Rosario, undici anni,
professione mariuolo
Tina Cosmai
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Diego De Silva, Certi bambini, Einaudi 2001, pp.148, lire 20.000
Una città mai denominata, eppure riconoscibile nel linguaggio
di un romanzo che la racconta in tutte le sue contraddizioni, il suo
malessere, la sua miseria, sociale e morale: Napoli, la città in
cui vive Rosario, undici anni e delinquente di professione.
Rosario è il protagonista di Certi Bambini di Diego De
Silva, autore napoletano che vive a Salerno; un romanzo che sembra
un’istantanea di una realtà denunciata e dimenticata. Il mondo
dei bambini napoletani, quelli dei quartieri, quelli che vivono in
strade strette e fitte di palazzi in cui si fa fatica a vedere il
sole, il cielo, in cui la promiscuità è l’essenza stessa della
vita; esistenze che si intersecano tra i vicoli, tra gli odori, tra
le parole che salgono direttamente dalle viscere.

De Silva ritrae una realtà drammatica, attraverso
un linguaggio fortemente veritiero, che non censura espressioni
impulsive tipiche di un contesto passionale e tragico. Rosario un
mattino si alza, prepara la colazione per sé e per sua nonna Lilina,
poi si veste da calciatore ed esce per andare ad uccidere un uomo. E’
il suo lavoro. Non pensa a ciò che sta per fare, ma il suo corpo e
la sua mente sono attraversati da sensazioni intense, sconosciute e
dolorose che egli non riconosce mai come proprie. Le lascia
scivolare, come estranee.
“Un momento prima di sparare Rosario sente nella mano, insieme
alla pistola, la vita che sta per togliere. E’ una sensazione che
gli va dritta alla testa”. Rosario “scaccia” ogni traccia
della sua vittima sul suo corpo, il sangue per esempio, come se quel
gesto efferato potesse svanire come fumo nel cielo.
La tragicità e la bellezza della storia di Rosario sta proprio in
questo sentire ma non riconoscere la crudeltà della sua vita. Su
ogni atrocità egli cala il sipario di un pensiero che si assopisce,
che ascolta le reazioni dolorose del corpo con distacco, come
separate dall’anima che le medita. Rosario vede il mondo “da
lontano”, è così assente dai pericoli della vita che non pensa
nemmeno alla morte.
Eppure, in questa storia si alternano momenti di vita drammatica,
immagini di una realtà degradata ad altri in cui risaltano mondi
vivibili, normali. Rosario ruba e uccide, ma aiuta anche,
frequentando un centro di volontariato. Due realtà di vita diverse
vissute allo stesso modo, con inconsapevolezza. Qui si innamora di
Caterina, di un amore che non trova sfogo nelle sue parole, nelle
sue azioni e quando la ragazza morirà, Rosario “ogni giorno l’ha
dimenticata un poco. Il ricordarla sempre gliel’ha tolta”.
La dimenticanza, l’oblio, la stanchezza dopo l’assassinio,
espedienti per isolare un dolore che non può essere contenuto. Il
dolore dell’offesa alla propria dignità, ancora acerba ma viva,
il dolore di non poter vivere una vita libera dalla violenza, il
dolore del desiderio cocente di essere protetto, amato. La
ribellione di Rosario a tutto ciò scuote il suo corpo in spasimi di
sofferenza, una ribellione non riconosciuta ma che invade le sue
membra. L’unico modo per non soffrire è non pensare, isolarsi, in
una sorta di atonia emozionale.
“La pistola è un momento, quando la cacci. Quello si deve
trovare acciso prima che capisce che ci è successo. Insieme alla
pistola si cacciano pure le palle. E se non cogli al primo colpo è
meglio che te ne vai”. La storia di Rosario colpisce direttamente
al cuore, intrisa di una lirica che oltrepassa ogni schema
letterario; il modello è la vita stessa derubata del suo diritto d’essere
vissuta, del suo diritto alla felicità, alla scelta. L’amore è
dimenticanza, come il dolore e la rabbia, questa poi serve solo per
non sentire la paura di uccidere.
Certi bambini hanno perduto il diritto ai timori e alle
incertezze che fanno crescere, e vivono la vita in un vuoto che
probabilmente non riusciranno mai a colmare. Il romanzo di De Silva
è una testimonianza che tocca l’animo, è un grido che si apre
spietato in una città in cui tutto è ammesso con rassegnazione,
come se la vita non contenesse speranza. E chi, se non i bambini,
sono simbolo di speranza.
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