| Al gioco del linguaggio 
 
 
 Gianni Vattimo
 
 
 
 Articoli collegati:
 Colui che separò il
          naturalismo dall'empirismo
 Chi può dirsi suo discepolo?
 Al gioco del linguaggio
 L'andar per funghi e l'arte
          della filosofia
 Gli usi di un filosofo,
          come e perché
 Questo articolo è apparso sul numero 64 di Reset, del
          gennaio-febbraio 2001
 
 Giochi linguistici, forme di vita, rassomiglianze di famiglia: per uno
          che non è mai stato uno specialista di Wittgenstein, e anzi si è
          formato in una cultura filosofica prettamente “continentale” - per
          capirci, più Hegel e Heidegger che Hume e Moore - queste sono le
          espressioni in cui si riassume l’eredità wittgensteiniana e la sua
          attualità nel clima filosofico di oggi. Il clima filosofico di oggi,
          del resto, non è univocamente definibile, com’è ovvio; sicché l’oggi
          di cui parlo e rispetto a cui misuro l’attualità di (questi
          concetti di) Wittgenstein è molto soggettivamente qualificato, anche
          se, spero, non esclusivamente individuale.
 
 La nozione di giochi linguistici è quella che si usa considerare
          caratteristica del cosiddetto “secondo Wittgenstein”, quello delle
          Ricerche filosofiche pubblicate postume nel 1953. Con essa
          Wittgenstein assume nei confronti del linguaggio una posizione nuova
          rispetto a quella del Tractatus: non più nomi e proposizioni come
          raffigurazione di oggetti e stati di cose; ma linguaggio come insieme
          di strumenti per trattare, in modi diversi e con regole diverse,
          situazioni diverse e molteplici. Mentre per il Tractatus le sole
          proposizioni sensate erano quelle riducibili alla descrizione di stati
          di cose verificabili in termini fisici, e di fisica come scienza alla
          fine, qui una frase ha senso se segue le regole specifiche del gioco
          linguistico in cui si colloca: come dire “coi santi in chiesa coi
          fanti in taverna”.
 
 Anche i santi, dunque, che nel Tractatus non sembravano avere diritto
          di cittadinanza, qui si ritrovano in qualche senso legittimati, non
          vengono messi da parte come qualcosa o qualcuno di cui non si può
          sensatamente parlare. La funzione critica della filosofia rimane,
          però: se qualcuno vuole parlare di santi secondo le leggi della
          fisica o applicare loro le leggi della gravità (a che altezza è
          arrivata la Madonna se è stata assunta in cielo con il corpo duemila
          anni fa?) sbaglia e il filosofo glielo farà notare. Come si fa ad
          affermare, però, che anche chi parla dell’assunzione in cielo della
          Vergine Maria discorre sensatamente? Si guarda all’uso e si ricava
          da esso un insieme di regole che caratterizzano quello specifico
          linguaggio: se c’è molta gente che si intende, che distingue vero
          da falso, che prende decisioni pratiche parlando di santi e madonne,
          ebbene questo linguaggio ha un suo senso e ciò che il filosofo può e
          deve fare è aiutare a dissolvere i problemi che nascono quando in un
          certo gioco linguistico si pretende di applicare le regole di un
          altro.
 
 Gli errori e i “crampi” del pensiero che, per il primo
          Wittgenstein, derivavano dal non tener conto della verificabilità
          fisica di una proposizione, qui vengono riportati invece al mancato
          rispetto dei confini di ciascun gioco. Non è chiaro se anche la
          raffigurazione puntuale di stati di cose fosse un gioco, per il primo
          Wittgenstein : se lo era, aveva certo una cogenza normativa che è
          ignota ai giochi di cui egli parla più tardi. Per i quali vale solo
          una cogenza di tipo pragmatico: se non ti intendi con gli altri, non
          vale la pena di giocare con loro, ti troverai sempre a mal partito. Ma
          non potresti pensare di giocare da solo? Anche così, se non fissi
          delle regole e non le rispetti, il gioco non è più tale.
 
