Si vede la mostra ma non le opere
Josef Kosuth con Nina Fürstenberg
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A Josef Kosuth, il celebre artista concettuale americano, qui a
Venezia, per la Biennale, tra un pranzo di lavoro e una conferenza
stampa, chiediamo che cosa pensa di questa edizione della manifestazione
internazionale dell’arte contemporanea.
"Ogni mostra è fatta di due elementi", attacca. "Ci
sono le opere individuali e poi c’è la mostra stessa in quanto opera.
Per me questa è come una specie di costruzione intellettuale ambientale,
un ambiente artistico che significa qualcosa, ma non c’è nessuna
opera particolare che io abbia trovato davvero emozionante, niente
che mi abbia colpito perché di speciale interesse in sè."
Meglio la mostra nell’insieme che le singole opere?
Quello che conta è forse il fatto che il curatore Harald Szeemann
non sia un vero storico dell’arte. Lui non guarda alle opere
ma tra le opere. E io dico che è proprio negli spazi tra
le opere che si trova il significato della mostra. Di fatto i lavori
che ha scelto sono insignificanti e ordinari perché gli importava
costruire il significato che lui aveva in mente. Il che non rappresenta
sempre la situazione migliore perché un artista si possa esprimere.
Ma il tema posto da Szeemann è molto generale: la “platea umana”,
l’essere umano al centro del lavoro artistico. Non era un vincolo
troppo stretto per gli artisti.
Certo, c’è comunque una contiguità tra ciò che è figurativo e ciò
che è umano, ma questa situazione ha spostato l’interesse dei visitatori
dalle opere al tema generale, alla tesi del curatore. E non basta
qualche episodio che attira più sguardi a modificare il giudizio.
Lei si riferisce per esempio al gigantesco “Boy” di Ron Mueck.
Questo è un classico di ogni Biennale, qualcosa che cattura lo sguardo
dei giornalisti. E’ uno dei problemi che si ripete sempre uguale.
Di fronte a un pubblico così vasto, a una folla, succede che l’artista
si mette in testa di catturare semplicemente più attenzione di altri.
L’esempio più ovvio che mi viene in mente fu quello di Hans Haacke,
una installazione di qualche anno fa che fu pensata veramente soltanto
perché la sua fotografia finisse sulla rivista illustrata tedesca
Stern.
E questa ricerca del sensazionale, questo desiderio di fare tendenza,
di diventare moda fa necessariamente male agli artisti?
Il problema non è nuovo per gli artisti, ce l’hanno sempre avuto.
E’ un aspetto in cui entrano in gioco, diciamo così, i rapporti
di forza. Anzi, forse la misura della grandezza di un artista sta
anche nel modo in cui risolve questo problema.
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