L'andar per funghi e l'arte della
filosofia
Marilena Andronico
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Questo articolo è apparso sul numero 64 di Reset, del
gennaio-febbraio 2001
“Sono io soltanto incapace di fondare una scuola oppure nessun
filosofo può farlo?” è questa una domanda di sapore antico che
Wittgenstein formula nei Pensieri diversi (p.114) e a cui risponde in
tono acido e molto poco filosofico “Io non posso fondare una scuola
perché, in realtà, non voglio essere imitato. In ogni caso non da
coloro che pubblicano articoli in riviste di filosofia” (ibidem). Se
però trascuriamo momentaneamente l’ostilità che la risposta
esprime nei confronti di un ben determinato ambiente filosofico e ci
concentriamo sul senso generale della domanda possiamo guardare anche
altre annotazioni per comprendere se e come Wittgenstein avrebbe
potuto fondare una scuola. Sempre nei Pensieri diversi troviamo questa
lunga citazione:
“C’è gente che dice, certe volte, di non poter dare un giudizio a
proposito di questo o di quest’altro perché non hanno studiato
filosofia. è un’irritante assurdità, perché si presuppone che la
filosofia sia una qualche scienza. E si parla di essa un po’ come
della medicina. - Ma una cosa si può dire: chi non ha mai compiuto
una ricerca di carattere filosofico, come ad esempio quasi tutti i
matematici, non è provvisto degli organi visivi adatti a una ricerca
o a una prova del genere. Un po’ come chi non è abituato a cercare
nel bosco fiori, bacche o erbe non ne trova affatto, perché il suo
occhio non è affinato e non sa in quali punti particolari deve
cercarli. Così, l’inesperto in filosofia passa davanti a tutti i
punti dove si celano sotto l’erba delle difficoltà, mentre l’esperto
si ferma proprio lì e sente che una difficoltà c’è, anche se non
l’ha ancora vista. - E non ci si deve meravigliare quando veniamo a
sapere quanto a lungo anche l’esperto, che pure si accorge che una
difficoltà c’è, deve cercare per trovarla. Quando una cosa è ben
nascosta, è difficile trovarla” (p.61).
Qui troviamo da un lato il tema ricorrente della difformità della
filosofia rispetto alla scienza, un tema reso esplicito già nel
Tractatus logico-philosophicus ai paragrafi 4.111 e 4.112, dove
Wittgenstein precisa che la filosofia non è una delle scienze
naturali, nel senso che essa non è una dottrina, ma una attività il
cui scopo consiste nel rischiaramento logico dei pensieri. Risultato
dell’attività filosofica non sono “proposizioni filosofiche”,
ma il chiarificarsi di proposizioni. Dall’altro lato, tuttavia,
troviamo in questa citazione una metafora dell’attività filosofica
che presenta aspetti nuovi e in parte inesplorati, il più rilevante
dei quali mi sembra essere che anche la filosofia intesa come
attività e non come dottrina è in buona parte insegnabile: si
tratterà di provvedere il filosofo degli organi visivi adatti, allo
stesso modo in cui chi va nel bosco deve imparare ad abituare i propri
occhi a vedere nascosti tra l’erba le bacche o i fiori.
Alla luce di questa metafora, che peraltro vorrei far slittare di
poco, quanto basta per passare dalle bacche ai funghi, possiamo dire
che per Wittgenstein tra il filosofo e lo scienziato vi è la stessa
differenza che c’è tra un cercatore di funghi e un biologo
(micologo). Ciò che ci distingue un cercatore di funghi da un biologo
è che il primo, sebbene sappia riconoscere i funghi, non è tenuto ad
esprimersi sulla loro natura, mentre per il secondo potrebbe valere
esattamente l’opposto. Se comunque alla fine, per non far torto a
nessuno, decidessimo di mettere in luce ciò che un filosofo, un
cercatore di funghi e un biologo possono avere in comune dal punto di
vista della metafora wittgensteiniana, troveremmo di nuovo che questo
qualcosa non sarebbe un sapere teorico, ma sempre e soltanto il fatto
che tutti e tre hanno acquisito un insieme di tecniche per l’individuazione
e il riconoscimento di ciò che si aspettano di trovare quando danno
inizio alla loro ricerca: problemi filosofici, il primo; funghi, il
secondo; microrganismi e simili, il terzo.