 Qualunque nome arbitrario tu dia a una certa cosa e o stato di cose,
          se non continui a usarlo anche dopo e lo muti continuamente non ti
          serve a niente. Già Aristotele, del resto, aveva insegnato che l’uomo
          ha la ragione, cioè il discorso, il logos, in quanto è anche un
          animale sociale. Ma non ci sono regole assolute che si possano
          indicare una volta per tutte, per esempio facendo un catalogo completo
          dei giochi linguistici che l’uomo (l’Uomo) può giocare; si
          possono sempre inventare nuovi giochi, o anche nuovi modi di giocare i
          giochi esistenti. è sempre difficile e rischioso dire se uno che
          predica certe cose è un profeta o un pazzo, se sbaglia semplicemente
          i calcoli o sta inventando una matematica nuova.
 
 Il secondo Wittgenstein, dunque è uno che ha scoperto la storicità
          del linguaggio, “superando” la rigidità positivistica della sua
          prima opera (anche se è molto verosimile che a lui interessasse già
          allora ciò di cui non si può, sensatamente cioè fisicamente,
          parlare: non si spiegherebbe altrimenti l’interesse religioso che
          egli visse sempre con una tensione tragica). è di qui in poi che la
          sua filosofia interessa profondamente anche i “continentali”. Non
          solo perché si accolgono sempre a braccia a aperte i convertiti .
 
 Del resto anche nella filosofia del secondo Wittgenstein la storicità
          ha un ruolo secondario; non si tratta di storicismo ma di pragmatismo,
          in fondo. Anche Heidegger, però, partiva, in Essere e tempo, da una
          visione pragmatistica del linguaggio: il mondo , più che un insieme
          di oggetti, è un sistema di strumenti che si dà a noi nel
          linguaggio, il quale così può essere definito “la casa dell’essere”.
          Di qui Heidegger giunse a pensare l’essere in termini di storia e di
          destino. C’è qualcosa del genere in Wittgenstein? Egli sembra
          essere rimasto fondamentalmente a una concezione sincronica e
          orizzontale dei giochi linguistici: ci sono molti giochi, l’interessante,
          per risolvere o dissolvere i problemi filosofici è di ricollocare
          ogni proposizione nel suo gioco appropriato, di più, forse, la
          filosofia non può fare: se preferisci la chiesa o la taverna sono
          affari tuoi, vivrai meglio però se quando ti trovi nell’una o nell’altra
          situazione ti adegui alle sue regole proprie.
 
 Anche questa conclusione può però esser letta in modo rigido o in
          modo elastico: se rigido, allora è quello che Marcuse aveva chiamato
          “l’uomo a una dimensione”, sul piano sociale il conformismo più
          totale (benché anche a voler rispettare le regole proprie del gioco
          si possano fare rivoluzioni; il conformismo è spesso acquiescenza
          passiva a equivoci che violano le regole; ma qui il discorso si
          complicherebbe: gli equivoci accettati da tutti non sono regole da
          osservare anch’esse?); sul piano etico politico, forse, il dominio
          dei “tecnici” e degli esperti. La democrazia, o anche solo una
          vita non dilaniata da schizofrenica separazione dei domini, non sarà
          proprio il luogo del “metagioco”, cioè della rimessa in questione
          delle regole dei giochi e anche dei limiti tra di essi?
 
 Le forme di vita e le rassomiglianze di famiglia sono forse modi per
          procedere oltre l’orizzontalità astorica che caratterizza la
          filosofia analitica, e anche per cercare di risolvere le sue possibili
          implicazioni irrazionalistiche. Che sono visibili se si insiste sul
          fatto che non si può individuare una metaregola che gerarchizzi i
          giochi , e neppure che fondi davvero, se non in base a ragioni
          pragmatiche, di convenienza, in imperativi ipotetici, il dovere di
          rispettare le regole di ciascun gioco. Un linguaggio, in quanto non si
          definisce se non attraverso le sue regole d’uso, rimanda sempre a
          una forma di vita; spesso, però, a situazioni vitali specifiche: si
          può frequentare la chiesa di domenica e andare all’osteria le sere
          della settimana.
 
