resa più preziosa per le metafore e le similitudini
esemplari, volte a comunicare con un’intensità inaudita emozioni
e agnizioni folgoranti. Non è racconto orale, in presa diretta,
tuttavia. Il cecatiello tiene una specie di diario, scrivendo
su uno scarto di bobina donatagli da un tipografo (e non suoni
irriverente il parallelismo tra questo rotolo con quello della Torah).
Sullo sfondo della storia che lega il ragazzo a Maria, mast’Errico
e Rafaniello, gli anni dell’ “ulaòp”, dell’Italia che si
avvia verso un boom che non sembra certo sfiorare minimamente
Montedidio e i suoi poveri abitanti. A lato, sfila una teoria di
personaggi minori benché magistralmente tratteggiati e a loro modo
significativi per il racconto. Dal padre del narratore alla madre
(che subito scompare dalla scena per finire, e poi morire, in
ospedale) al padrone di casa di Maria che ha più volte abusato
della ragazza - approfittando del fatto che la sua famiglia non può
pagare l’affitto -, alla moltitudine dei puverielli: alla
folla chiassosa degli umili e dei semplici che salgono e
scendono per Montedidio attraverso giornate che durano appena “’nu
muorzo”, un morso, lungo le quali accade tutto e niente, ovverosia
la vita.
Così tra i vichi fatiscenti di un quartiere che per il realismo
magico con cui è descritto ricorda assai la città de Il mare
non bagna Napoli di Anna M. Ortese, il nostro giovane
apprendista è costretto a farsi grande anzitempo senza quasi
avvedersene. E’ quindi con meraviglia stupefatta che egli all’improvviso
scopre “il corpo cresciuto, la bocca di Maria, le ali di
Rafaniello, quanta abbondanza è arrivata senza chiedere”. In
quanto tutto ciò è giunto inaspettato, gratis: come per grazia,
appunto.
Così la storia si avvia rapida alla fine che avviene in concomitanza
con quella dell’anno. La notte del trentun dicembre, infatti, Rafaniello,
Maria e il tredicenne si danno appuntamento “sul tetto di Montedidio”.
In uno scenario degno di una tela di Chagall, il ciabattino prende
letteralmente il volo seguendo quello del bumeràn scagliato
dal ragazzo; ma non è all’insegna dell’idillio o del sogno ad occhi
aperti che si chiude il romanzo. In una virata improvvisa il tono
da surrealmente onirico si fa drammatico e realistico. Tutto preso
dal volo magico di Rafaniello, il giovane non ha scorto il padrone
di casa che sta insidiando Maria. E’ un attimo e l'uomo viene scagliato
dalla terrazza nel vicolo. Il lato oscuro, il male irreparabile
fa quindi la sua comparsa segnando con la cruda iniziazione del
suo marchio aggressivo il noviziato alla vita.
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