Così, sorvolando sulle differenze, troviamo che tra un filosofo
wittgensteiniano e un biologo, grazie alla mediazione svolta dal
cercatore di funghi, non c’è l’incolmabile distanza che possiamo
pensare ci sia quando ci atteniamo ad una lettura solo superficiale
delle ripetute osservazioni in cui Wittgenstein distingue nettamente
filosofia e scienza. („Il mio scopo è diverso da quello dell’uomo
di scienza, il corso del mio pensiero è diverso dal suo“, Pensieri
diversi p.26).
Questo risultato si accorda peraltro con il fatto che Wittgenstein
desume buona parte dei suoi “metodi” di indagine (le “differenti
terapie” di cui parla al & 133 delle Ricerche Filosofiche) dalla
considerazione delle indicazioni metodologiche contenute nelle opere
naturalistiche di Goethe. L’indagine filosofica, al pari di quella
morfologica, deve cercare di mettere davanti ai nostri occhi (ibid.
126) l’insieme delle forme d’espressione che sono già da sempre
sotto i nostri occhi (ibid. 129), ma che noi non notiamo a causa della
loro semplicità e quotidianità, in modo da ottenere una visione
chiara (o perspicua) del modo in cui ci impigliamo nelle nostre regole
(ibid. 125). Così, in questa prospettiva, fare filosofia significa
imparare a “considerare con attenzione i dettagli” (ibid. 51), “osservare
da vicino ciò che accade”(ibid. 51), fornire “descrizioni precise
e particolareggiate delle anomalie” (Pensieri diversi p.133) e più
in generale, essere provvisti “di uno sguardo acuto per ciò che sta
davanti agli occhi di tutti” (ibid. p.118).

Ma se le cose stanno così, qual è allora la scienza e, in
particolare, quali sono i metodi (scientifici) a cui Wittgenstein
pensa quando insiste sulla differenza tra filosofia e scienza? Di
certo egli pensa alla matematica e alla logica e ai loro metodi: non
è affare della filosofia, ad esempio, “risolvere la contraddizione
per mezzo di una scoperta matematica o logico-matematica; essa deve
invece rendere perspicuo lo stato della matematica che ci inquieta
…” (Ricerche filosofiche 124) . Stando a Wittgenstein, i
matematici non sono e non possono essere buoni filosofi a causa del
loro stile precipitoso: “In filosofia non si può abbreviare nessuna
malattia del pensiero. La malattia deve fare il suo corso naturale, e
la cosa più importante è la guarigione lenta. (è per questa ragione
che i matematici sono così cattivi filosofi)” (Zettel 382). Ecco
allora che “Nella corsa della filosofia vince chi sa correre più
lentamente. Oppure: chi raggiunge il traguardo per ultimo” (Pensieri
diversi p.34). Questa idea ha delle conseguenze anche sullo stile
della scrittura filosofica: “Con i miei numerosi segni d’interpunzione
in realtà io vorrei rallentare il ritmo della lettura. Perché vorrei
essere letto lentamente. (Come leggo io stesso)” (ibid. p.126).
L’addestramento del filosofo come quello del cercatore di funghi e
del biologo richiede tutto il tempo necessario all’affinamento della
sua sensibilità nei confronti degli usi linguistici. Ed è in questa
prospettiva che possiamo comprendere ciò che Wittgenstein intende
quando afferma che vi è una strana somiglianza tra un’indagine
filosofica ed una estetica (Pensieri diversi p.55) e che ciò che più
lo avvince è la soluzione di problemi concettuali ed estetici, non
già quella dei problemi scientifici, che pure lo interessano (ibid.
p.146). Sarebbe un errore pensare che con ciò, in virtù della
mediazione svolta dall’estetica, possa trovare espressione una
qualche apertura da parte della filosofia alla pratica ermeneutica.
Come è stato ben messo in luce da Bouveresse 1991, le riflessioni di
Wittgenstein su “interpretare” e ‘seguire una regola’ (Cfr.
Ricerche filosofiche 201, 202, 206) non ci consentono di annoverarlo
tra quei pensatori che identificano la comprensione con l’interpretazione.