 La società in cui si vive, tuttavia, parla una lingua che comprende
          anche “metaregole” per i linguaggi specifici: anche la frase “coi
          santi in chiesa..” ecc. è una “metaregola” rispetto a quelle
          che vigono all’interno delle due specifiche situazioni vitali. E
          poi: le regole che vigono in chiesa e quelle che vigono nell’osteria
          saranno regole di “gioco” allo stesso modo? Che entrambe le
          attività siano giochi si può dirlo solo se si astrae da una
          quantità di aspetti che le caratterizzano; Wittgenstein pensa che
          ciò che hanno in comune sia il fatto di avere delle regole che si
          applicano - una sintassi, un vocabolario, una grammatica. Ma anche a
          causa delle profonde differenze egli non concepisce il gioco come una
          essenza che si ritrovi uguale in tutti i giochi; l’uso della stessa
          parola è qui giustificato piuttosto in termini di rassomiglianza di
          famiglia. I giochi si assomigliano tra loro, ma solo perché il gioco
          A ha i caratteri a,b,c; il gioco B ha i caratteri bcd; il gioco C ha i
          caratteri cde; e così via, di modo che a un certo punto ciò che li
          collega è la catena delle somiglianze che prosegue, anche se i tratti
          del gioco A non si ritrovano più nel gioco F, eccetera.
 
 Naturalmente si può intendere anche questa nozione in termini
          sincronici e orizzontali. Tuttavia, essa risulta più feconda -dal
          punto di vista dei problemi a cui accennavo prima, soprattutto quello
          dell’irrazionalismo - se la si legge in termini storici. Le essenze
          che ci permettono di collegare oggetti e situazioni diverse ma simili
          sono dei Wesen nel senso storico in cui ne parla Heidegger, sono modi
          di darsi in una concatenazione che si riflette nel linguaggio e che,
          in fondo, non è altro che la storia dell’essere - la storia della
          cultura dentro cui ci troviamo “gettati” e alla quale, in
          molteplici sensi (conoscitivi, etici) dobbiamo (cor)rispondere.
 
 La razionalità, se c’è qualcosa che si può chiamare con questo
          nome, è la corrispondenza, interpretativamente ricostruita (e dunque
          carica di responsabilità individuale), a questo tramandamento - non
          solo del passato ma anche delle culture molteplici del presente. è
          davvero un modo di uscire dall’irrazionalismo della pura e semplice
          constatazione della pluralità delle forme di vita e dei giochi
          linguistici che vi corrispondono? A me sembra di sì, almeno - ma non
          è poco - nel senso che alludere a una “storia dell’essere”, che
          non si svela mai tutta perché i singoli giochi sono sempre solo
          giochi parziali (Heidegger: l’essere è sempre “epocale”, si
          sospende mentre si dà negli enti e nelle loro aperture storiche),
          significa poter sempre di nuovo domandare e rispondere con argomenti,
          non fermarsi alla “insuperabilità” dei confini di un gioco
          rifiutando come insensata la domanda sul metagioco a cui dovrebbe
          sottostare.
 
 In che senso, poi, si può - sempre dal punto di vista anche “soggettivo”
          da cui io, ma tutti, guardo e guardiamo a Wittgenstein e alla sua
          eredità - affermare che queste nozioni sono attuali per il dibattito
          filosofico di oggi? C’è in giro una certa voglia di “ritorno alla
          realtà”, magari attraverso lo studio delle facoltà conoscitive non
          più con gli strumenti del trascendentalismo kantiano - che
          giustamente aveva finito per storicizzarsi nell’idealismo hegeliano
          e, più di recente, nell’esistenzialismo ontologico heideggeriano -
          bensì con i mezzi inediti forniti dall’intelligenza artificiale.
 
 Ricostruendo quindi una sorta di rigido confine tra ciò che si può
          dire - nei limiti del corretto funzionamento della ragione disegnato
          dalle scienze cognitive - e ciò di cui si dovrebbe tacere.
          Wittgenstein, benché non solo lui, aiuta in modo decisivo a resistere
          a questa ennesima tentazione di appiattire il pensiero sulla
          raffigurazione delle cose come (si dice) sono, ritrovando il gusto per
          il gioco della filosofia come prosecuzione attiva di un cammino
          storico che, se contiene indicazioni ragionevoli per le nostre scelte,
          certo non ha mai l’ideologica cogenza di ciò che si spaccia per la
          “realtà”.
 
 Articoli collegati:Colui che separò il
          naturalismo dall'empirismo
 Chi può dirsi suo discepolo?
 Al gioco del linguaggio
 L'andar per funghi e l'arte
          della filosofia
 Gli usi di un filosofo,
          come e perché
   i e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
        da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui Archivio
        Attualita' |