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Il bipolarismo vincente e i progetti di Amato



Luciano Cafagna



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Il bipolarismo si è veramente affermato, nel nostro sistema politico, con le elezioni del 14 maggio? Molti lo dicono, anche a sinistra, con qualche compiacimento che sembra quasi lenire, in parte, l’amarezza della sconfitta. Ma è vero, che il nostro sistema politico si sia finalmente assestato sul quel moderno bipolarismo cui l’elettorato italiano sembra aspirare dopo la fine del comunismo ? E’ vero solo in parte. Una maggioranza vincente abbastanza compatta sembra esserci, con buoni margini di eletti in Parlamento da poter governare senza timori di ‘ribaltoni’ dovuti a ‘tradimento’ di singoli o gruppetti . E sembra esserci un’altra importante condizione: l’elettorato che ha espresso questa maggioranza non ha una estensione schiacciante, e, pertanto, virtualmente - sottolineo il ‘virtualmente’ - conserva una piena capacità numerica di esprimere, in future elezioni, una maggioranza diversa.

Non c’è, insomma, un clima da ‘partito unico’. Un buon sistema politico democratico moderno è quello nel quale l’elettorato tende a dividersi a metà e il sistema elettorale permette, però, alla parte, sia pur di poco, maggiore, di governare con un buon controllo della situazione parlamentare. Nonostante i dubbi sulle imperfezioni della legge elettorale, questa, tutto sommato, almeno ‘tecnicamente’, sembra aver funzionato. Voglio aggiungere che le elezioni amministrative del 14-21 maggio hanno, dal canto loro, rafforzato l’indicazione di una capacità dell’universo elettorale, in determinate condizioni, di esprimere maggioranze diverse da quella parlamentare. A Roma, Napoli, Torino, e altrove, questo è accaduto. E quel che è accaduto a Roma, Napoli, Torino mostra che in questo paese può esservi un buon bilanciamento democratico dei poteri, garanzia contro ogni prevaricazione.

Perché allora dico che l’affermazione secondo la quale il bipolarismo si sarebbe finalmente affermato da noi è vera ‘solo in parte’? Perché, se esiste una maggioranza in grado di governare, non è ancora chiaro se esista una minoranza in grado di svolgere una opposizione sufficientemente compatta e sufficientemente efficace da potersi presentare all’elettorato come veramente alternativa. E se questo non si verifica il sistema bipolare continua ad essere ‘imperfetto’. Nella precedente legislatura l’imperfezione c’era ma era simmetrica. Lamentavamo le sconnessioni e debolezze del centro-sinistra, ma vedevamo e sapevamo che quelle del centro-destra erano maggiori. Molti dicevano - lo fece lo stesso D’Alema a Gargonza - che questo era, paradossalmente, uno dei punti di forza del centro sinistra. “Se Atene piange - dicevamo - Sparta non ride”. A un certo punto, però, Sparta si è messa a ridere piuttosto soddisfatta. E invece Atene piange ancora. E piange pure più forte.

Una democrazia bipolare, una democrazia dell’alternanza, non può considerarsi completa se uno dei due poli resta solo virtuale, e non mostra di essere in grado di sfuggire alla condanna di una mera virtualità. La situazione, nel nostro sistema politico, è, da questo punto di vista, nettamente peggiore che nel 1996. Nel 1996 non solo il Polo della Destra aveva le ossa un po’ rotte dalle divisioni, e da una molto malsicura prova di governo, ma il Centro-sinistra, dal canto suo, pareva aver trovato un buon equilibrio interno - dopo l’illusione egemonica occhettiana della “gioiosa macchina di guerra” - intorno a Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi, in una struttura di coalizione armonica, senza egemonismi, in cui una pluralità di componenti accettava la missione del risanamento economico, dell’ingresso nella nuova Europa monetaria, del riordinamento industriale, della riforma del sistema politico italiano. Il centro sinistra si presentava con uomini e idee all’altezza di questa missione, il centro destra, con tutta chiarezza, no. E ciò persino a una parte non secondaria del mondo delle imprese. Sappiamo quel che è accaduto dopo.