Per Wittgenstein infatti è chiaro che, affinché abbia senso parlare
di ‘interpretazione’, bisogna che questa si eserciti su di una
prassi (a seguire regole) a cui siamo stati addestrati, cosicché tale
prassi non può (logicamente) essere a sua volta interpretazione di
alcunché. Piuttosto, l’indagine estetica e quella concettuale si
assomigliano, perché entambe consistono nell’attività di mettere a
confronto o di raggruppare tra loro determinati casi fino a che non si
raggiunge un senso di soddisfazione, fino a che cioè, non si ha l’impressione
che qualcosa, che prima era fuori posto, trovi la sua giusta
collocazione.
Una perplessità estetica, proprio come una confusione concettuale non
si risolve o dissolve adducendo spiegazioni causali (spiegazioni che
potrebbero riguardare i nostri stati psicologici), ma sviluppando una
sensibilità per le regole con cui siamo stati addestrati ad esprimere
i nostri giudizi estetici (Lezioni e conversazioni p.58). Se dunque un
problema filosofico ha la forma “non mi ci raccapezzo” (Ricerche
filosofiche 123), uno estetico ha la forma “Che cosa non va in quest’abito,
come andrebbe modificato, ecc.” (Pensieri diversi p.55). Resta
tuttavia ancora senza risposta la domanda posta in apertura di queste
considerazioni: perché Wittgenstein non ha fondato una scuola, visto
che l’attività filosofica, in quanto arte o tecnica dell’individuazione
e del riconoscimento dei problemi, è in linea di principio
insegnabile? Il fatto è che l’educazione della sensibilità da sola
non basta. Ad essa deve aggiungersi secondo Wittgenstein uno sforzo
immane della volontà che trattenga il cercatore di problemi
filosofici e delle loro soluzioni dal dire più di quanto non gli
competa, e in particolare che lo liberi dalla tentazione di adagiarsi
sui risultati raggiunti, trasformandoli nel punto di partenza di un’elaborazione
teorica.
Wittgenstein ha conosciuto questa difficoltà personalmente, ai tempi
del Tractatus, quando, affascinato dalla possibilità di istituire un’analogia
tra il modo di rappresentare da parte delle proposizioni e quello
delle immagini, aveva elaborato e posto a fondamento dell’essenza di
tutto il linguaggio la teoria raffigurativa della proposizione.
Nonostante il senso del libro pretendesse di essere “etico”
(Lettera a Ludwig von Ficker), l’atteggiamento del filosofo e il
modo di procedere dell’indagine avevano lo stesso carattere
precipitoso che in seguito verrà attribuito ai matematici. Essi,
cioè, impedivano proprio al filosfo di vedere e di tenere a bada le
molte insidie che la volontà pone lungo il cammino del suo lavoro
intellettuale. L’affernazione contenuta nella Prefazione del
Tractatus secondo cui “verità dei pensieri” in esso espressi è
“intangibile e irreversibile”, così che il filosofo sente di
poter dire di “avere definitivamente risolto nell’essenziale i
problemi” (p.24) suona arrogante e presuntuosa.
E' un classico errore delle filosofia (e lo è stato del Tractatus),
dice Wittgenstein, ritenere di avere risolto nell’essenziale i
problemi filosofici e al tempo stesso demandare il trattamento dei
casi particolari alla scoperta di nuovi metodi, che si presume
avverrà in un futuro prossimo. Al contrario: “La vera scoperta è
quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio -
Quella che acquieta la filosofia, così che essa non è più
tormentata da domande che mettono in questione la filosofia stessa.
Invece, adesso si indica un metodo mediante esempi, e la serie di
questi esempi la si può interrompere. Ma sarebbe più giusto dire:
vengono risolti problemi (eliminate inquietudini, difficoltà) non un
problema (….) Ma allora con il nostro lavoro non arriviamo mai alla
fine! Naturalmente no, perché non ha fine” (Filosofia pp. 75-77).
Ora, come si è detto, per accettare questo carattere infinito del
lavoro “Si deve superare una difficoltà della volontà non dell’intelletto”
(Pensieri diversi p.43). Per questo motivo, in fondo “il lavoro
filosofico è propriamente …. piuttosto un lavoro su se stessi. Sul
proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su cosa si
pretende da esse)” (ibid. p. 40-41). Questa è la parte solitaria
dell’impresa filosofica, quella che rende vano ogni tentativo di
fondare una scuola e che, in uno spirito del tutto diverso da quello
che animava il Tractatus, porta Wittgenstein a dire: “Scrivo quasi
sempre soliloqui. Cose che mi dico a quattr’occhi”. (Pensieri
diversi p.142).
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