Persino il grande successo dell’entrata della lira nell’Euro non ha ricevuto valorizzazione politica. Gli ‘eroi’ di quella brillante operazione furono straordinariamente premiati - Prodi a Bruxelles, Ciampi al Quirinale - ma tolti di mezzo rispetto alla guida dell’esecutivo, il cui volto - di fronte alla opinione pubblica - cambiò così radicalmente. Un partito post-comunista, solo velleitariamente trasformato, volle assumere, un po’ prematuramente, la guida diretta del paese: non era pronto lui, e non era pronto il paese. Le elezioni regionali della primavera 2000 aprirono nel paese un nuovo stato di crisi. E aprirono una crisi nel centro-sinistra. Il partito post-comunista cominciò una zoppicante marcia all’indietro, terminata con la sponsorizzazione e benedizione di una nuova leadership centrista, quella di Francesco Rutelli. Ma altro era avanzare ed evolversi nel 1996 dietro gli autorevoli Prodi e Ciampi e la loro missione (“nazionale” avrebbero detto Togliatti e Amendola) altro ‘abdicare’ da un trono a favore di un giovane principe ereditario, freddo e risoluto a non mollare l’osso. (Non lo mollerà neanche a Prodi, quando questi tornerà da Bruxelles, si può starne sicuri).

Oggi il centro-sinistra è sconfitto, ma è anche bicefalo. Ha due leader, parimenti duri e tenacissimi, Massimo D’Alema, apertamente tornato alla ribalta, e Francesco Rutelli, che ha tutta una vita davanti a sé e non perde occasione per farlo capire. Tutti e due intelligenti, sia pur di diversa intelligenza, e di lodevole ambizione, ma in misura forse eccessiva ed esplosiva. Il risultato del 14 maggio è stato dunque per la sinistra una doppia sconfitta: ha perso il governo e ne è uscita spaccata, forse frantumata. Ci sono due partiti di media dimensione, i DS e la Margherita rutelliana. E, nonostante la loro dimensione media, anch’essi piuttosto disuniti al loro interno. Sono disuniti, ciascuno, da due fattori : l’idea della propria funzione e la disponibilità-indisponibilità a una leadership interna forte e prepotente. I democratici di sinistra sono combattuti fra l’idea di una ‘specializzazione a sinistra’ e quella di un partito di centro-sinistra a tutto campo. I gruppi della Margherita paiono incerti fra una specializzazione da ‘partito cattolico di sinistra’, o da partito di centro sinistra con monopolio sul centro, quando non coltivino - come forse Rutelli - l’idea di un grande personalismo unitario speculare rispetto a quello di Berlusconi. Ce ne è di che ridursi reciprocamente a brandelli.

Può esservi, in questo stato di fosche divisioni, uno spazio per iniziative veramente unificanti? Potrebbe esserlo la campagna avviata nel paese da Giuliano Amato? Il suo obiettivo sembra quello di arrivare ad una vera formazione socialista maggioritaria di centro-sinistra di stampo europeo, la cui mancanza è la maggiore anomalia del sistema politico italiano. Questa anomalia è chiaramente l’eredità di quella che caratterizzò gli anni 45-89 della nostra storia: la presenza, da noi, del più forte partito comunista dell’occidente. Era un partito dotato di molte proprie peculiarità, ma era pur sempre un partito comunista, per collocazione internazionale, diffidenze da cui era circondato, ampiezza delle aree massimalistiche di base, e, forse soprattutto, per la struttura disciplinare interna.

Dopo l’89, questo partito, come ben si sa, anche a prezzo di una scissione a sinistra, ha imboccato il cammino della socialdemocratizzazione. Ma certe cose non si possono improvvisare storicamente. Le socialdemocrazie europee maggioritarie hanno una lunga tradizione, una cultura che si è forgiata nella difesa dal comunismo e nella polemica contro il comunismo: non nascono da una conversione di comunisti che, inevitabilmente, quando accade, risulta di ineguale, a volte ‘inegualissimo’ livello. In molti casi è maturata da tempo, in molti altri è avvenuta per causa di forza maggiore, a denti stretti, con permanenza di stimmate culturali difficilmente eliminabili.

Giuliano Amato ripropone oggi il cammino della ‘Cosa Due’, finito nelle secche già qualche anno fa? Molti lo sospettano o lo temono. Non è certamente l’intenzione di Amato, che, quando, al tempo della “Cosa Due” capì il sostanziale fallimento della operazione - un ennesimo, sia pure in condizioni ambientali un po’ mutate, assorbimento di ‘indipendenti di sinistra’ di stile ‘comunistissimo’’ - si tirò indietro opportunamente. Non avrebbe oggi alcuna ragione di mutare convinzioni e atteggiamento. Ma a quali condizioni potrebbe oggi avere reale successo un grande tentativo unitario a sinistra? Le circostanze nelle quali questo tentativo può essere fatto sono quelle che ho sopra sommariamente descritto. Non si può non tenerne conto. Su queste premesse, e senza eluderle, se ne deve discutere. Perché è vero e innoppugnabile che uniti si può vincere, ma divisi certamente si perde.

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